mercoledì 24 giugno 2009

Istruzione ed educazione nell'ultimo cinquantennio borbonico

PRIMA PARTE

Tratto dal saggio di GIOVANNI RAFFAELE, “Istruzione ed educazione nell'ultimo cinquantennio borbonico”, in “Contributi per un bilancio del Regno Borbonico”, edito dalla Fondazione Lauro Chiazzese, 1990.

Adattamento a cura di Fara Misuraca e Alfonso Grasso

Il contesto

Nell'Europa del primo Ottocento si scontrarono due teorie scolastiche: una vedeva nella diffusione dell'istruzione un mezzo per diminuire la distanza tra le classi sociali, favorendo così anche lo sviluppo economico; l'altra sosteneva tutto il contrario, vale a dire si adoperava a tenere basso il livello di alfabetismo per non rompere il già instabile equilibrio sociale e per mantenere lo status quo economico. Negli Stati italiani era generalmente forte la seconda concezione socio-pedagogica e politica.

L'esito di questa battaglia politico-culturale dipendeva dall'intreccio di molteplici e concomitanti fattori, quali il retroterra economico e sociale nei singoli stati, le direttive politiche, lo stato generale della cultura, il ruolo degli intellettuali e il loro rapporto con i detentori del potere, da un lato, e con le masse incolte, dall'altro. Influivano anche lo stato economico e la considerazione sociale di cui godeva - o meno - il corpo docente. Dando per scontato il quadro d'insieme della società siciliana della prima metà dell'Ottocento, cui faremo riferimento implicito, ci concentreremo in questa sede a sottolinearne gli aspetti che più strettamente condizionano l'istruzione.

L'istruzione (in particolar modo quella primaria) è una variabile dipendente dalle condizioni socio-economiche, ma, a sua volta, le influenza spesso in maniera determinante. Da questo punto di vista, la situazione del Piemonte, della Toscana, del Lombardo-Veneto preunitari differisce sotto molti aspetti da quella del Regno delle due Sicilie. È vero che sovrani e governi della Restaurazione non poterono annullare completamente le riforme del periodo napoleonico. Essi preferirono adattarle ai nuovi assetti, cercando di contemperarle con gli obiettivi fissati dal congresso di Vienna. Ciò vale anche per i Borboni: basti pensare al riassetto della proprietà fondiaria avviato con l'eversione della feudalità e al riordinamento amministrativo. Ciò che distingue il Regno delle due Sicilie è il disegno complessivo e la velocità e la direzione impresse al processo di commistione di vecchio e nuovo.

In generale, negli stati preunitari, l'urgenza di affrontare la questione dell'alfabetizzazione di massa era legata, da un lato, alla necessità di poter disporre di una manodopera qualificata rispetto all'introduzione delle macchine e all'aggiornamento delle tecniche produttive, agronomiche e industriali; e, dall'altro, all'embrionale emergenza di una questione sociale, che lo stesso sviluppo economico contribuiva a innescare. Le modalità con cui il problema dell'istruzione popolare si presenta e le risposte che a esso vengono date risentono di questa duplice sfida, sicché la questione dell'alfabetizzazione non è mai disgiunta da quella di una più complessiva "educazione", che deve fare del suddito un cittadino cosciente e consenziente. Questo processo, lungo e contraddittorio, conoscerà accelerazioni e sbocchi più organici dopo l'unità e soprattutto con la maturazione di una moderna industria e la formazione di un apparato burocratico adeguato ai nuovi livelli produttivi e alle nuove implicazioni politico-amministrative.

La miriade di opuscoli, almanacchi, giornali, il fiorire di gabinetti letterari, progetti pedagogici, leggi e decreti, le relazioni ai congressi degli scienziati nel trentennio precedente l'unità fanno fede di questo travaglio e del tentativo di affrontare la questione, garantendo al contempo sviluppo economico ed equilibri socio-politici.

