Palermo, lo Scibene e Monte Cuccio
Prefazione
Oltre cento anni fa (nel 1893) nelle campagne e nelle città di Sicilia, contadini, artigiani, intellettuali, ma soprattutto donne e uomini di ogni età, cominciarono ad unirsi nei Fasci dei Lavoratori, nel tentativo di sconfiggere la rassegnazione, di sfidare la mafia dei gabelloti ed il potere dello Stato che affamava la povera gente lavoratrice. Era un sogno di giustizia e di libertà che mirava a costruire, con la lotta giorno dopo giorno, il progetto di una società migliore. Fra coloro che aderirono ai Fasci dei Lavoratori, si distinsero le donne che aspiravano alla conquista, attraverso la solidarietà e la partecipazione, del benessere sociale. Tentavano di recuperare valori morali e sociali in grado di proporre alla collettività un senso nuovo della dignità umana.
I Fasci siciliani furono tragicamente repressi dai mafiosi locali e dal governo nazionale. Si contarono più di cento morti, diverse centinaia i feriti e oltre tremila cinquecento rinchiusi nelle patrie galere. Per comprendere perché i fasci ebbero una tale diffusione nei centri rurali basta considerare le condizioni in cui versava, a trent'anni di distanza dalla forzata Unità, la classe contadina. In Sicilia giunse in ritardo, anche rispetto al Mezzogiorno continentale, la promulgazione delle leggi eversive della feudalità e, quando giunsero, queste leggi non vennero applicate per molto tempo. Benché i feudi fossero stati trasformati in allodi, cioè in proprietà private, non ci fu la formazione di una classe di piccoli e medi proprietari. Le terre vendute dai baroni in dissesto finanziario finirono per ingrandire ulteriormente i latifondi di altri ex-feudatari e di gabelloti arricchiti. Il latifondo, quindi, continuava a caratterizzare l'agricoltura e la struttura sociale siciliane. Inoltre, le condizioni dei contadini erano peggiorate per la perdita, in seguito alla eversione della feudalità, dei diritti comuni e degli usi civici.
La situazione non mutò, anzi s'è possibile, peggiorò dopo la forzata unità d'Italia: Infatti, "la censuazione dei demani pubblici e dei beni ex-ecclesiastici non intaccò minimamente il latifondo" (M. Ganci, 1977), al contrario, contribuì a rafforzarlo poiché i terreni, concessi in enfiteusi o venduti, furono in massima parte accaparrati dai grandi proprietari terrieri e dai gabelloti. Chi erano i gabelloti? Questa figura era nata nel corso del XIX secolo, in seguito alla tendenza dell'aristocrazia siciliana di trasferirsi nella città di Palermo, cedendo le terre dell'interno, dietro pagamento di una gabella, a degli affittuari che vennero, per questo, chiamati gabelloti. Il mercato delle gabelle, nella Sicilia centro-occidentale, era in gran parte controllato e gestito, da organizzazioni mafiose e molti gabelloti, erano affiliati a queste organizzazioni, così come lo erano i "soprastanti", uomini di fiducia dei gabelloti, ed i "campieri", i quali costituivano una sorta di polizia privata del feudo. I gabelloti, a loro volta, subaffittavano le terre ai contadini, ad un canone di gran lunga superiore alla gabella che erano tenuti a pagare ai proprietari. Essi speculavano sullo stato di bisogno dei "villani"; inoltre, spalleggiati dai campieri e dai soprastanti, ricorrevano alla violenza per tenere assoggettati i contadini e per far desistere i proprietari da eventuali aumenti degli affitti. Fu con questi sistemi che i gabelloti riuscirono ad accumulare il denaro che permise loro di acquistare le terre degli ex-feudatari e di partecipare alle aste dei beni ecclesiastici, impedendo di fatto la redistribuzione delle terre. Il gabelloto, divenuto latifondista, si faceva riconoscere dalla monarchia borbonica prima e sabauda dopo, un titolo nobiliare, di solito quello di barone; chi non ci riusciva si contentava di quello di galantuomo, con diritto al voto. Trent'anni dopo l'Unità d'Italia, e cioè nel periodo in cui cominciarono a sorgere i primi Fasci dei lavoratori, i rapporti sociali e di lavoro nel latifondo erano ancora basati sulle seguenti classi: i grandi proprietari terrieri; i gabelloti; i borghesi; i coloni; ed i giornalieri agricoli. I borghesi erano i piccoli e medi proprietari, cioè coloro che, in qualche modo, erano riusciti ad acquistare qualche ettaro di terra, in seguito al processo di vendita dei beni della Chiesa. Le condizioni dei borghesi erano difficili per via delle numerose tasse che li costringeva a ricorrere a prestiti usurari. I piccoli proprietari finivano pertanto col prendere a mezzadria altri terreni ed a dipendere, anch'essi, dall'economia del latifondo. La maggior parte dei grandi proprietari, come abbiamo già detto, preferiva cedere la propria terra, ai gabelloti. Costoro la subaffittavano ai coloni, sottoponendoli a contratti iniqui ed angarici. I patti colonici più diffusi, alla fine dell'Ottocento, nella Sicilia del latifondo erano la mezzadria, o metaterìa, ed il terratico. Con la mezzadria il proprietario o il gabelloto metteva a disposizione del colono la terra e anticipava le sementi, mentre il colono era tenuto a fare tutti i lavori necessari per la produzione; il raccolto veniva ripartito con vari sistemi. Nonostante le diverse varianti, alla base del contratto di mezzadria c'era sempre lo sfruttamento del colono da parte del proprietario o, più spesso, del gabelloto. Il contadino dell'interno, e in modo particolare il mezzadro che usava i suoi muli e la sua attrezzatura per lavorare la terra, era infatti indebitato in permanenza col gabelloto. Inoltre il contratto era verbale, cosa che dava adito ad abusi da parte del gabelloto. Della sua quota, il mezzadro doveva cederne una parte che il gabelloto distribuiva tra i campieri. Questi donativi erano in realtà tributi che il contadino pagava in cambio di protezione. Il terratico era, per il contadino, ancora più pesante e svantaggioso di quello di mezzadria. Mentre in quest'ultimo contratto il compenso dovuto al proprietario era proporzionato al raccolto, nel terratico il colono doveva corrispondere al proprietario una quota fissa, in denaro o in natura, indipendentemente dalla buona riuscita del raccolto; bastava, quindi, una cattiva annata per costringere il terratichiere a ricorrere all'usuraio o a vendere quel poco di cui disponeva. Il terratico fu imposto sempre più diffusamente nel corso del XIX secolo, in seguito alla liberalizzazione della proprietà dai vincoli feudali, e all'instaurarsi di una certa concorrenza tra i nuovi proprietari o tra i nuovi possessori. Costoro, approfittando delle condizioni sempre più misere dei contadini, i quali erano stati privati anche degli usi civici, riuscirono ad imporre loro questo contratto capestro. Una delle rivendicazioni principali dei Fasci sarà proprio la sostituzione del terratico con la mezzadria. Infine c'erano i braccianti, la classe la più numerosa dei contadini siciliani, i più poveri che non possedevano nulla e venivano impiegati nei periodi dell'anno dedicati alla semina ed alla raccolta del grano. i salari erano bassissimi in quanto, a causa del sistema della gabella e del subaffitto, spesso coloro che li pagavano erano anch'essi poveri: anche il metatiere faceva il bracciante quando non aveva lavoro nel suo campo. Nei periodi di lavoro, i braccianti si offrivano, tutte le mattine, sulle piazze dei loro paesi, sperando di essere ingaggiati dai campieri o dai sovrastanti dei feudi.
