Tratto dal saggio di IDA FAZIO, “Istruzione e educazione delle donne nella Sicilia Borbonica”, in “Contributi per un bilancio del Regno Borbonico”, edito dalla Fondazione Lauro Chiazzese, 1990.
Adattamento a cura di Fara Misuraca e Alfonso Grasso
La questione relativa all'istruzione e all'educazione destinata alle donne nella Sicilia borbonica appare molto meno variegata e mossa da dibattiti teorici e metodologici di quanto non lo sia stata quella relativa alla promozione, da parte dello Stato di sistemi educativi destinati a fanciulli e giovani di sesso maschile.
Essa risulta orientata in maggior misura dalla concreta pratica organizzativa o al massimo da discussioni sulle valenze e i ruoli di istituzioni e realtà specifiche, ed entra in contatto solo sporadicamente col dibattito "maggiore", scorrendo parallela come un nume sotterraneo. Dalla metà del Settecento il panorama è quello di una presenza crescente di iniziative, mosse anche da intenti politico-sociali in parte nuovi e senza dubbio organizzati attorno a presupposti ideologici più chiari, a cui però corrisponde una scoraggiante cristallizzazione di contenuti e metodi, bloccati su paradigmi immutati da secoli. La realtà delle iniziative educative destinate alle donne getta così un ponte di continuità - che si intrecciano significativamente alle intenzioni innovatrici o razionalizzatrici - tra l'impostazione sei-settecentesca, fondata sul monopolio delle strutture ecclesiastiche in campo educativo, e quella postunitaria, pubblica, gestita dallo Stato laico. È dunque un problema da affrontare in una prospettiva di più lunga durata: le persistenze inerenti alla questione dei ruoli femminili condizionano pesantemente, con la loro forza d'inerzia, gli strati più profondi di contesti almeno apparentemente in evoluzione.
La questione non è nuova, e non è peraltro da mettersi in relazione diretta ed esclusiva con la reale perifericità, politica e sociale, della Sicilia sette-ottocentesca nel contesto europeo "Poche storie, al pari della storia dell'educazione femminile, possono apparire così ripetitive e prive d'imprevisti", scriveva recentemente M. D'Amelia su "Memoria", recensendo L'éducation des jilles au temps des Lumières. L'autrice del volume, Martine Sonnet, dopo aver studiato la scolarità femminile a Parigi in un'epoca senza dubbio fervente di novità, doveva concludere: "I luoghi dell'educazione femminile ci sono, ma spesso l'assenza di una vera volontà d'insegnamento li riduce a luoghi di ritiro, o di reclusione, dove la formazione fornita si cristallizza attorno alla sola istruzione religiosa" [1].
Per quanto riguarda la Sicilia, i forti elementi di continuità che rendevano così simili le pratiche educative abituali nelle più antiche istituzioni - monasteri, conservatori, scuole pie - a quelle messe in atto successivamente nelle strutture sette-ottocentesche fondate su una consapevolezza più "moderna" delle funzioni dell'istruzione e dell'educazione femminili, vanno rintracciate nell'accordo di fondo tra le parti chiamate a confrontarsi e a intervenire in campo educativo sul ruolo da affidarsi all'elemento femminile nella società. Vi era cioè un'ampia coincidenza di vedute nell'attribuire alle donne una funzione di intermediazione e di trasmissione - di saperi come di valori - e mai un ruolo di produzione degli stessi. Venivano inoltre loro riconosciute, in maniera sempre più consapevole ed esplicita, una serie di "naturali" disposizioni che altrettanto "naturalmente" le avrebbero rese adatte a promuovere - e, ancora prima, a sviluppare in se stesse - gli ambiti etico-pratici della formazione umana, con una assoluta e unanime esclusione di quelli teoretico-formali. La questione dell'educazione femminile risultava così essere, in ultima analisi, una questione di addestramento (e perciò essa coincide quasi perfettamente con l'ambito dell'istruzione primaria, rimanendo tendenzialmente al di fuori da questa prospettiva quella dell'istruzione superiore): occorreva sviluppare rettamente le naturali disposizioni femminili perché queste trovassero la loro funzione più adeguata esercitandosi dall'interno del nucleo familiare, dal quale quel benefico influsso si sarebbe esteso alla società. Proprio nella famiglia la donna si trovava a essere, nelle diverse fasi della propria vita, figlia, sorella, moglie, madre, e quindi nella posizione ideale per trasmettere nei loro vari gradi i valori e comportamenti a suo tempo appresi.
Si comprende così su che cosa si fondasse la possibile compresenza tra intenzioni di promozione in parte innovative e comunque sicuramente meglio organizzate ideologicamente – a partire dalla metà del Settecento la funzione di intermediazione dovrà essere sempre più rivolta verso l'esterno, per cui la personale formazione di ogni singola fanciulla sarà presa in considerazione sempre più esplicitamente nella sua valenza di tramite nei confronti di persone vicine, e sempre meno ripiegata verso un irrealistico modello di perfezione claustrale - e metodi e programmi educativi coincidenti, nei fatti, con quelli delle vecchie istituzioni assistenziali o di reclusione (per quanto riguarda le fasce sociali più disagiate) o dei monasteri (per i ceti più elevati).
La riduzione rigorosa alla sfera etico-pratica delle potenzialità femminili nell'apprendere e nel mettere a frutto quanto appreso faceva sì che anche le più nuove intenzioni educative rivolte alla promozione sociale e umana tornassero sempre a ruotare attorno agli antichi fulcri dell'educazione religiosa, del "ben comportarsi" e dei lavori donneschi, e di elementi di istruzione primaria ridotti allo stretto indispensabile.