Si tratta comunque di un processo notevolmente differenziato sul piano regionale, come dimostrano, tra l'altro, i diversi livelli di alfabetizzazione alle soglie dell'unità.

Questi temi si presentano con un'angolazione particolare, nel Regno delle due Sicilie. La storiografia ha ampiamente sottolineato l'inadeguatezza del regime borbonico nel campo dell'istruzione popolare. Se, tuttavia, la politica scolastica dei Borboni è conseguenza delle più generali scelte economiche e sociali, non va sottovalutata la particolare collocazione dei ceti intellettuali meridionali.

L'economia meridionale, nei decenni successivi alla Restaurazione, presentava carenze strutturali, nonostante l'abolizione formale del feudalesimo e le spinte governative in direzione della formazione di una piccola e media proprietà che facesse da supporto - in chiave antibaronale - alla dinastia. Scioglimento dei diritti promiscui, abolizione dei diritti angarici e personali, di privative e corporazioni, quotizzazione demaniale avevano contribuito per lo più alla crescita e all'arricchimento di una nuova borghesia fondiaria, che si accostava alla vecchia aristocrazia, mutuandone spesso modi di gestione, comportamenti sociali, limiti culturali, timore e disprezzo delle masse contadine e del crescente sottoproletariato urbano. Non ultime conseguenze di questo processo erano la stagnazione delle tecniche produttive e l'immobilismo dei rapporti di produzione, che non richiedevano perciò, se non in misura poco rilevante, una qualificazione e un aggiornamento della manodopera, quale si andava delineando in altri stati della penisola.

Nel Regno delle due Sicilie i ceti dirigenti non sentivano questa esigenza e, anzi, temevano fortemente i rischi di un'istruzione che avrebbe potuto elevare i livelli di coscienza - e, con questi, lo spirito rivendicativo - delle masse popolari, soprattutto contadine: timori che le vicende del 1812, del 1820-1821 e del 1848 acutizzarono enormemente. C'è dunque una parte non irrilevante del ceto intellettuale decisamente contraria a ogni forma d'istruzione popolare, di cui paventa le conseguenze sul piano degli equilibri sociali e delle credenze religiose. All'interno dei settori conservatori c'è anche chi non è sfavorevole pregiudizialmente all'alfabetizzazione delle masse, purché impartita all'interno di un più ampio disegno educativo, teso a elevarne la moralità e le virtù civiche, ridotte, in quest'ottica, all'obbedienza, alla sottomissione e all'accettazione delle gerarchie sociali e di potere. Non è privo di significato il fatto che le resistenze conservatrici si ingigantiscano sempre nei periodi di più acute tensioni sociali.

Queste voci si levano anche nel decennio napoleonico, tentando di frenare uno slancio riformatore che per lo più rimane però a livello programmatico. In un rapporto a Murat del 1809 così leggiamo: "Non vi è occupazione utile se di classe in classe non vi sieno i gradi d'istruzione, che additino la buona scelta della fatica. Gli Agricoltori, i Negozianti, i Possidenti, i Militari, i Nobili, debbono essere istruiti, ma ciascuno in proporzione della propria classe"[1]. Persino un riformatore dello spessore di Matteo Galdi, in un rapporto del 1817, pur auspicando l'alfabetizzazione popolare, mette in guardia dai rischi di un'istruzione uniforme: "Le popolazioni non devono essere composte tutte da scienziati, altrimenti le arti di prima necessità non verrebbero in alcuna guisa esercitate e mancherebbe quella diversità di mestieri, e di professioni, che unisce gli uomini col vincolo de' comuni bisogni, e costituisce l'ordine della società"[2].

Questa perplessità si trasforma in rifiuto totale nei settori più oltranzisti, sconvolti dalla rivoluzione del 1848 che, nel campo scolastico, era culminata nel progetto De Sanctis, secondo il quale l'istruzione popolare era un dovere dello Stato, che avrebbe dovuto "rimuovere ogni impedimento, che possa nascere alla sua diffusione e al suo progresso" [3], sancendone perciò gratuità e obbligatorietà.