Alla base della attiva partecipazione dei braccianti al movimento dei fasci, vi era quindi l'aspirazione alla terra e quella di vedere aumentate le loro misere paghe. Questa era quindi la situazione della Sicilia del latifondo, quella soprattutto centro-occidentale, al tempo dei Fasci. I primi Fasci Siciliani nacquero nella Sicilia orientale, a Messina e a Catania, ed erano essenzialmente di carattere urbano; anche l'attività del fascio di Palermo, d'altronde, nei primi mesi non riguardava che gli operai della città. Inoltre, accanto a questi ultimi ed ai contadini (coloni e braccianti) e borghesi del latifondo, troviamo nei fasci gli zolfatari, cioè coloro che lavoravano nelle miniere di zolfo (nelle province di Caltanissetta e di Agrigento), ed i braccianti, delle zone costiere. La Sicilia orientale si trovava in una situazione economica migliore rispetto alla Sicilia centro-occidentale. Questa differenza era dovuta ad una maggiore divisione della proprietà terriera, e ad una più larga diffusione di aree a coltura intensiva, quali agrumeti, vigneti e uliveti. Anche nella Sicilia orientale, comunque, vi erano dei latifondi e, con questi, le figure tipiche che li caratterizzavano:
La condizione operaia nelle principali città siciliane (Palermo, Catania e Messina) non era delle migliori. L'industria siciliana, sorta nei primi anni dell'Ottocento, alla fine del secolo era già in fase di esaurimento, in quanto, dopo l'Unità d'Italia, si trovò a dover concorrere con la fiorente industria settentrionale. A Palermo, nella seconda metà dell'Ottocento e nei primi quindici anni del Novecento c'erano i Florio che, come dice Massimo Ganci, erano l'unico esempio di grande borghesia industriale nella provincia di Palermo. Il loro potere economico si rivelò soprattutto nel campo enologico e dell'armamento navale (nel 1881, insieme ai Rubbattino di Genova, fondarono la "Navigazione Generale Italiana", la maggiore società armatoriale italiana). Ai Florio si deve anche la fondazione della fonderia Orotea e, nel 1896, del Cantiere Navale. Nell'ultimo decennio del XIX secolo, per quanto riguarda l'industria pesante, oltre a quelle dei Florio troviamo soltanto uno stabilimento meccanico e quello del gas. L'industria leggera si basava soprattutto sulla lavorazione dei prodotti alimentari, poco sviluppata e più simile all'artigianato che ad un'industria vera e propria. A Catania vi erano gli unici impianti di raffinazione e ventilazione dello zolfo. L'economia di Messina si basava invece sui traffici marittimi. Le attività portuali davano lavoro a un alto numero di operai e ad esse era legata la piccola industria. Nella città erano presenti numerose fabbriche per la produzione di vini, derivati di agrumi, pelli, pesce conservato e tessuti di seta. La produzione della seta, un tempo floridissima, alla fine dell'Ottocento era in decadenza. Complessivamente il potenziale industriale dell'Isola era basso e incapace di contrastare la concorrenza dell'industria settentrionale. Questa situazione influiva, chiaramente, sulla condizione degli operai, i quali, più che costituire una moderna classe sociale costituivano un ceto. Riguardo gli zolfatari, la loro situazione era simile da quella dei contadini del latifondo, anch'essi erano sfruttati, per lo più, da gabelloti mafiosi. I gabelloti delle miniere, al pari di quelli agrari, prendevano in affitto le miniere dai proprietari e sfruttavano il più possibile i "picconieri" e i "carusi". I "picconieri" estraevano il minerale di zolfo e venivano pagati a cottimo. I "carusi" erano ragazzi dai nove ai quindici anni che avevano il compito di trasportare, a spalla, il carico di minerale estratto fino all'imbocco della miniera, dove il picconiere, per contratto, doveva consegnare lo zolfo al gabelloto.
Dopo questo breve descrizione sulle realtà economiche e sociali presenti nella Sicilia, alla fine dell'Ottocento, passiamo a parlare di quello che possiamo definire il primo movimento organizzato che si è contrapposto allo sfruttamento ed alla mafia che lo gestiva: il movimento dei Fasci Siciliani. È interessante notare come ancora oggi qualcuno sostiene che la mafia è generata dal sottosviluppo, senza rendersi conto che, al contrario, è la mafia che genera sottosviluppo. Le organizzazioni mafiose, ed i gabelloti, i campieri ne erano parte, tendono sempre a sfruttare qualunque potenzialità economica, presente nel territorio da esse controllato, a loro esclusivo vantaggio, impedendo, così, che queste potenzialità si traducano in effettivo sviluppo socio-economico.