Su questi tre elementi si fondava la metodologia educativa messa in atto nei Collegi di Maria. Con la loro ampia diffusione in tutta l'isola essi costituirono l'elemento davvero caratterizzante del sistema d'istruzione femminile della Sicilia borbonica, che per quanto riguarda altri tipi di istituzioni educative femminili presentava un panorama alquanto sguarnito e carente. La loro introduzione segna significativamente una sempre crescente tendenza - da parte di privati benefattori e benefattrici - a indirizzare lasciti con scopi educativi anche alle donne, che fino ad allora erano state beneficate solo a fini di maritaggio e monacazione, a differenza degli uomini cui poteva essere assegnata invece l'educazione in seminario. L'origine della diffusione dei Collegi di Maria sta infatti nell'estensione a diversi istituti religiosi già esistenti, o ad altri da istituirsi da parte di privati laici o di congregazioni religiose, delle Regole dettate ai primi del Settecento dal Cardinale Pietro Marcellino Corradini per il Collegio della Sacra Famiglia a Sezze, nel basso Lazio. Conformemente allo "spirito riformatore" che nel Settecento aveva toccato anche personaggi o istituzioni della Chiesa Cattolica, il Cardinale Corradini aveva ideato, sperimentandolo a Sezze, un vasto progetto sociale fondato sull'intervento su una realtà locale moralmente, ma anche materialmente, degradata. Fulcro di quest'opera sarebbero state le donne, che avrebbero dovuto portare nella società una serie di valori appresi nei Collegi, moltiplicandone a loro volta le portatrici. A questo fine le Regole Corradiniane mettevano esplicitamente l'accento soprattutto su due fattori: la commistione dei ceti sociali da cui sarebbero provenute le educande, indistintamente nobili e plebee; e una pratica - assai elementare, per la verità - di mutuo insegnamento da incoraggiare il più possibile, per cui all'interno dei Collegi le funzioni di maestra avrebbero dovuto essere svolte anche dalle più zelanti convittrici, e, una volta tornate in famiglia, le bambine avrebbero poi dovuto educare a loro volta i fratelli e le sorelle, e le ex scolare divenute spose e madri le loro nuove famiglie.
Un simile progetto destò presto interesse in Sicilia; a Palermo, solo qualche anno dopo che il Cardinale Corradini aveva ottenuto da Clemente XI l'erezione del Collegio di Sezze con la bolla Opus Pium del 1717, nascevano istituzioni con scopi analoghi e che infatti in seguito avrebbero adottato le Regole Corradiniane, come il Collegio sotto il titolo di S. Gioacchino fondato da Don Carlo Vanni all'Olivella nel 1721, o quello sotto il titolo della Presentazione fondato nel 1729 da Don Carlo Ebano al Capo [2]. Fu significativo soprattutto l'interessamento di Francesco Emmanuele Cangiamila - che più tardi con la sua Embriologia Sacra avrebbe ispirato al Duca de Laviefuille l'istituzione della Deputazione delli Figliuoli Projetti - che nel 1732 sostenne apertamente la causa dell'introduzione in Sicilia del sistema dei Collegi di Maria pubblicando a Palermo un Ragionamento sulla utilità e necessità della buona educazione delle fanciulle e dell'Istituto dei Collegi della Sacra Famiglia. Una presa di posizione del tutto coerente con la lettura che il Cangiamila dava dell'importanza della riforma del ruolo e costume dell'elemento femminile per rendere più governabile la vita sociale degradata della Sicilia.
Il Breve Pontificio Cum sicut dilectus del 20 settembre 1734 estese così le norme regolamentari dell'istituto di Sezze ai Collegi già fondati o da fondarsi in Sicilia, con l'approvazione del Regio Exequatur del 18 marzo 1735, che ne faceva dei corpi morali ecclesiastici sotto la dipendenza dell'autorità vescovile [3].
Le Regole Corradiniane prescrivevano minuziosamente tanto gli scopi e il modo di reggersi degli istituti - che erano innanzi tutto dei monasteri, ovvero "associazioni di donne" - quanto le metodologie e i contenuti educativi. Attraverso la lettura di un esemplare delle Regole - le Costituzioni delle convittrici del SS. Bambino Gesù e della sua Sacra Famiglia del Collegio di Maria di Monreale, stampate a Palermo nel 1740 [4] - è possibile evidenziare le peculiari caratteristiche che avrebbero fatto di tali istituzioni un elemento importante, oltre che del sistema educativo, delle strategie di controllo sociale della Sicilia borbonica.
Le monache Collegine, che andavano reclutate anche e soprattutto tra le educande che avessero accettato di divenire novizie con un voto temporaneo biennale di perseveranza, al quale seguiva una prima professione della durata di otto anni che si sarebbe eventualmente conclusa col voto definitivo di permanenza, dovevano "impiegarsi con tutto il loro potere a procurare il bene e la perfezione delle persone del sesso loro, prima col buon esempio e poi con le scuole pubbliche, coll'uso della dottrina cristiana, cogli esercizi spirituali, coll'istruir le figliuole per la Prima Comunione e col tenerle in educazione" [5].