I ceti dirigenti intellettuali-funzionari borbonici organizzano una offensiva in grande stile contro l'esperimento desanctisiano sullo "Scandaglio del popolo, ebdomadario di medicina domestica, agronomia, tecnologia", compilato ed edito da Ciolfi nel 1849. Nel numero del 3 febbraio l'indesiderabilità e gli svantaggi etici, economici, sociali dell'istruzione popolare vengono fatti derivare da valutazioni generali, per così dire filosofiche, da cui discende la necessità dell'ineguaglianza degli uomini: "esistono tra le differenti classi una distanza necessaria a un livello diverso, il cui mantenimento è indispensabile non solo alla prosperità ma alla esistenza sociale. E poiché sconveniente si è addimostrata la vaga fantasmagoria della eguaglianza, non troviamo neppure più ragionevole la istruzione ampliamente diffusa nel popolo".

È questo dunque il punto cruciale, da cui discendono ovvie conseguenze sul piano operativo. Non solo l'istruzione non risponde a effettive esigenze popolari, ma è addirittura controproducente, poiché conduce a una sorta di ineluttabile infelicità dei più umili. "D'altra parte abbiamo ragione di credere che il principale godimento delle classi minute sta nel non conoscere la loro umiliante inferiorità e gli ingiusti svantaggi, ch'è non sarebbero svantaggi qualora passassero inavvertiti". La vera luce per le menti e i cuori viene dalla religione piamente e affettuosamente insegnata dalla cattedra, perché solo "dalla religione emergono la vera sapienza, l'animo sinceramente fratellevole, la ben intesa non inorpellata eguaglianza, indarno sperata ne' fremiti anarchici, nel virulento mendacio, nelle opere egoistiche dell'uomo e nel disordine!".

Nell'ambito di una simile concezione non è evidentemente prevista né auspicabile l'istruzione popolare, se non – come vedremo - temperata dalle opportune misure cautelative: "Francamente, fosse pure una eresia, senza temere l'altrui anatema, dichiariamo essere antisociale, antiprogressivo far penetrare in generale l'istruzione fin nelle ultime classi. Non sarebbe altro che disseminare tra esse germi di danni incalcolabili, le di cui principali e più sicure conseguenze sarebbero disgusti, gelosie, invidie, scisma sociale. Ed una volta messo in risalto il loro avvilimento, la loro degradazione, difficile sarebbe contenerle, che, come molla compressa, terrebbonsi sempre in atto di scoppiare, mettendo in soqquadro l'ordine, le leggi, la società. Onde... la strada agevolissima e più breve è straripare in uno sfrontato e vituperevole comunismo, in cui affogasi ogni dritto, ogni germe di virtù, ogni sentimento religioso". Non più ignoranti, le masse "sdegnerebbero il mestiere, al quale son chiamate dalle loro condizioni individuali, e, perché penoso e disgustevole e non molto lucroso, crederebbonsi autorizzate a lasciarlo e seguire invece massime rovinose, onde permettersi ogni arbitrio, ogni abuso, non riconoscendo altro imperio che quello delle proprie incontinenti passioni". Insomma, si rovinerebbe la pace delle popolazioni, facendo loro "concepire de’ desideri tanto penosi, quanto il far intravedere il giorno a chi è condannato a eterna cecità; ed accrescendo in tal guisa l'orrore di tanta privazione lo si rende molesto ed importuno ad altri che gode di tal beneficio".