I PRIMI FASCI URBANI
Il primo Fascio siciliano, in assoluto, fu costituito a Messina, il 18 marzo 1889. Esso venne organizzato sull'esempio dei fasci che erano già sorti nell'Italia centro-settentrionale a partire dal 1871. Il Fascio messinese riuniva non i singoli lavoratori ma le società operaie della città. Dal luglio 1889 (cioè pochi mesi dopo la sua costituzione) al marzo 1892, il Fascio restò inoperante, a causa dell'arresto, e della condanna a due anni di reclusione, del suo fondatore Nicola Petrina. Soltanto con la nascita del Fascio di Catania, il 1° maggio 1891 sotto la guida di Giuseppe De Felice Giuffrida, il processo di formazione dei Fasci Siciliani poté dirsi veramente avviato. Il fascio di Catania era "una associazione-propaganda". Esso non reclutava solo "socialisti", ma permetteva a qualunque lavoratore di iscriversi liberamente alla associazione. De Felice preferiva questo sistema perché, per il momento si avevano "delle coscienze da formare, dei lavoratori da conquistare, della propaganda da fare, non dei socialisti da raggruppare". Una più chiara e netta definizione dei principi ispiratori e del programma dei fasci, si ebbe con la costituzione del Fascio di Palermo, il 29 giugno 1892, e con la fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani, il 4 agosto, a cui il fascio di Palermo aderì fin dall'inizio. Ma l'elemento scatenante per lo sviluppo dei Fasci nell'isola sarà l'incontro e l'unione di queste organizzazioni operaie con le masse contadine. Il punto di forza del movimento dei Fasci Siciliani, che lo rese temibile agli occhi del Governo e di tutti coloro che beneficiavano del vecchio sistema economico e politico, fu proprio costituito dall'unione, nella protesta, della città con la campagna. I Fasci conservarono fin quasi tutto il 1892, un carattere cittadino. La loro nascita costituiva il punto di arrivo di un lungo processo di maturazione della classe operaia che in Sicilia non costituiva piuttosto un "ceto". Mancava loro, un requisito basilare per la trasformazione in classe sociale, cioè la "coscienza di classe". Il processo di acquisizione di tale coscienza ebbe inizio nel 1860, anno in cui cominciarono a sorgere nell'Isola le società di mutuo soccorso. La prima sorse a Corleone, nel luglio del 1860. La seconda fu costituita a Palermo subito dopo. Via via, queste società si diffusero nel resto della Sicilia, nei primi anni in maniera sporadica, poi, soprattutto a partire dal 1875, sempre più velocemente. Le società di mutuo soccorso erano la forma più diffusa di organizzazione dei gruppi proletari più coscienti. Praticavano il mutuo soccorso fra i soci previo il pagamento di quote mensili, e fungevano anche da organizzazioni di resistenza, promuovendo scioperi e agitazioni per miglioramenti salariali nei luoghi di lavoro. Due tappe importanti, nella storia delle società di mutuo soccorso, vennero raggiunte nel 1875 quando sorse a Palermo la società dei tipografi che prevedeva nel proprio statuto il ricorso allo sciopero, quale mezzo per la difesa del salario e la costituzione di una cassa mutua, per assistere i soci nei giorni in cui si sarebbero astenuti dal lavoro e nel 1882, anno in cui fu attuata la riforma elettorale che allargava il suffragio a coloro i quali, compiuti i ventuno anni di età sapessero leggere e scrivere oppure pagassero una certa somma d'imposta diretta. Il requisito per il voto era pertanto considerato alternativo a quello del censo: in questo modo le popolazioni cittadine erano favorite rispetto a quelle delle campagne ove l'analfabetismo era dominante e la ricchezza latitante. Il diritto di voto agli operai era stata proprio una delle principali richieste avanzate dalle società di mutuo soccorso. Ma una volta ottenuto l'allargamento del suffragio, queste società si trasformarono in un serbatoio di voti per gli uomini politici sia di destra che di sinistra, grazie anche al trasformismo imperante. Sul piano politico, le società di mutuo soccorso dimostrarono una certa immaturità, mettendo in luce il fatto che, in Sicilia, il processo di formazione di una vera classe operaia non era ancora compiuto. Passi importanti, verso questa direzione, vennero però compiuti a Palermo: nel 1879, con la creazione della Confederazione delle 72 maestranze, un organo direttivo composto da tre rappresentanti per ogni società operaia rappresentata; e nel 1882, con la trasformazione di questa confederazione in Consolato operaio Un Consolato operaio sorse anche a Catania, nel 1883.
Negli anni 1891-92 si tenne a Palermo una Esposizione Nazionale. Questa voleva essere una celebrazione dei successi dell'imprenditoria siciliana, ma finì, invece, per evidenziarne il nascente stato di crisi. A determinare questa crisi avevano contribuito: la crisi economica, dilagante in Europa sin dal 1874; il fallimento della politica di protezione doganale, adottata dal Governo italiano con le tariffe del 1887 ed il divario tra l'industria del Nord e quella del Sud. A causare la grande crisi economica, che da lungo tempo colpiva le nazioni europee, era stata, principalmente, l'invasione dei mercati da parte degli abbondanti ed economici prodotti agricoli americani (soprattutto del grano). In Sicilia la crisi era esplosa intorno alla metà degli anni '80. I primi prodotti ad essere colpiti erano stati il grano e lo zolfo. La viticoltura, invece, era entrata in una profonda crisi qualche anno dopo, in seguito alle distruzioni dei vigneti da parte della fillossera, ed alla guerra commerciale italo-francese. Una delle cause scatenanti di quest'ultima era stata l'adozione nel 1887, da parte del Governo italiano, di nuove tariffe doganali, per arginare la crisi economica. Alla base di questa politica protezionista, vi era l'alleanza degli esponenti del blocco agrario del Sud - dominato naturalmente dai grandi proprietari terrieri - con gli esponenti del blocco industriale del Nord. In Sicilia, gli unici a trarre giovamento, dalla svolta politica del 1887, erano stati i latifondisti, i quali avevano ottenuto l'inserimento, tra le misure adottate, di una elevata imposta sui cereali d'importazione. Secondo le previsioni del Governo italiano, le nuove tariffe doganali avrebbero dovuto promuovere l'imprenditoria di tutto il territorio nazionale. Ma, ben presto, il protezionismo si rivelò per quello che era: uno scudo economico per la borghesia imprenditoriale più forte, cioè quella settentrionale, con il sacrificio dell'industria meridionale; il ruolo del Sud, infatti, doveva essere quello di mercato per i manufatti settentrionali ( M. Ganci, 1977). Con la scusa di visitare l'Esposizione Nazionale di Palermo, gli attivisti socialisti Carlo Della Valle e Alfredo Casati si fecero promotori, tra gli operai organizzati nelle numerose società operaie e di mutuo soccorso, della fondazione di una federazione operaia, sul tipo di quelle milanesi. L'idea venne subito bene accolta poiché gli operai palermitani si rendevano conto che le società mutualistiche allora esistenti non erano in grado di sostenere il loro malcontento e di trasformarlo in rivendicazioni economiche e sociali. Nacque così una federazione operaia che prese il nome di "Fascio dei Lavoratori di Palermo", basata sul modello della "Bourse du Travail" di Parigi.
Come quest'ultima, il fascio di Palermo fu diviso per sezioni d'arti e di mestieri, ma, rispetto alla Camera del lavoro parigina, venne accentuata l'organizzazione "orizzontale", cioè la federazione delle associazioni tra di esse, il "fascio" che avrebbe rappresentato sul piano sindacale l'intera classe operaia. Essi si distinsero inoltre per il fatto che il programma doveva essere attuato non soltanto a beneficio degli associati, ma di tutta la classe lavoratrice. La nascita ufficiale del fascio di Palermo si fa risalire al giorno dell'inaugurazione del suo gonfalone rosso, avvenuta il 29 giugno 1892. Nella stessa data, probabilmente, venne eletto il comitato direttivo, presieduto da Rosario Garibaldi Bosco. Dopo il 29 giugno, a Palermo, numerose società operaie e di mutuo soccorso si sciolsero e consegnarono le proprie bandiere al fascio dei lavoratori e nel giro di due mesi, questo raggiunse la quota di 7.500 iscritti. Il 4 agosto 1892, Garibaldi Bosco partecipò, insieme ad altri rappresentanti dei Fasci Siciliani, al Congresso di Genova e, quindi, alla fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani. Di ritorno da Genova, Garibaldi Bosco si convinse che, in Sicilia, il socialismo si sarebbe potuto diffondere ed avrebbe potuto trovare attuazione solamente attraverso l'organizzazione dei Fasci. Riguardo alla composizione di questi ultimi, egli sottolineava l'importanza dell'unione - nella lotta contro gli sfruttatori - della classe operaia con quella contadina. A partire dal settembre 1892, la nascita di nuovi Fasci, che fino ad allora era avvenuta ad un ritmo molto lento, cominciò a divenire più frequente. Tuttavia, ancora pochi erano i centri rurali interessati dal fenomeno.