Un'educazione che avrebbe dovuto consistere, secondo il breve di Clemente XI, "oltre (che nella) dottrina cristiana e tutto quello che è necessario al ben vivere... (nelle) buone arti e lavori d'ogni sorta, leggere e scrivere, cucire e ricamare, far merletti, calzette e simili". [6] Le qualità di buone cristiane e di buone madri di famiglia, significativamente, coincidevano; e dovevano, attraverso la successiva opera di mutuo insegnamento basato sul riconoscimento delle potenzialità relazionali comunemente attribuite alle donne proprio in quanto punti di riferimento dell'universo familiare, estendere al raggio più ampio dell'intera società comunitaria una influenza considerata rassicurante, pacificatrice, legittimante. "Le madri di famiglia che sono già state nelle scuole facciano lo stesso a' loro figliuoli e domestici, con darle ad intendere che esse possono più contribuire alla buona educazione de' loro figliuoli, che li padri, li quali non li hanno così di continuo appresso di loro" (Parte V, cap. II). Le opportunità di controllo sociale erano ancora più vaste se si considera l'originaria impostazione interclassista dell'intervento educativo, che sussisterà in numerosi Collegi almeno fino ai primi dell'Ottocento, e anche oltre in quelli più periferici. Le Regole del Collegio di Monreale recitano al cap. IV della Parte V: (Le Collegine) "... ameranno e... stimeranno (educande e scolare) ugualmente come figliuole care di Dio, tutte destinate ad essere gran Principesse e Regine in Paradiso, non guardando se siano nobili o ignobili, povere o ricche, ma a quello che possono essere di là".
L'intero arco della giornata delle scolare, che erano di solito le fanciulle meno abbienti, e delle educande, che erano nobili e civili che pagavano il proprio mantenimento, accolte nei Collegi tra l'età di circa sette anni e quella di venti, al massimo venticinque anni, era scandito da attività comuni articolate sui tre piani dell'educazione religiosa (costituita da preghiere, "divozioni" ed esercizi religiosi), dell'istruzione primaria (elementi di lettura, di scrittura, di disegno) e infine della disciplina del corpo ("lavori donneschi", regole di comportamento e di abbigliamento).
L'educazione religiosa era impartita a livelli assai elementari, soffermandosi in particolare sull'esaltazione delle figure della Vergine e dell'Angelo Custode, la prima in quanto simbolo del femminile e del materno, il secondo in quanto custode, appunto, e consigliere per il comportamento delle giovani. Altrettanto rilievo veniva attribuito alla frequentazione della Messa, con relative prescrizioni rispetto al "ben portarsi" in chiesa. Durante le ore di lezione venivano anche ripetuti elementi semplici di dottrina, come i Comandamenti, i Sette Doni dello Spirito Santo, le Virtù Principali, Teologali e Cardinali, la cui enumerazione mnemonica accompagnava la pratica di lavori come il cucito e la maglia.
Anche l'istruzione primaria impartita nelle scuole dei Collegi rimaneva a livelli estremamente semplici, legati tra l'altro nei contenuti all'elemento religioso: prima di cominciare a leggere, occorreva farsi il segno della Croce, e il "libro di testo" era la Dottrina Cristiana del Cardinal Bellarmino [7]. Tra gli ambiti educativi curati dai Collegi, però, questo rimase senz'altro il più trascurato, risultando in definitiva poco rilevante il saper leggere e scrivere al fine di "dar buone madri alle famiglie, e pie donne alla Religione" [8].
Un'attenzione assai maggiore veniva invece dedicata alla pratica dei lavori donneschi, e ancor di più alle prescrizioni in materia di comportamento, per l'insegnamento delle quali vennero messe a punto vere e proprie metodologie d'intervento sulla psicologia delle educande. Le Regole del Collegio di Monreale, che furono tra l'altro redatte sotto la diretta supervisione del Corradini e perciò sono da ritenersi efficacemente esemplificative, arrivano addirittura a prescrivere indicazioni sulle dimensioni ottimali dei locali, che non avrebbero dovuto essere troppo ampi "per non stordire con le tante voci delle fanciulle".
Diversi i mezzi per inculcare i valori e le discipline volute, dalla "santa pazienza" a un vero e proprio "piccolo spionaggio" tipico delle istituzioni totali. Le Collegine "estendiranno il loro zelo coll'altre persone del loro sesso... co' ragionamenti familiari, ed alla buona co' santi consigli; ed incontrandosi con persone assai idiote, ed incapaci delle cose di Dio, non si dovranno perdere d'animo; ... ridiranno le stesse cose più volte, ora in una maniera ora in un'altra, e con ciò otterranno senz'altro a poco a poco quello che pare impossibile ad ottenersi" [9]. Le Prefette "cercheranno d'intendersela con alcune delle fanciulle più savie e fidate, per poter sapere segretamente i portamenti ed il parlare di ciascuna, affine di potervi rimediare, bisognando" [10]. "Rigore e dolcezza, occhiate e minacce" andavano usate di volta in volta per conseguire gli scopi educativi. L'uniformità dell'abito - nero e accollato, col divieto di tenere il petto scoperto e di usare "polvere, nastri, ricci" - fa da contraltare all'individualizzazione dell'insegnamento di alcuni lavori (il ricamo alle nobili, la filatura alle contadine) o di alcune prescrizioni specificamente indirizzate alle due categorie di utenti: il divieto di giocare nelle strade, di stare alla finestra, di fermarsi mentre camminano da sole per le vie sono chiaramente rivolte alle fanciulle del popolo, mentre la proibizione di "profumi, e ricciolini nei capelli", o di tenere con se lettere e libri di commedie è esplicitamente rivolta alle nobili e alle civili. Per tutte, un divieto comune: quello di "fare l'amore".
Gli scopi filantropici di istituzioni come i Collegi di Maria, che appaiono ad un primo esame assai ampi ed estesi e genericamente riconducibili alla diffusione di un modello femminile tutto modestia e abnegazione, svelano così anche spazi di sorprendente specificità e duttilità. La carità "dall'alto" dei privati benefattori o degli ecclesiastici si indirizza in maniera selettiva, pretendendo dalle utenti un "ritorno" adeguato all'appartenenza sociale delle destinatarie dell'istituzione educativa. Ognuna, dal suo posto nella scala gerarchica di un organismo sociale organizzato per ceti, dovrà promuovere l'obbedienza e la concordia in maniera conforme al proprio status, dopo avere imparato a conoscere, e dunque a trattare, durante la convivenza nel Collegio anche le donne degli altri ceti.