Bando dunque all'istruzione diffusa capillarmente secondo gli "scomposti" progetti di liberali e democratici in odore di criptocomunismo. Ma non bisogna con ciò credere che il giornale sia pregiudizialmente contrario all'alfabeto. "Noi vogliamo e desideriamo altamente che si dia una istruzione, ma adatta, confacente, utile davvero. Che anzi sarebbe nostro pensiero fosse in due parti distinta: educazione morale e religiosa in primo luogo; secondariamente istruzione tecnologica, o di arti e mestieri. La prima deve consistere nella esatta conoscenza della religione, de' doveri, della morale, nella quale va benanche compresa implicitamente la più parte dell'igiene, a fin di renderne gli atti, le parole, le azioni scevre di selvaticume, più proprie, conforme a ragione, più gentili, eque e veramente fratellevoli. L'altra, che comprende l'agronomia con tutte le arti e manifatture, dev'essere largamente insegnata e con esercizio assolutamente pratico onde sia alla portata di tutti e del maggior vantaggio all'intera società"[4].

Questo tipo di impostazione [5], del resto, in qualche modo è fatto proprio anche da molti oppositori, le cui preoccupazioni di carattere sociale - come vedremo più avanti - freneranno lo sviluppo di un'educazione maggiormente in armonia con le trasformazioni complessive della società.

D'altronde, anche i disorganici e tiepidi slanci riformistici dei Borboni, pur trovando frange intellettuali disponibili ad adeguarvisi e a tentare di sviluppare gli spazi concessi, si esauriscono rapidamente, anche per la difficoltà di un reale collegamento tra gli stessi ceti intellettuali e i settori popolari più interessati alla diffusione dell'istruzione. Da ciò chiusure al nuovo, insensibilità ai bisogni dei ceti subalterni, pastoie burocratiche, inerzie amministrative e culturali che il sistema produce e che, a loro volta, sul sistema si rifrangono. "Non meraviglia perciò - commenta R. Moscati - che il sovrano fosse destinato a scontrarsi sin da principio con l'apatia, l'impreparazione, il gretto quietismo di larghe zone della borghesia delle provincie, che non seconda neppure la cauta linea di riformismo. Senza dire che il re deve fare i conti con la lentezza e la passività di una burocrazia che, nel complesso, non sa servirsi degli ottimi strumenti avuti in retaggio dall'età precedente, per secondare una decisa azione di riforma"[6]: giudizio forse un po' severo, in quanto settori intellettuali non secondari continuano, tra il 1815 e il 1860, a elaborare progetti e contenuti riformatori anche di notevole spessore, come vedremo. Ma si tratta di settori pur sempre minoritari, i quali debbono misurarsi con un'atmosfera generale, se non di aperta ostilità, quanto meno di indifferenza e di apatia [7].

In questa cornice si colloca la politica governativa, oscillante tra oculata repressione e timide istanze innovative, tra oscurantismo e paternalistiche concessioni dall'alto.

Nel vivo della polemica postunitaria ci fu chi dipinse le realizzazioni borboniche nel campo dell'istruzione come praticamente irrilevanti, ravvisandovi una delle cause principali del ritardo accumulato al cospetto di altre e più avanzate regioni d'Italia; e chi, per spirito di polemica nostalgica o (più raramente) mosso da rispetto per la verità storica, attraverso ricerche accurate, sottolineava invece gli esiti positivi della politica educativa del regime, contrapponendola a quella sconsacrata - e perciò gravida di pericoli - fatta propria dai ceti dirigenti postunitari [8].

Dai dati statistici di cui disponiamo, pur nella loro relativa attendibilità, emerge abbastanza chiaramente lo stato di arretratezza della pubblica istruzione, al momento dell’unità, nelle province dell'ex-Regno delle due Sicilie, il cui tasso di analfabetismo è il più alto del paese. Ma ciò non deve fare sottovalutare le pur incomplete iniziative e realizzazioni borboniche, né il dibattito che le accompagnò. I gruppi dirigenti borbonici, infatti, come del resto quelli degli altri paesi restaurati, non cancellarono completamente la legislazione napoleonica, che appariva in ogni caso la più adatta per un adeguamento delle istituzioni alle irreversibili trasformazioni socio-economiche, tentando al tempo stesso di smussarne gli aspetti più incontrollabili. La politica educativa borbonica perciò è oscillante, segue il pendolo dei moti rivoluzionari e delle regressioni conservatrici, favorisce lo sviluppo di nuovi sistemi pedagogici e, al tempo stesso, finisce con l'affidare l'insegnamento alla chiesa: è, in altre parole, contraddittoria come contraddittorio è l'ambiente in cui si esplica.