FORMAZIONE DEI FASCI RURALI
Nelle campagne siciliane, prima dei fasci, vi erano state delle importanti esperienze associative, anche se non inserite in un quadro evolutivo, e non sostenute da un movimento di massa. Si trattava di una sorta di cooperative in cui un certo numero di contadini riunivano i loro mezzi per poter prendere in affitto un latifondo, per poi suddividerlo tra loro in proporzione dei mezzi di ognuno. Spesso questi sodalizi finivano male per prevaricazioni interne e la mafia ne approfittava per accrescere il suo potere. Tra i contadini siciliani non mancava, pertanto, lo spirito di associazione mancavano però l'istruzione e la capacità di gestione. Prima dei fasci vi erano state infatti molte manifestazioni di protesta, prive però di qualsiasi forma di organizzazione. Tutto questo, come sottolinea lo storico Francesco Renda, dimostra che fu soltanto con il movimento dei fasci siciliani che si realizzò, finalmente, l'unione tra la protesta generale, la lotta di massa e l'organizzazione. I fasci rurali cominciarono a sorgere con un ritmo travolgente soprattutto dal gennaio 1893, dopo la strage di Caltavaturo. Questo tragico avvenimento in verità fu soltanto il catalizzatore della reazione dei contadini. Le vere ragioni del dilagare dei fasci rurali vanno piuttosto ricercate nelle sempre più indigenti condizioni di vita delle masse popolari. Alle storiche cause di sofferenza e di malcontento si erano aggiunte infatti, dalla metà degli anni '80, gli effetti della crisi agraria causata, come abbiamo già detto, dalla forte concorrenza dei prodotti agricoli americani. In Sicilia il primo mercato a subirne le conseguenze fu quello del grano che subì un consistente calo di prezzo. Il Governo italiano cercò di arginare la crisi economica introducendo nuove tariffe doganali, tra le quali fu compreso un dazio protettivo del grano. Ciò scatenò la guerra commerciale con la Francia che bloccò l'importazione di vino. Alla crisi del grano si aggiunse così quella del vino, ed inoltre si aggiunse la fillossera che distrusse i vigneti. Altro settore agricolo siciliano piegato dalla crisi fu quello degli agrumi, il quale risentì sia della concorrenza d'oltreoceano sia della guerra di tariffe con la Francia. In questo settore la crisi fu ancora più dura poiché, nel periodo precedente, vi era stata una corsa all'affitto delle terre coltivabili ad agrumi, per via della maggiore esportabilità e questo aveva causato un aumento esagerato dei fitti delle terre e della produzione agrumaria. I coltivatori non avevano più come pagare i debiti. Al solito i grandi proprietari latifondisti, non risentirono gravemente della recessione economica, anche perché aiutati, notevolmente, dall'introduzione del dazio sul grano mentre i gabelloti, si ritrovarono a pagare fitti alti. Su chi scaricarne il peso? Sui contadini, naturalmente rendendo ancora più gravosi i patti agrari allora in vigore, e diminuendo le già misere paghe dei giornalieri. Conseguenza diretta della crisi, fu, pertanto, un'ulteriore accentuazione della lotta di classe: da un lato i grandi proprietari latifondisti, i quali videro aumentare il peso della rendita fondiaria e vennero protetti dal Governo; dall'altro i contadini, sui quali pesava interamente il prezzo della crisi, in mezzo c'erano i gabelloti. Fu soprattutto contro questi ultimi che, nel 1893, i contadini si organizzarono per manifestare la loro protesta e la loro rabbia. Erano proprio i gabelloti i più diretti, e visibili, responsabili delle loro tristi condizioni: i grandi latifondisti se ne stavano ben lontani.
LA STRAGE DI CALTAVATURO
Alla base della strage di Caltavaturo vi fu il mancato indennizzo dei contadini per la perdita degli usi comuni in seguito alla eversione della feudalità. In breve i fatti andarono così: il duca di Ferrandina (che possedeva a Caltavaturo 6.000 ettari di terra), si era finalmente deciso a concedere una aliquota dei propri terreni - quale liquidazione degli usi civici - al comune di Caltavaturo. Gli amministratori, però, invece che ripartire queste terre tra i contadini li concessero in gabella ed in affitto a dei prestanome dei borghesi, e talvolta anche senza il ricorso a prestanome, come per esempio nel caso del segretario comunale Antonio Oddo, che teneva da otto anni in affitto terre del comune (da S.F. Romano, 1959).
Cinquecento contadini, stanchi di questa usurpazione e angariati dai patti agrari e dalla crisi, all'alba del 20 gennaio 1893 "occuparono" alcune terre di proprietà comunale e cominciarono a lavorarle. Mentre stavano zappando, sopraggiunsero i militari e i contadini decisero allora di ritornare in paese, per manifestare dinanzi al Municipio e per esporre le proprie ragioni al sindaco. Ma quest'ultimo risultò irreperibile. Stanchi per la vana attesa, decisero di ritornare ad occupare i terreni demaniali, ma trovarono la strada sbarrata dalle forze dell'ordine. "Improvvisamente, senza preavviso di squilli di tromba od altro, una scarica di fucileria sulla folla lasciava undici morti e quaranta feriti, alcuni dei quali, trasportati all'ospedale di Palermo, morivano nei giorni seguenti" (S.F. Romano, 1959). La notizia dell'eccidio fece inorridire l'intera nazione (si dice!). Il fascio di Palermo manifestò subito la propria solidarietà con le vittime. Esso, inoltre, convocò un'assemblea tra i soci, durante la quale si sottolineò l'urgenza della propaganda socialista fra i contadini, e si aprì una sottoscrizione, che ben presto diventò nazionale, a favore delle famiglie dei caduti. A Caltavaturo, coloro che avevano partecipato alla manifestazione del 20 gennaio costituirono un fascio dei lavoratori e tra gennaio ed aprile sorsero, come funghi, numerosi fasci rurali (soprattutto nella Sicilia centro-occidentale), sia a causa dello sdegno suscitato dall'eccidio sia per l'opera di propaganda avviata, in campagna, dal fascio di Palermo. Alla manifestazione tenutasi in aprile a Caltavaturo parteciparono anche i presidenti dei fasci di Corleone e Piana dei Greci che diventeranno ben presto i più attivi e importanti della Sicilia del latifondo. Il fascio di Corleone era stato costituito nel settembre 1892, ma le sue attività ebbero inizio soltanto il 9 aprile 1893, giorno della sua inaugurazione ufficiale. Presidente fu eletto colui che ne era stato il principale