Tale caratteristica, che è stata verificata anche attraverso analisi su specifiche realtà [11], mette in evidenza un aspetto non secondario del valore e dell'importanza attribuiti a simili istituzioni educative nel contesto politico sociale della Sicilia borbonica. La gestione di istituti di educazione destinati alle donne offriva infatti l'opportunità di raggiungere, attraverso le donne, capillarmente, ogni famiglia, ogni persona; essi divenivano quindi in generale degli ottimi strumenti di controllo sociale, e in particolare, sul piano locale, degli efficaci vettori di relazioni di potere e di patronage.
La presa d'atto di questa connotazione caratteristica relativa all'utilizzazione delle strutture educative in funzione di controllo sociale su base locale contribuisce a spiegare l'ampia diffusione, durante tutto il periodo borbonico, dei Collegi di Maria: solo nel Settecento ne vennero fondati - o adottarono le regole corradiniane - più di cento, di cui sei soltanto nella città di Palermo [12], e durante l'Ottocento continuarono a diffondersi, restringendo però nel nuovo secolo sempre più la loro attività al campo dell'istruzione popolare, mentre le tecniche di mutuo insegnamento sarebbero state portate in altre sedi alla loro più organica formulazione, e le fanciulle dei ceti più elevati avrebbero cominciato a frequentare anche altri educandari privati o semi-pubblici.
La duttilità stessa di una istituzione come quella dei Collegi, che li aveva resi tanto interessanti per il dispiegamento di strategie locali di patronage incoraggiandone la fondazione, li avrebbe tuttavia posti al centro di una lunga vicenda di rivendicazioni tra potere laico e potere ecclesiastico nel cuore della quale è facile scorgere il continuo tentativo, da parte delle realtà locali che li avevano prodotti, di mantenerle svincolate da una sorveglianza a livello centrale - da parte tanto dello Stato che della Chiesa - percepita come intralcio e limite all'esercizio di quel sottile e penetrante controllo esercitato attraverso le donne sulle comunità. In effetti, i termini stessi in cui era stato introdotto in Sicilia il sistema dei Collegi di Maria presentavano una ambiguità di fondo: essi potevano essere fondati da congregazioni o da singoli ecclesiastici, come pure da privati benefattori laici, e inoltre venivano amministrati per quanto riguarda l'organizzazione interna - spirituale ed educativa - dalla Superiora del monastero che gestiva il Collegio e da un ecclesiastico di sesso maschile, il Visitatore, mentre per gli affari patrimoniali (nel caso fossero stati fondati da laici) rimanevano affidati a Deputati scelti dalla famiglia dei fondatori tra i membri più affidabili della comunità locale, insieme nobili e borghesi [13]. Era quanto bastava per fornire pretesti sufficientemente validi ora per rivendicare una maggiore vicinanza alle autorità ecclesiastiche, ora per distaccarsene quando la loro tutela fosse divenuta poco gradita.
Quando il Rescritto Reale del 9 settembre 1769 proibì nuovi acquisti alle chiese e un successivo Rescritto, del 20 luglio '76, lo estese ai Collegi di Maria in quanto "compresi negli Ordini Reali, e perciò incapaci di nuovi acquisti", tutti i Collegi che poterono farlo si adoperarono per ottenere eccezioni ed esenzioni, riuscendo in molti casi ad essere riconosciuti laicali. Essi vollero allontanarsi dalla sottomissione ai Vescovi appellandosi a quel principio del diritto pubblico siciliano che stabiliva che nessuna fondazione ecclesiastica è valida senza espressa approvazione regia [14].
La strategia dei Collegi subì un'inversione di tendenza dopo il 1820, quando le Istruzioni del 20 maggio dello stesso anno per l'esecuzione del Regio Decreto del 1 febbraio 1816 decretarono che i Collegi di Maria, come luoghi pii laicali non aventi approvazione regia, avrebbero dovuto essere sottoposti alla vigilanza e alla tutela dei Consigli degli Ospizi: una decisione politico-amministrativa che ne mette in evidenza la perdurante sostanziale contiguità con le istituzioni totali di tipo assistenziale/reclusorio. Preoccupate dalle conseguenze di un troppo stretto controllo statale, le Collegine cercarono allora un accordo con i Vescovi e ottennero con Decreto Luogotenenziale del 15 agosto 1831 lo svincolo dai Consigli degli Ospizi. Una provvisoria sistemazione della materia venne col Decreto luogotenenziale del 21 luglio 1834, che distingueva Collegi con regole speciali (Corradiniane) riconosciute dalla Chiesa e approvate dal Re al momento della fondazione, da sottoporsi ai Vescovi, e Collegi con regole non ecclesiastiche direttamente sottoposti al Re. Da allora in poi, i Vescovi si adoperarono per far trasferire anche quest'ultima categoria fra i monasteri. Un Rescritto del 3 dicembre 1841, provocato dagli Ordinari Diocesani, confermò che i "veri Collegi di Maria" dovevano dipendere dagli Ordinari stessi come tutti i "monasteri claustrali di donne", e la direttiva venne meglio specificata con una circolare ministeriale del 19 aprile 1842, che affermava come "nulla importi che manchi l'espressa approvazione regia".