I primi progetti scolastici

L'esordio borbonico era stato promettente: con l’espulsione dei gesuiti (1767) e gli incarichi di governo a Tanucci, si misero in cantiere alcuni progetti, come quello di Filangieri e il "Piano delle scuole" di Genovesi, la bozza di riforma universitaria di Beccadelli Gravina marchese di Sambuca, le indicazioni (1792) di Valletta relative a un "Progetto semplicissimo di riforma dedotto non solo dall'esempio delle ben formate università dell'Europa, ma dalla ragione adattata alle nostre circostanze". Ma si trattò, per lo più, di progetti che non conobbero mai una pratica attuazione, specialmente con il declino della stella tanucciana. La realizzazione più duratura, che si proietterà oltre il decennio napoleonico fin dentro gli ultimi anni della Restaurazione, è l'introduzione del metodo normale nell'insegnamento, a opera dell'abate De Cosmi, cui appunto fu affidata la direzione degli studi nel 1788. Non bisogna però sopravvalutare l'incidenza effettiva dell'opera di De Cosmi, che si invischiò spesso nella complessa rete di interessi costituiti, difficoltà finanziarie e resistenze amministrative.

Nei primi anni della Restaurazione vengono cancellate le istanze di rinnovamento emerse nella seconda metà del Settecento e la parziale laicizzazione dell'insegnamento avviata da Giuseppe Bonaparte e da Murat; scende il silenzio sui vari progetti che alcuni pedagogisti siciliani avevano elaborato nel 1812 in risposta a un concorso bandito dal sovrano durante il suo esilio siciliano, sotto la spinta delle autorità inglesi e dei democratici isolani.

La Commissione Suprema di Pubblica Istruzione

La ristrutturazione dell'insegnamento è affidata nel 1818 a una Commissione Suprema di Pubblica Istruzione, che predispone scuole primarie gratuite in tutti i comuni e a loro carico.

Nella pratica solo i comuni maggiori, più ricchi e in cui una più vivace pressione dell'opinione pubblica e le elargizioni private di qualche possidente contribuiscono alle precarie finanze pubbliche, si dotano di scuole elementari; nei centri minori e in quelli più poveri l'obbligo è molto spesso disatteso e si mettono in opera espedienti che rendono praticamente impossibile la frequenza scolastica e la vita dei maestri. L'assenza di un piano organico e l'inefficienza dell'apparato di controllo sull'applicazione della legge producono risultati pressoché disastrosi.

Già osservatori contemporanei sottolineavano l'incuria degli enti locali: "E mentre l'ignoranza - scriveva Calà Ulloa nel 1838 - dappertutto è vergognosissima, e mentre ogni Comune, volendo suggerire un risparmio, propone sempre negli Stati discussi la soppressione del maestro di scuola, alcuni tapini scrittori sognano d'essere in Londra o in Filadelfia"[9]. E, di rimando, nello stesso anno, si levava in Sicilia la voce di Benedetto Castiglia: "Né mancavano, il ripeto, del tutto le istituzioni; molte ve ne sono; di molte il Governo ha provvisto il paese; di molte altre e di benefiche leggi, son certo, vorrà di giorno in giorno migliorarlo. Ma le nuove istituzioni ebbero non di rado magistrati tenaci de' pregiudizi antichi, sovente incapaci di capirle, e sempre diffidenti del Governo; e che però le spregiarono, le ressero male, ne si curarono o temettero di rimostrarne al Governo il decadimento e di proporgli e di chiederne mezzi per rianimarle, e renderle quanto doveasi proficue alla Nazione. Fu provvisto istituendo le così dette scuole primarie in tutti i comuni alla istruzione del popolo; quelle scuole esistono tuttavia, se ne eleggono i maestri; ma ne sanno forse i maestri il metodo? si sa leggere dal popolo in Sicilia? Né l'una cosa né l'altra; e di questo danno, che è danno immenso, perché in una Nazione, ove manca l'istruzione popolare, non c'è speranza né mezzi possibili di migliorare l'industria, e di migliorare l'uomo medesimo, e di rinettarlo dai vecchi pregiudizi, e promuoverlo a stato migliore, di questo danno, io dico, forse che se n'è mostrato finora sollecito alcun Intendente, o la Commissione, che veglia all'istruzione ed educazione pubblica? Vi ha in quasi tutti i Comuni scuole elementari, ma con che ordine, ed in che stato? Non si può certo peggiore; e frattanto e chi di coloro, a cui incombeva, ne mosse lamento?"[10].