fautore: Bernardino Verro. Il dirigente corleonese si fece subito promotore della costituzione di nuovi fasci nei paesi vicini; diresse gli scioperi e le lotte contadine che, sin dalla primavera, si svolsero nel circondario e divenne uno dei capi indiscussi del movimento dei fasci. Il fascio di Piana dei Greci sorse il 21 marzo 1893, sotto la presidenza di Nicolò Barbato. un medico che, negli ultimi tre anni, aveva fatto propaganda socialista nelle famiglie contadine del suo paese. Il sodalizio corleonese e quello di Piana divennero il punto di riferimento dei fasci sorti nei paesi vicini. Riporta Massimo Ganci che quello di Piana dei Greci fu il Fascio più maturo e più democratico di tutta l'Isola. Le decisioni venivano prese dopo lunghe discussioni alle quali partecipavano tutti, e alla fine si votava. Il 1° luglio 1893, il sodalizio contava già 2.500 uomini e 1.000 donne! Uno dei segni più evidenti della maturità e della democrazia di questo fascio fu proprio la presenza femminile (che, comunque, non fu un'esclusiva di Piana). Durante l'inaugurazione del fascio di Corleone, si riunirono le delegazioni di numerosi altri fasci e si delinearono i punti di un programma di rivendicazioni. Tali punti vertevano essenzialmente sull'aumento dei miseri salari dei braccianti, e sulla modifica dei vessatori patti agrari cui erano sottoposti i contadini. Basandosi su tali rivendicazioni, vennero avviati, ai primi di maggio, i primi scioperi agrari a Campofiorito a Corleone e a Piana dei Greci. Con le prime agitazioni iniziò anche la reazione delle autorità di Pubblica Sicurezza e, quindi, le prime denunzie all'autorità giudiziaria ed i primi arresti. Verro e Barbato vennero denunziati per "grida sediziose" e "come eccitatori di tumulti, per associazione a delinquere e per aver preparato stragi e saccheggi" (S.F. Romano, 1959 ). Tra gli arrestati vi fu anche Nicolò Barbato, tradotto in carcere il 12 maggio ma rilasciato il 20 giugno, in seguito al grande scalpore suscitato dal suo arresto. Le numerose denunzie e gli arresti dei dirigenti e di numerosi soci dei fasci di Corleone, Piana dei Greci e San Giuseppe Jato riuscirono nell'intento di far cessare questa prima ondata di agitazioni. Intanto in maggio il numero delle organizzazioni era già arrivato a 90 ed il fascio di Palermo, sotto la guida di Garibaldi Bosco, ritenne opportuno affrontare il problema della loro organizzazione e del loro coordinamento a livello regionale. Inoltre, bisognava chiarire, una volta per tutte, il loro indirizzo politico. A tale scopo furono organizzati due congressi regionali, che si tennero a Palermo nei giorni 21 e 22 maggio 1893. Secondo le idee del comitato promotore di questi congressi, i Fasci dovevano diventare, oltre che delle organizzazioni di carattere cooperativistico e sindacale, anche delle sezioni socialiste. Grazie alla pregiudiziale socialista, come auspicava il Bosco, si riuscì a smascherare i fasci apocrifi, cioè quelli che erano, in realtà, esclusivamente strumenti elettorali in mano ai borghesi. Da questi due congressi scaturirono, inoltre, altri due elementi che si sarebbero rivelati molto importanti per il movimento dei fasci. Uno fu il legame organizzativo che si stabilì tra fasci cittadini e quelli rurali, e quindi tra il movimento operaio ed il movimento contadino. L'altro elemento fu l'attenzione e l'entusiasmo con i quali si discusse del ruolo che le donne siciliane potevano, e dovevano, avere all'interno dei fasci. La loro partecipazione fu infatti massiccia e significativa. Le donne così come i ragazzi, partecipavano attivamente alle manifestazioni ed alle agitazioni dei fasci, anche dove non erano iscritte, e furono sempre nelle prime file. A volte erano proprio loro a sollecitare i mariti all'azione. Le donne presero parte anche agli scioperi agrari d'autunno che, come vedremo, si svolsero imponenti nelle zone del latifondo: una donna, Caterina Costanza, venne arrestata nella zona di Piana dei Greci in quanto promotrice dello sciopero del 30 ottobre; a Villafrati vennero arrestate sei donne, poiché, insieme ad altre quattro, si erano recate, armate di bastone nei terreni di un signore del luogo per convincere i braccianti che vi lavoravano a scioperare. Fu proprio la partecipazione dei ragazzi e delle donne che diede al movimento quel carattere di massa che lo distinse. Ovviamente, l'adesione femminile non lasciò indifferenti le autorità. I ben pensanti e molti giornalisti gridarono allo scandalo, al rilassamento dei costumi, all'allontanamento dalla Chiesa..... I contadini, infatti, sia uomini che donne, pur continuando a credere ai dogmi della religione cattolica, ed a conservarne il culto ne rifiutavano, non a torto, le istituzioni e le autorità che rimanevano fedeli alleate dei ricchi proprietari. La loro "chiesa" divenne il fascio. Sembrò quindi naturale, soprattutto nei centri rurali, tenere nella sede dell'organizzazione un crocifisso ed un'immagine del Santo protettore del paese o portare in giro, nelle manifestazioni, crocefissi e rappresentazioni della Madonna e dei Santi. In realtà, i dirigenti dei Fasci, nelle loro propagande, facevano leva sul sentimento religioso dei contadini per suscitare in loro entusiasmo e passione per il socialismo, inteso però non come attesa messianica di un futuro migliore, ma come impegno concreto, attivo, di ogni essere umano per costruire una società migliore. I contadini prendevano così coscienza dei propri diritti ed erano pronti a lottare per conquistarli. Sia nei Fasci rurali che in quelli delle città, si tenevano periodicamente delle riunioni domenicali, durante le quali si leggevano i giornali, si discuteva dei principi del socialismo, delle proprie condizioni di vita, delle rivendicazioni da avanzare, di come organizzare e condurre uno sciopero o una agitazione. Queste riunioni costituivano una novità per i contadini e per i minatori. Esse contribuirono allo loro istruzione e alla loro educazione morale e intellettuale. Soprattutto contribuirono a far loro acquisire la consapevolezza dei propri diritti. Consapevolezza che si manifestò compiutamente nelle rivendicazioni avanzate, dai contadini, al congresso di Corleone del 30 luglio 1893, e nelle richieste formulate dagli zolfatari, del nisseno e dell'agrigentino, nel congresso che si tenne a Grotte in ottobre.