Dal '43 in poi però i Vescovi, approfittando della virata reazionaria postquarantottesca che aveva rafforzato il loro ruolo in campo educativo, cominciarono a premere con maggiore insistenza sui Collegi, tentando addirittura di imporre loro d'autorità l'adozione integrale delle Regole Corradiniane che li avrebbero fatti automaticamente rientrare nella giurisdizione ecclesiastica; cosa che la Corona si affrettò a proibire con un Regio Decreto del 6 marzo 1854 [15].
Una tattica più o meno identica sarebbe stata seguita dai Collegi di Maria dopo l'Unità, con un ennesimo cambiamento di rotta che prevedeva un nuovo allontanamento dall'autorità ecclesiastica per evitare l'enfiteusi dei propri beni imposta dalla legge Corleo (1 agosto 1862) o addirittura la soppressione in quanto enti ecclesiastici con le leggi 7 luglio 1866 e 15 agosto 1867. In teoria, avrebbero dovuto avere la peggio le istituzioni riconosciute ecclesiastiche a causa dell'adozione delle Regole Corradiniane, colpite dalla legge del '66; in realtà lo Stato unitario avrebbe scelto le più "appetibili" per consistenza economica per riconoscerle come Enti Laicali e metterli alle dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione (Regio Decreto 20 giugno 1871). Tutta la seconda metà del XIX secolo fu attraversata dalle cause portate avanti dalle Collegine, spinte dai Vescovi, per non perdere le proprie rendite o il controllo sulle strutture educative, mentre calava il loro prestigio culturale e le strutture stesse si sclerotizzavano sempre più [16].
In realtà già dai primi decenni dell'Ottocento si era andato modificando il carattere originario degli "scopi sociali" dei Collegi. La loro funzione settecentesca, di promozione del compattamento della società attorno a valori di ubbidienza e concordia attraverso l'interazione educativa tra scolare di ceti differenti, andava sempre più perdendosi, soprattutto nelle realtà urbane dove prendeva piede la separazione dei gruppi sociali con la comparsa di una nuova offerta di strutture educative indirizzate alle giovani nobili e civili. L'interclassismo diveniva un aspetto residuale limitato a contesti rurali decentrati, nei quali peraltro cominciava ad apparire, sia pure più lentamente, una tendenza analoga in direzione della differenziazione sociale, con l'allontanamento progressivo delle élites dalla frequentazione (ma non dall'amministrazione) dei Collegi di Maria. Essi cominciavano così ad assumere la funzione, nella realtà dei fatti se non nelle intenzioni, di strutture destinate all'istruzione primaria popolare femminile, che andava restringendosi sempre più ai soli lavori donneschi e all'educazione religiosa.
Da sempre, comunque, il compito di istruire le fanciulle del popolo era stato assolto quasi esclusivamente dai Collegi di Maria. Dal 1768 avrebbe dovuto essere in effetti obbligatoria, in tutto il Regno, l'istituzione di scuole primarie maschili e femminili da parte di ogni comune; la qual cosa però era rimasta disattesa quasi ovunque nella Sicilia del XVIII secolo, dove l'istruzione delle fanciulle del popolo sembra sia stata assicurata solo dai Collegi e, in qualche caso, dalle Figlie della Carità che istituirono a Palermo la Pubblica Casa di Misericordia e Infermeria dove si insegnavano, come al solito, "manuali lavori, leggere e scrivere e tutto ciò che alla Pietà conduce di un cristiano ed alla pulizia della civile società" [17], e proseguirono successivamente la loro opera anche a Siracusa e Catania [18]. Alla fine degli anni '50 dell'Ottocento, comunque, le scuole comunali femminili previste dalla legge erano ancora soltanto ventidue, di cui due in provincia di Caltanissetta, cinque in provincia di Siracusa e dieci in provincia di Trapani; nessuna nel palermitano (dove però erano ben 43 i Collegi di Maria) e nel messinese. In esse non vi erano poi sensibili differenze, nei metodi e nei contenuti dell'apporto educativo, da quelli tradizionali dei Collegi: ancora nel 1856 il Decurionato di Acireale approvava un Regolamento per la scuola comunale femminile dove così venivano elencati i doveri della maestra [19]:
1) La condotta della maestra dovrà ispirare l'amore della virtù e della cristiana pietà. …
6) L'istruzione verterà sopra l'arte di cucire e il ricamo (oltre che leggere e scrivere). …
15) La scuola principierà alla preghiera solita che recitasi nelle scuole lancasteriane.
16) In ogni sabato invece della lettura e della scrittura le fanciulle dovranno essere occupate nell'apprendimento della Dottrina Cristiana.