Mancanza di controllo al centro, inerzia in periferia, ma anche stato precario delle finanze locali. Un rapporto da Melfi nel 1849 sottolineava, per esempio, che "l'istruzione primaria non è curata, anzi vilipesa dagli Amministratori Comunali... [i quali] o arbitrariamente chiudono le scuole, oppure non pagano i soldi mensili ai Maestri, affinché i medesimi non corrisposti cessino dall'insegnare, come in effetti è accaduto"[11]. Gli fa eco dalla Sicilia Serristori, in una sua "Statistica" del 1836: "L'istruzione elementare è intieramente negletta;... pochissimi individui fra il popolo rinvengonsi, che sappiano leggere e scrivere, e se delle scuole elementari ne esistono nelle città principali, i comuni rurali ne mancano pressoché tutti"[12].

Non appare perciò priva di fondamento la conclusione di G. C. Marino, il quale, sottolineando il sostanziale fallimento del lavoro della Commissione, scrive: "Fu quasi eroico, ma pressoché impotente l'impegno volto a sensibilizzare le amministrazioni dei Comuni che spesso rifiutavano finanziamenti e locali. Un certo numero di scuole riuscì a costituirsi, ma molte di esse furono costrette a chiudere e comunque trascinarono stancamente la loro attività. L'istruzione popolare, dunque, a parte le fasi pionieristiche alle quali si è accennato, fu quasi del tutto inesistente. Il citato decreto di Ferdinando I del 1818 non contribuirà granché a migliorare le cose"[13].

Certo, non mancano, specie nel periodo del riformismo degli anni Trenta, ma anche nei decenni precedenti, singoli provvedimenti legislativi e amministrativi e utili suggerimenti da parte dei funzionari governativi: dall'imposizione dell'istruzione nei brefotrofi, all'introduzione del mutuo insegnamento; si pensi ancora all'innalzamento alla dignità di università dell'Accademia palermitana nel 1805 e alla restituzione dell'università a Messina nel 1838, sulle fondamenta dell'antica Accademia Carolina, o, ancora, al decreto del 1856, con cui si predisponeva l'apertura di scuole "serotine" per adulti [14].

Ma si tratta di interventi scoordinati, ora tendenti positivamente a creare un corpo di funzionari fedeli e professionalmente abili, ora “di facciata”, cioè volti a far brillare di luce più viva il regno e la dinastia.

PARTE SECONDA

Note

[1] II rapporto è citato in G. VIGO, Istruzione e sviluppo economico in Italia nel secolo XIX, ILTE, Torino 1971, p. 92.

[2] Ibidem.

[3] F. DE SANCTIS, Scritti pedagogici, Armando, Roma 1959, p. 97.

[4] Le citazioni dallo "Scandaglio del popolo" sono riportate in D. BERTONI JOVINE, I periodici popolari del Risorgimento, Feltrinelli, Milano 1959, pp. 270-273.