LA CONQUISTA DEI POTERI PUBBLICI
La via scelta nei congressi di maggio, per il miglioramento delle condizioni di vita di tutti i lavoratori, fu quella legalitaria. Per ottenere il riconoscimento dei propri diritti, per l'attuazione degli ideali socialisti e per essere, finalmente, i protagonisti e non le vittime del sistema politico, le classi lavoratrici non dovevano ricorrere alla rivoluzione ma alle libere elezioni. Il 9 luglio, giorno designato per le elezioni, a Catania, a Messina, a Caltanissetta, a Piana dei Greci e in altri centri minori, vennero presentate, per la prima volta, liste socialiste, composte sia da "fascianti" poco noti sia da candidati già molto conosciuti quali: De Felice a Catania; Petrina e Noé a Messina; Barbato a Piana dei Greci. I risultati premiarono il lavoro svolto dall'intera organizzazione regionale. Oltre ai candidati di spicco, furono eletti anche numerosi operai, contadini, artigiani. Alla base di questo successo c'erano principalmente: le peggiorate condizioni di vita di gran parte della popolazione ed il crescente malcontento. Sull'onda dell'entusiasmo, crebbe il numero degli iscritti e si costituirono nuovi Fasci. I giornali del tempo e le autorità affermavano che il numero degli iscritti ai fasci, ammontava a circa 300.000. Ma, come affermò in seguito Garibaldi Bosco, questa cifra era superiore a quella reale, ed era stata gonfiata dai dirigenti dei fasci per far credere al Governo di disporre di forze ingenti, contro le quali al Giolitti non conveniva agire con la forza. Più vicina alla realtà, anche se approssimata per difetto è invece la stima fatta, nei mesi di ottobre e novembre, dal direttore generale di P.S. Sensales, giunto in Sicilia a fine settembre per svolgere, su ordine del Giolitti, un'inchiesta sui Fasci. Secondo tale stima in Sicilia c'erano 70.553 iscritti ai Fasci. Gli scioperi intrapresi nel maggio '93 dai braccianti e dai mezzadri dei circondari di Corleone e Piana dei Greci, come abbiamo detto prima , erano cessati a causa delle numerose denunzie ed agli arresti dei contadini e, soprattutto, dei dirigenti dei Fasci. Le agitazioni ripresero il 23 giugno, con lo sciopero dei mietitori del fascio di Prizzi, i quali richiedevano un aumento del salario. Ma gli scioperi agrari più consistenti e diffusi si ebbero subito dopo il congresso dei fasci della provincia di Palermo, che si tenne a Corleone il 30 luglio '93. I "Patti di Corleone" non intendevano rivoluzionare i rapporti di proprietà allora esistenti, ma, più semplicemente miravano alla modifica degli iniqui contratti di affitto da parte dei gabelloti. Dal congresso di Corleone uscirono anche altre importanti rivendicazioni: aumenti salariali per i braccianti; divisione dei beni demaniali; affitto diretto dal proprietario del terreno, in modo da eliminare la figura intermediaria del gabelloto, fonte solo di aggravi per il contadino e di potere e ricchezza per la mafia. Gli scioperi ebbero inizio nei primi giorni di agosto. Da Corleone e da Piana dei Greci si estesero in diversi comuni dell'entroterra palermitano ( Bisacquino, Villafrati, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Roccamena, Belmonte Mezzagno), e agrigentino (Casteltermini, Acquaviva Platani, Santo Stefano di Quisquina ed altri centri minori). I contadini si astenevano dal lavoro dopo aver compiuto i lavori di mietitura e di trebbiatura, e convincevano anche i pastori, e tutti i salariati, a fare altrettanto. A settembre i coloni si rifiutarono di prendere i terreni a mezzadria alle solite condizioni, chiedendo che venissero applicati i Patti di Corleone. I proprietari delle terre e i gabelloti, all'inizio, si opposero categoricamente e, convinti di poter controllare e interrompere questa agitazione con gli stessi strumenti che si erano rivelati efficaci per gli scioperi di maggio, si rivolsero alla forza pubblica e alla "forza privata". A Corleone i proprietari terrieri cercarono, inutilmente, di convincere Bernardino Verro a desistere dalla sua attività offrendogli un compenso di quindicimila lire, se avesse accettato di farsi da parte, o una fucilata, in caso contrario. Il Verro, inoltre, il 12 settembre, fu diffidato dal Sottoprefetto. Le amministrazioni comunali dove si svolgevano le agitazioni, intanto, richiedevano rinforzi militari ed erano accontentati. Tuttavia lo sciopero, al quale, secondo stime ufficiali, parteciparono ben 50.000 contadini, nonostante questi episodi, procedette in maniera composta e senza dare luogo ad incidenti che potessero autorizzare l'intervento della polizia o della magistratura. Per sostenere a lungo lo sciopero, alcuni Fasci costituivano i monti frumentari e raccoglievano offerte di denaro, per aiutare i braccianti. I contadini alla fine, grazie soprattutto alla compattezza, alla tenacia e alla maturità dimostrata, riuscirono a fare cedere la maggior parte dei proprietari. Una prova del successo dell'agitazione contadina, può ravvisarsi nello stato di allarme in cui entrò il Governo in seguito al dilagare dello sciopero agrario. Conseguenza diretta di tale stato di allarme fu l'inasprimento dell'atteggiamento ostile e persecutorio che il Presidente del Consiglio aveva iniziato ad assumere nei confronti dei Fasci a partire dal maggio 1893. Risalgono infatti a questa data i primi provvedimenti governativi contro i Fasci. A spingere Giolitti ad intraprendere questa linea politica, furono le incessanti pressioni provenienti dai proprietari terrieri, dai sindaci, dai funzionari di P.S. Alle incessanti richieste di scioglimento dei fasci Giolitti rispondeva di non ritenere necessari i mezzi eccezionali ma aggiungeva: "I mezzi che la legge concede li adopererò tutti inesorabilmente". A maggio egli inviò una circolare alle autorità di polizia invitandole alla più stretta sorveglianza e alla denunzia dei dirigenti dei Fasci; e a giugno promosse un'inchiesta amministrativa per indagare se vi fossero pregiudicati tra gli iscritti ai Fasci, in modo da colpire, in caso di riscontro positivo, i sodalizi in quanto associazioni per delinquere. Scrive Francesco Renda che alla base della titubanza mostrata dal Giolitti nel ricorrere ad un provvedimento eccezionale di scioglimento dei Fasci vi era la precarietà della maggioranza che appoggiava il suo governo e non certamente, aggiungo io, un rispetto per i contadini e le loro rivendicazioni. Anche in autunno, quando, in seguito all'allarme suscitato dallo sciopero agrario, sempre più insistenti si fecero le richieste di provvedimenti straordinari, Giolitti, invece di sciogliere immediatamente i Fasci, preferì prendere tempo, inviando nell'Isola il direttore generale di P.S. Sensales. Oltre tutto, in ottobre, come abbiamo visto, sempre più sindaci, preoccupati per le agitazioni in corso, richiedevano l'invio di soldati nei loro comuni. Spesso però il rafforzamento militare piuttosto che evitare i conflitti ne diveniva un fattore scatenante, in quanto le autorità facevano abuso delle truppe a loro disposizione, esagerando i pericoli di qualunque manifestazione organizzata dai Fasci. Alla fine dell'esaltante sciopero agrario dell'autunno, comunque, il movimento dei Fasci Siciliani non si trovò ad affrontare soltanto la violenta repressione scatenata dal Governo, ma anche l'inaspettato cambiamento della politica agraria del Partito del Lavoratori Italiani!