Su questa oggettiva situazione di carenza nel campo dell'istruzione popolare femminile pubblica, e sulla constatazione dell'altrettanto rilevante realtà organizzativa dei Collegi di Maria che però attraversavano quella fase di ristrutturazione e di progressivo impoverimento della loro già limitata funzione culturale di cui si è già detto, volle far leva l'Abate Scovazzo, cui nel primo trentennio dell'Ottocento fece capo la diffusione del metodo bell-lancasteriano di mutuo insegnamento. Nei Collegi di Maria, egli notava, era già abbozzata una parvenza di mutuo insegnamento, e soprattutto essi erano già ottimamente diffusi e saldamente radicati nelle realtà locali; essi però istruivano le fanciulle ormai quasi esclusivamente nella religione e nei lavori donneschi, mentre non rimanevano "tra gli oggetti d'insegnamento prescritti il leggere lo scrivere il calcolo, ed una specie d'istituzione letteraria popolare" [20]. Proponeva quindi, per la città di Palermo, di utilizzare le strutture già esistenti nei Collegi di Maria applicandovi il metodo e i contenuti (lettura, scrittura, italiano, aritmetica, disegno, ricamo e altri lavori femminili) del sistema bell-lancasteriano, riportando queste strutture, attraverso l'applicazione di una metodologia educativa aggiornata ad una nuovamente efficace attuazione della loro vera vocazione pedagogica, predisposta in origine, quasi inconsapevolmente, dalle Regole Corradiniane, e quindi pronta ad accogliere più facilmente il più razionale metodo dei "due inglesi": "Questo metodo sublime, (che) mercé della classificazione minuta delle discipline e la simultanea divisione del travaglio insieme colla reciprocanza dell'insegnamento riunisce tutto quanto all'uopo chiedesi" [21]. La sua Memoria diretta alle colte dame e signore palermitane nel 1836, intitolata Della necessità d'istruzione morale ed intellettuale per le donne del popolo, e del modo di provvedervi in Palermo faceva appello all'elemento femminile dell'elite dell'ex capitale per reperire i mezzi finanziari di supporto all'impresa, proponendo loro di costituirsi in una singolare lobby per esercitare pressioni in tal senso: "I vostri potenti e insinuanti modi e le preghiere vostre saranno certamente accolte... facilissimo vi sarà ottenere dal Decurionato la deliberazione all'uopo necessaria, e quando ancora ciò non avvenisse, una associazione caritatevole di tutte le signore agiate e notabili per la loro istruzione morale basterebbe... (a reperire) la misera somma necessaria" [22].
L'accorato appello dell'Abate Scovazzo, a quanto pare, non venne accolto con altrettanta sollecitudine dalle "colte dame", o il loro influsso non risultò abbastanza efficace a commuovere il Decurionato; i Collegi di Maria di Palermo vennero soltanto ammessi a concorrere a un premio annuale del Municipio, e una assegnazione stabile venne concessa solo a quello del Borgo, fondato nel 1802 dal sacerdote D. Emmanuele Custos; il metodo lancasteriano risulta introdotto solo in quello della Sapienza, alla Magione, e ben vent'anni dopo la pubblicazione della Memoria di Scorazzo [23]. Probabilmente le dame, più o meno colte, preferivano ancora esercitare la loro opera di patronage nei confronti dei ceti inferiori gestendo le istituzioni corradiniane nella maniera tradizionale, senza eccessive "intrusioni" pedagogiche e controlli pubblici; e cioè in maniera autonoma, personalmente o attraverso i membri della propria famiglia, secondo le modalità che ci sono note dall'analisi delle attività di pie benefattrici come la Signora Giuseppa Tetamo Giusino, fondatrice a Palermo nel 1788 del Collegio di Maria sotto il titolo dell'Immacolata Concezione nel quartiere di Monte Pietà [24], o di Donna Caterina Principato e Castronovo che fondò negli anni '90 del Settecento il Collegio di Maria di Capizzi [25].
Nel corso dell'Ottocento borbonico, piuttosto, l'interesse delle donne delle classi agiate cominciò invece a rivolgersi preferibilmente nei confronti dell'educazione delle fanciulle del loro stesso ceto, attraverso istituzioni laiche o religiose destinate espressamente alle nobili e alle civili. Definitivamente tramontata, dopo la Restaurazione, l'ispirazione volontaristicamente interclassista dei Collegi di Maria che proprio per tale ragione avevano attecchito bene nei piccoli comuni rurali, nasceva ora un fenomeno tipicamente urbano, o comunque limitato ai centri maggiori, e tendenzialmente aperto anche a realtà esterne attraverso l'utilizzazione di educatrici "forestiere". Si tratta di un fenomeno che certamente è connesso con la diversa qualità degli spazi relazionali delle donne delle élites nelle città rispetto a quelli, assai più ristretti, delle realtà provinciali, ma che comunque ha ben poco in comune con il contemporaneo impegno delle donne agiate francesi e inglesi, che dalla diversa ripartizione del loro tempo e dei loro spazi facevano nascere comportamenti sociali nuovi. In Sicilia le "dame" e le "signore", le aristocratiche e le civili delle città, mettono in pratica il proprio impegno rimanendo legate a strategie assolutamente tradizionali anche quando promuovono l'educazione di fanciulle del proprio ceto: resta fondamentale la convergenza d'intenti e di azione con la propria famiglia e con le realtà religiose o politiche a questa legate.
Esemplare l'inserimento della Baronessa di San Giuliano nella direzione del palermitano Educandario Carolino, nel 1845: essa entrava a dirigere (coadiuvata dalla Signora Luisa Del Gelso Vinaccia) una istituzione che portava impressa nella sua storia la continuità col passato più tradizionale e un tipico iter di aggiornamento progressivo alle successive esigenze. Fondato nel 1779 con l'assegnazione di una rendita proveniente in gran parte dal fondo dell'ex Azienda Gesuitica e affidata alle suore salesiane per ospitare venti "zitelle nobili di case povere", dal 1783 poté accogliere a pagamento anche altre convittrici "purché appartenenti a famiglie di nobile infeudazione o di attività nobile da più di cento anni". Dopo un periodo di amministrazione dell'Abate Scinà vennero chiamate alla direzione due suore salesiane friburghesi. La Baronessa di San Giuliano subentrò nella direzione al momento del distacco dell'Educandario, che diveniva laico, dal Monastero delle Salesiane, e incoraggiò l'ingresso di fanciulle civili di ottima famiglia nell'Istituto che, con l'unità, sarebbe stato prontamente ribattezzato "Maria Adelaide" come la nuova regina. [26]
Le dame contribuirono poi a vario titolo alla diffusione di vari istituti privati per fanciulle abbienti, promuovendo la frequentazione di quelli istituiti dai comuni (come gli Istituti per Fanciulle Civili di Catania nati nel 1833 e nel 1859, o quello di Caltagirone, fondato nel '54) o dall'iniziativa privata (come quello delle sorelle Orlando, aperto a Palermo nel 1836, quello della signora Flavia Grasso impiantato a Messina dal '36, il Convitto Privato Femminile siracusano del '40), partecipando talvolta alla gestione [27].