[5] Questa concezione riduttiva e paternallstica dell'educazione delle masse, del resto, sopravvive ai Borboni e viene anzi contrapposta a quell'istruzione, almeno programmaticamente laica, che si inaugura con lo Stato unitario. Così, ancora nel 1877, un nostalgico dell’ancien regime, G. Butta, respingendo le accuse di oscurantismo rivolte ai Borboni ed enumerando entusiasticamente le loro iniziative in favore di artisti, scienziati, scuole, insegnanti, alunni bisognosi, ecc., è costretto ad ammettere l'esistenza, allora, di una qualche forma di censura o di inerzia, giustificandola però sul piano etico: "II governo de' Borboni - afferma - avversava soltanto la falsa dottrina, e le produzioni letterarie che tendevano a calunniare la religione dello Stato, ed a seminare il mal costume nelle masse. Perché i governanti di oggi fanno tutto al contrario, circa l'istruzione pubblica, stiamo raccogliendo gli amarissimi frutti della irreligiosità da essi protetta, cioè insubordinazione e disprezzo verso le cose e le persone più rispettabili, scostumatezza, furti, omicidii e suicidii, orrori che pel passato non erano che rari e reputati straordinari avvenimenti". G. BUTTA, I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli, s.l, 1877, pp. 256-257.

[6] R. MOSCATI, I Borboni in Italia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1970, p. 19.

[7] "Ve insomma una differenza di ritmo, di andatura storica, fra la cultura della quale sono portatori gli uomini del ceto intellettuale, e l'arretrata struttura agrario-feudale della società siciliana, che ad essi oppone non già un'aperta ostilità, ma una sorta di passivo torpore che serpeggia tra gli uomini di affari, i funzionari, l'opinione pubblica, e che finisce per mandare a vuoto ogni tentativo di serie innovazioni". R. ROMEO, Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, Bari 1973, p. 278.

[8] Cito ancora da G. Butta: "Moltissimo fece Ferdinando IV di Borbone circa l'istruzione pubblica; anzi potrebbe dirsi francamente che ne fu l'iniziatore, ad eccezione dell'ottime scuole tenute da' Padri Gesuiti che di già erano state disciolte. Nel 1768 si stabili una scuola gratuita per ogni comune del Regno e per ambo i sessi. Un decreto dello stesso anno prescrisse che in tutte le Case de' Religiosi si tenessero scuole gratuite pe' fanciulli, e in ogni provincia s'istallò un collegio per educare la gioventù. È da notare che l'insegnamento era allora libero, malgrado che non si fossero ancora proclamati i Grandi Principii del 1789; in forza de' quali, i così detti progressisti ci han regalato l'istruzione obbligatoria, e tutte quelle pastoie che sono la disperazione dell'attuale studentesca e de' poveri padri di famiglia". G. BUTTA, op. cit., pp. 98-99.

[9] P. CALÀ ULLOA, Considerazioni sullo stato economico e politico della Sicilia, (3.8.1838), citate in E. PONTIERI, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell'Ottocento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1961, p. 240. Calà Ulloa era procuratore generale del Re a Trapani.

[10] B. CASTIGLIA, Sulla riforma delle scuole elementari. Rapporto al cav. Raimondo Palermo, rettore di questa R. Università degli Studi, Lao, Palermo 1838, p. 61.

[11] G. VIGO, Istruzione e sviluppo..., cit., p. 66.

[12] L. SERRISTORI, Statistica dell'isola di Sicilia e del Ducato di Parma, Firenze 1836 p. 16.

[13] G. C. MARINO, La formazione dello spirito borghese in Italia, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 301.

[14] Cfr. A. CRIMI, Contributo all'istruzione pubblica in Acireale nel tempo dei Borboni, Acireale 1974.

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Tratto dal saggio di GIOVANNI RAFFAELE, “Istruzione ed educazione nell'ultimo cinquantennio borbonico”, in “Contributi per un bilancio del Regno Borbonico”, edito dalla Fondazione Lauro Chiazzese, 1990. Giovanni Raffaele è docente universitario.
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ZAZO, L'istruzione pubblica e privata a Napoli dal 1767 al 1860, Città di Castello 1927.

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