A settembre si era svolto, infatti, il congresso di Reggio Emilia, durante il quale si erano gettate le basi ideologiche e politiche del Partito Socialista Italiano. A Reggio Emilia i socialisti italiani decisero che il partito doveva: "essere attento solo alle esigenze del bracciantanto agricolo di tipo capitalistico, e non preoccuparsi punto né dei contadini piccoli proprietari né degli stessi mezzadri ed affittuari che sono anche essi, come i contadini coltivatori diretti, destinati a scomparire, travolti dalla trasformazione in senso capitalistico dell'agricoltura"; di conseguenza Il movimento dei Fasci siciliani, che è al contempo di braccianti del latifondo, di contadini senza terra, di mezzadri, coloni, piccoli affittuari, ed anche di strati di contadini piccoli proprietari, in una impostazione di tal genere non trova posto, anzi è considerato come un corpo estraneo da guardare con diffidenza" (F. Renda). A favore degli oltre 50.000 contadini siciliani, che da oltre un mese stavano scioperando per l'attuazione dei Patti di Corleone, non venne espressa, da parte del congresso, alcuna parola di solidarietà; anzi venne manifestata contrarietà per le rivendicazioni stesse degli scioperanti, in quanto a sostegno e non contro la mezzadria. Altro deliberato del congresso di Reggio Emilia, che sancì definitivamente il distacco dal movimento siciliano, fu quello che stabilì che il Partito Socialista Italiano doveva rompere qualunque tipo di legame con i partiti affini e con i singoli che non fossero formalmente socialisti. Questo in Sicilia volle dire la rottura degli stretti legami che fino ad allora il Partito aveva avuto con il movimento dei Fasci, alla cui direzione non vi erano esclusivamente militanti socialisti e al quale erano iscritte persone che, in base alle disposizioni adottate a Reggio Emilia, non potevano più fare parte del Partito. Il movimento dei Fasci Siciliani venne così abbandonato a sé stesso, proprio mentre si accingeva ad affrontare i suoi momenti più difficili. I dirigenti nazionali del partito socialista, tranne qualche comunicato di solidarietà, non si occuparono più della situazione siciliana.
LE MANIFESTAZIONI CONTRO LE TASSE
Dopo l'abbandono da parte del partito socialista , il movimento dei Fasci siciliani cominciò a perdere compattezza e lucidità. Le prime agitazioni che i dirigenti dei fasci non riuscirono a controllare furono quelle contro le ingiuste e opprimenti imposte comunali. Queste lotte si svilupparono in maniera massiccia e tumultuosa al termine dello sciopero agrario, in seguito all'entusiasmo da questo suscitato. Ad essere colpiti dalle esose tasse comunali non erano solo i contadini ma tutti i ceti ad esclusione delle classi abbienti, che ancora, con l'eccezione di qualche comune ove la lista socialista aveva vinto le elezioni amministrative di luglio, dirigevano le amministrazioni comunali, e lo facevano a proprio esclusivo vantaggio. La tassa comunale sul bestiame, ad esempio ed è solo UN esempio, veniva in gran parte a pesare sui ceti più umili, poiché l'importo che doveva pagare chi possedeva bestie da tiro e da soma, gli animali da lavoro del contadino, era maggiore rispetto a quello che era tenuto a pagare chi possedeva vacche e buoi o cavalli da corsa , cioè i ricchi proprietari. Ma ad angariare piccoli proprietari, artigiani, contadini e lavoratori in genere, erano soprattutto le imposte indirette, che in Sicilia avevano un gettito nettamente superiore a quello delle imposte dirette. Tra le prime, l'aggravio che più di tutti opprimeva ed esasperava il popolo, era senz'altro il famoso "dazio consumo": nei comuni aperti si poteva fare entrare liberamente la merce ed il dazio si pagava al momento della vendita al minuto, ricadendo di conseguenza esclusivamente sui consumatori; nei comuni chiusi il dazio si applicava invece su tutte le merci che entravano in paese, cosicché tutti pagavano lo stesso importo ma, i commercianti, potevano rifarsi sul consumatore al momento della vendita. In ogni caso, erano i ceti più poveri a sopportarne il peso. In più i cittadini non ricevevano, come contropartita delle gravose tasse pagate, i servizi pubblici cui avevano diritto, poiché alla "servitù economica" si aggiungeva la "servitù amministrativa In base alla riforma elettorale del 24 settembre 1882, infatti, il diritto di voto era riconosciuto a coloro i quali pagassero una data somma di imposta diretta o sapessero leggere e scrivere. Questa legge consegnò le amministrazioni comunali in mano al "ceto civile", cioè a quel ceto di piccolo-borghesi di cui facevano parte anche i gabelloti ed i "mafiosi" che , una volta acquisito il diritto al voto, strinsero una alleanza politica con i latifondisti, diventandone i galoppini elettorali e ricevendone in cambio "favori e privilegi". Il sostegno dei mafiosi fu ricercato dai vari gruppi politici, sia per intimorire gli avversari sia poiché essi controllavano un congruo numero di voti. Gli unici sconfitti in ogni tornata elettorale erano sempre le classi povere prive del diritto di voto e, quindi, oggetto di tutti i soprusi e le angherie dei gruppi dirigenti locali. L'assoggettamento delle masse popolari non era solo economico, ma generale. Il Sindaco, che veniva nominato dal Governo, poteva facilmente limitare la libertà dei cittadini più ribelli, visto che era lui a rilasciare i certificati di moralità ed a informare il pretore riguardo le persone da sottoporre alle ammonizioni. Egli poteva sostituire l'ufficiale di polizia, assumendone le funzioni e potendo anche, in alcuni casi, effettuare gli arresti. Il Sindaco, inoltre, nella tutela dell'ordine pubblico si avvaleva dell'aiuto delle guardie campestri. Queste non erano altro che gli ex campieri dei feudi che, a partire dal 1866, erano stati organizzati in corpo di polizia municipale, dipendente dal Comune. Le guardie venivano in gran parte reclutate fra i pregiudicati ed i mafiosi del luogo, ed erano addetti di fatto alla tutela delle proprietà del sindaco e dei suoi amici latifondisti: ebbero un grande ruolo nella repressione violenta del movimento contadino. In alcuni comuni esse erano pagate direttamente dai proprietari terrieri; in altri comuni, invece, venivano pagate con i soldi di tutti i contribuenti, per quanto i loro servigi fossero rivolti soltanto ai gruppi dirigenti ed ai proprietari, mentre, al contrario, le masse erano solo vittime della loro violenza ed oppressione. Molteplici furono, dunque, i motivi di malcontento che stavano alla base delle agitazioni che si svilupparono alla fine del 1893. Uno dei motivi per i quali i dirigenti dei Fasci non riuscirono ad avere un totale controllo dell'agitazione fu anche conseguenza del fatto che al contrario di quelle precedenti, questa coinvolgeva svariate categorie sociali: braccianti, contadini poveri, operai disoccupati o sottoccupati delle città, artigiani, commercianti, piccoli e medi proprietari. Per di più, traducendosi in manifestazioni contro i municipi, l'agitazione in alcuni paesi fu strumentalizzata dalla fazione politica borghese avversa al gruppo politico al potere in quel momento; a volte entrarono in opera agitatori e provocatori con il preciso compito di trasformare le manifestazioni pacifiche in disordini, in modo da fornire il pretesto alla forza pubblica per intervenire. Una delle prime dimostrazioni contro le tasse si svolse in agosto a Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo.