Queste scuole venivano frequentemente affidate alla direzione di donne settentrionali o francesi, le "madame", forse nel tentativo di attingere a più consolidate tradizioni educative che certo nell'isola non potevano essersi radicate. Ma molto poco cambiò nella sostanza degli interventi educativi: qualcuna, negli anni '30, volle adottare il metodo di Bell e Lancaster [28], e quasi tutte aggiornarono il programma dei "lavori donneschi" alle esigenze di un'utenza socialmente distinta, con l'insegnamento di tecniche elaborate di filet, crochet, tappezzeria [29]. I programmi d'istruzione arrivarono a comprendere il disegno, la storia, la geografia, il francese; ai comportamenti da apprendere vennero aggiunti in qualche caso il ballo e la musica, mentre restava fondamentale e irrinunciabile pilastro di ogni istituzione l'assiduo apprendimento della dottrina cristiana.
Le entusiastiche lodi di simili istituzioni, che non è difficile rintracciare nella stampa locale, non debbono però trarre in inganno sulla qualità del loro effettivo impatto sulla società. Le varie "madama" Folz, Chabaud, Roux, Guez si trovarono ad agire in contesti che risentivano pesantemente di una lunga tradizione di chiusura delle famiglie più agiate nei confronti dell'educazione delle figlie fuori dal diretto controllo parentale, che associava al vivere "ritirate" dalla società il buon nome e la futura collocazione matrimoniale delle fanciulle che infatti fino ad allora avevano avuto come unica opportunità l'ingresso in monastero, come "educande" o come future suore (altra possibile "carriera" per le donne dei ceti medi, o modalità aggiuntiva, per le élites, per gestire attraverso le donne posizioni di potere): una realtà che ci è stata tramandata attraverso i "pittoreschi" racconti dei viaggiatori stranieri nella Sicilia del Settecento [30].
Le nuove istituzioni laiche ottocentesche per l'educazione delle fanciulle civili, insomma, risentirono particolarmente delle difficoltà di inserimento nel panorama sociale delle comunità che spesso si tradusse in difficoltà oggettive di conduzione degli educandari, come uno di quelli catanesi che nel 1856 venne tolto alla gestione laica e affidato alla Figlie della Carità [31].
Il problema di fondo, rispetto al problema dell'educazione femminile nella Sicilia borbonica, rimane comunque quello della vantazione dell'impatto reale di tutte le iniziative sette e ottocentesche sull'universo femminile. I dati complessivi raccolti a livello centrale sulle istituzioni restano frammentari e disomogenei per il periodo borbonico, quando peraltro la preoccupazione prevalente era quella di esaltare l'efficienza del governo; o sono rintracciabili nelle statistiche, inchieste, corrispondenze amministrative postunitarie che però, al contrario, facendo il punto sulla situazione ereditata dal vecchio regime miravano a svalutare il fenomeno al momento dell'avocazione da parte del Ministero della Pubblica Istruzione di tutti gli istituti e scuole che era possibile sottrarre alla Chiesa. Altrettanto e forse più oscuri restano i dati sulla frequenza di scolare ed educande e le testimonianze sulla quotidianità educativa e sulla vita comunitaria; o meglio, essi sono accessibili solo a livello di indagini microanalitiche volte alla ricostruzione delle singole realtà educative nei contesti locali che le produssero, alquanto differenti tra loro. Il maggiore o minore successo, o i fallimenti, di scuole ed educandari vennero infatti spesso decretati dai livelli dell'assenso "politico" loro attribuito all'interno delle realtà in cui operavano, per cui alla fine del periodo borbonico si potranno rintracciare Collegi di Maria fiorenti di rendite e di scolare e Collegi che "languono degenerati" affidati a una "vecchia scimunita che vi insegna lavori donneschi ad alcune ragazze" [32], moderne Scuole Comunali per Fanciulle Civili dove si apprendono il ballo e la calligrafia e Collegi di Maria riconvertiti a compiti assistenziali con l'affidamento delle Donzelle Projette Settenarie che non potevano più usufruire dell'assistenza comunale presso le nutrici [33] o con l'aggregazione di Asili d'infanzia (già auspicati dall'Abate Scovazzo).
Ciò che vi è di comune e di generalizzabile nel panorama discontinuo dell'organizzazione del sistema educativo femminile della Sicilia Borbonica è comunque la qualità della fruizione delle istituzioni da parte delle bambine e delle fanciulle. Coloro che nel corso della propria vita avevano l'occasione di frequentare una scuola - il cui numero non è quantificabile, ma traspare attraverso i dati scoraggianti sull'analfabetismo in epoca postunitaria - fossero esse contadine, nobili o civili, vivevano una esperienza assolutamente limitata nel tempo e nelle valenze che essa avrebbe assunto nella loro vita; o meglio, un'esperienza finalizzata in maniera totale alla futura destinazione delle donne nel sistema gerarchico della famiglia e dei raggruppamenti sociali. La contadina obbediente, la saggia moglie, la buona madre, la suora esemplare erano gli elementi del modello irrealistico che legava alla figura femminile, con la forza di un vincolo naturale, il ruolo di "prima istitutrice del genere umano", per ricoprire degnamente il quale si riteneva adesso che dovesse venire specificamente formata sotto il controllo di istituzioni e figure affidabili.
Restava marginale la questione dell'apprendimento di saperi non soltanto pratici o religiosi: ciò che più importava era il disciplinamento e l'addestramento. Le direttive che l'Intendente Rosica, ormai alla vigilia del tramonto del Regno Borbonico, diffondeva in una circolare rivolta alle autorità provinciali sul reclutamento degli insegnanti in genere (7 aprile 1858) danno la misura di una situazione che non può dirsi di fallimento, perché riguarda finalità che non furono mai davvero perseguite. Scrive l'Intendente: "... le agevolazioni inoltre autorizzate per le femmine in caso di mancanza di idonee persone sono di potersi includere ... (tra le educatrici) eziandio donne che non sappiano né leggere ne scrivere, con l'obbligo però di farsi coadiuvare da persone capaci approvate dall'Ordinario Diocesano".
Ancora, mentre si avvicinava il suo tramonto, nel Regno borbonico non era ritenuto necessario che le insegnanti preposte al compito di istruire le donne sapessero leggere e scrivere.
Note
[1] M. D'AMELIA, recensione a M. SONNET, L'éducation des filles au temps des Lumières, Paris, Les editions du Cerf, 1987, in "Memoria" n. 21, 1987.
[2] Municipio di Palermo, Della istruzione popolare in Palermo dalla seconda metà del secolo XVIII al 1870, Lima, Palermo 1870, p. 13.
[3] G. BONETTA, Istruzione e società nella Sicilia dell'Ottocento, Sellerio Palermo 1981, p. 220.
[4] Archivio Centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Divisione Scuole Private e Normali, busta 90, Costituzioni delle Convittrici del SS. Bambino Gesù e della Sua Sacra Famiglia del Collegio di Maria della città di Monreale, Palermo 1740
[5] Ibidem, parte IV.
[6] Breve Pontificio Cum Sicut Dilectus, parte IV, cap. II.
[7] Costituzioni delle Convittrici..., cit., parte V, cap. II.
[8] Municipio di Palermo, Della istruzione..., cit., p. 59.
[9] Costituzioni delle Convittrici..., cit., parte V, cap. I.
[10] Ibidem, parte V, cap. II.
[11] I. FAZIO, La Signora dell'Oro, La Luna, Palermo 1987. In questo studio viene analizzata la rete di relazioni formatasi attorno al Collegio di Maria di Capizzi.
[12] Descritti in dettaglio in Municipio di Palermo, Della istruzione..., cit., pp. 51-65.
[13] I. FAZIO, La Signora dell'Oro, cit., pp. 72-73.
[14] Archivio Centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Divisione Scuole Private e Normali, busta 60, Lettera del Ministro Scialoja al Prefetto Presidente del Consiglio Scolastico Provinciale di Caltanissetta (1873).
[15] Ibidem.
[16] G. BONETTA, Istruzione e società..., cit-, pp. 224-245.
[17] Breve ragguaglio di quanto praticano in questa capitale le Figlie della Carità serve delle povere donne inferme nella Pubblica Casa di Misericordia e Infermeria sotto la protezione di S. Vincenzo de' Paoli, cit. in G. LEANTI, L'istruzione elementare in Sicilia, Zammit, Noto 1924. Sulle Figlie della Carità e sulle Suore omonime si veda L. GUIDI, La "Passione" governata dalla virtù: benefattrici nella Napoli ottocentesca, pp. 151-153, in AA.VV., Ragnatele di rapporti - Patronage e reti di relazioni nella storia delle donne, a cura di L. Ferrante, M. Palazzi, G. Pomata, Rosemberg e Sellier, Torino 1988. V. anche Biblioteca Comunale di Palermo, Ms Qq D 76, Regolamenti delle Figlie della Carità nell'Albergo dei poveri di Palermo (XVIII sec.).
[18] A. CRIMI, L'istruzione femminile tra il Sette e l'Ottocento in Sicilia, in "Nuovi Quaderni del Meridione", n. 84, 1983, p. 270.
[19] Cit. in A. CRIMI, Contributo sull'istruzione pubblica in Acireale al tempo dei Borboni, Acireale 1974.
[20] N. SCOVAZZO, Della necessità d'istruzione morale ed intellettuale per le donne del popolo, e del modo di provvedervi in Palermo - Memoria diretta alle colte dame e signore palermitane, Palermo 1836.
[21] Ibidem, p. 20.
[22] Ibidem, p. 23.
[23] Municipio di Palermo, Della istruzione..., cit, pp. 51-65.
[24] Ibidem, pp. 61-62.
[25] I. FAZIO, La Signora dell'Oro, cit.
[26] E. BORDIGA, Cenni storici sul Regio Educandario Maria Adelaide, Palermo 1889; A. CRIMI, L'istruzione femminile..., cit., pp. 465-467.
[27] Ibidem.
[28] FLAVIA GRASSO, Discorso recitato nell'occasione della permuta del metodo d'istruzione nel suo donnesco stabilimento, in quello di Lancaster, Messina 1835.
[29] Sulle valenze culturali e sociali dell'applicazione delle donne siciliane all'arte del ricamo del proprio corredo si veda J. SCHNEIDER, Il corredo come tesoro, in Id., La vigilanza delle vergini, La Luna, Palermo 1987.
[30] Sull'educazione "in casa" delle fanciulle siciliane e sulla loro vita nei monasteri nel XVIII secolo si vedano le pp. 31, 355, 357-358, 395-396 di H. TUZET, Viaggiatori stranieri in Sicilia nel XVIII secolo. Sellerio, Palermo 1988.
[31] A. CRIMI, L'istruzione femminile..., cit., pp. 469-470.
[32] Cit. in G. BONETTA, Istruzione e società..., cit., p. 228.
[33] I. FAZIO, La Signora dell'Oro, cit., pp. 79-80.
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