La mattina del 12 agosto una cinquantina di donne si radunò davanti al palazzo municipale per protestare contro le tasse e l'amministrazione comunale. L'indomani una delegazione di donne si recò alla caserma dei carabinieri per chiedere l'abolizione del dazio, la destituzione del Sindaco e lo scioglimento del Consiglio comunale. Il 15 agosto, 600 contadini e contadine sfilarono per le vie del paese. Questo pacifico corteo fu fatto sciogliere dal sindaco: tutte le donne presenti alla manifestazione furono arrestate, ed alcuni uomini furono tradotti al carcere di Misilmeri. Il 24 dicembre successivo il Fascio di Corleone organizzò un'assemblea per discutere contro i metodi seguiti dall'amministrazione comunale nella distribuzione delle tasse. Alla fine dell'assemblea circa 4.000 persone si riversarono sulla piazza del Municipio. Bernardino Verro, su sollecitazione dell'ispettore di polizia, invitò la folla a sciogliersi, e la manifestazione si concluse pacificamente. In qualche centro della Sicilia orientale le agitazioni contro le tasse assunsero subito un carattere tumultuoso. A Siracusa, il 10 ottobre una manifestazione di protesta (per la mancata attuazione delle riduzioni di tasse,che l'amministrazione aveva promesso alla cittadinanza) degenerò in tumulto e fu saccheggiato il palazzo municipale (calmato il tumulto la Giunta approvò i provvedimenti promessi). A Floresta, in provincia di Messina, il 22 ottobre fu assaltata la caserma dei carabinieri. Con il passare dei giorni la situazione cominciò a degenerare in tutta la Sicilia. I dirigenti dei fasci, prima ancora che si arrivasse alle devastazioni e agli eccidi, condannarono i primi disordini e gli eccessi delle popolazioni. Ma a partire da dicembre, come vedremo, i tumulti divennero sempre più numerosi e molte dimostrazioni contro i municipi, per l'abolizione delle tasse e dei dazi consumo, si trasformarono in tumulti. I dirigenti dei fasci non riuscirono a controllare il movimento che si allargava rapidamente e in modo disordinato. La sommossa popolare a questo punto diventò un facile pretesto per la liquidazione definitiva del movimento dei fasci ed in alcuni centri rurali, la rivolta fu repressa nel sangue. A sparare sulla folla non furono soltanto le truppe ma anche le guardie campestri al servizio dei proprietari terrieri e dei capi mafiosi.
GLI ECCIDI
Intanto Giovanni Giolitti, travolto dagli scandali bancari, il 28 novembre 1893 si dimetteva dalla carica di Presidente del Consiglio. In verità Giolitti non aveva fatto praticamente nulla per eliminare, o quanto meno ridurre, le cause del malcontento popolare. Perfino gli stessi funzionari statali nei loro rapporti indicavano chiaramente quali erano le cause delle agitazioni, ravvisandole principalmente: nelle miserabili condizioni di vita dei lavoratori e dei contadini, dovute alla concentrazione delle proprietà terriere in mano di pochi, agli iniqui contratti agrari, ai miseri salari dei braccianti e dei minatori, alle angherie dei gabelloti. A tutto questo si aggiungeva, come scriveva nel suo rapporto del 22 novembre il Questore di Palermo, la cattiva e privatistica amministrazione dei municipi. Ma Giolitti non comprese o non volle comprendere, la portata politica e il carattere innovativo del movimento dei Fasci, ritenendolo un movimento esclusivamente economico teso ad ottenere soprattutto un aumento dei miseri salari. Non mise in atto, alcun provvedimento legislativo che mutasse le condizioni economiche e sociali delle masse popolari siciliane. L'atteggiamento tenuto da Giolitti nei confronti del movimento dei Fasci non accontentava neanche la classe abbiente, che criticava sia la sua riluttanza a ricorrere ad un decreto di scioglimento dei sodalizi sia la disposizione data alle truppe di non usare le armi da fuoco contro i dimostranti. Caduto Giolitti vennero meno quei freni da lui posti alla repressione del movimento e durante la crisi ministeriale che seguì le sue dimissioni iniziarono a verificarsi gli eccidi delle masse popolari siciliane. La serie di eccidi iniziò a Giardinello il 10 dicembre e continuò sotto il nuovo Governo dell'ex-siciliano Crispi fino alla proclamazione dello stato d'assedio, avvenuta il 4 gennaio 1894. "A Giardinello il 10 dicembre una dimostrazione contro le tasse e contro la condotta del Sindaco si concluse con 11 morti e numerosi feriti. "Il 17 a Monreale una dimostrazione contro i dazi fu repressa con le armi e si ebbero numerosi feriti; il 25 dicembre, a Lercara una dimostrazione contro le tasse fu repressa lasciando sul campo 11 morti e numerosi feriti. A Pietraperzia il 1° gennaio un'altra dimostrazione contro le tasse costò 8 morti e 15 feriti. Lo stesso giorno a Gibellina ci furono 20 morti e numerosi feriti. Il 2 gennaio a Belmonte Mezzagno, 2 morti ed il 3 a Marineo 18 morti e molti feriti. Due giorni dopo a Santa Caterina si ebbero 13 morti e numerosi feriti" (S.F.Romano, 1959). Secondo il calcolo di Napoleone Colajanni, i dimostranti uccisi furono non meno di 92, mentre tra le truppe vi sarebbe stato un solo morto. Se una parte dei morti in quei disordini fu dovuta all'intervento delle truppe che usarono le armi a fuoco, un'altra parte fu dovuta ai gruppi di guardie al servizio dei capi mafiosi dei comuni. Ad essere condannati a lunghi anni di carcere o all'ergastolo per gli eccidi non furono però le guardie campestri, la cui colpevolezza era certa, bensì i contadini e le contadine! Il 3 gennaio 1894, quando ormai il movimento di protesta era stato sconfitto dallo Stato e dalla Mafia, venne convocato il Comitato Centrale per decidere il da farsi e per la prima volta venne rivendicata ufficialmente la liquidazione del latifondo. Fino ad allora il movimento dei Fasci si era battuto soprattutto per la modifica dei patti agrari e per gli aumenti salariali. L'appello si chiudeva con una esortazione ai lavoratori affinché continuassero ad organizzarsi, ma pacificamente, senza ricorrere ai tumulti poiché con questi non si "raggiungono benefizi duraturi" (S.F. Romano, 1959)
LO STATO D'ASSEDIO
Il 4 gennaio venne affisso in tutti i paesi della Sicilia un Decreto Reale che proclamava lo stato d'assedio nell'Isola. Aveva così inizio la seconda fase della repressione, quella in cui si procedette alla liquidazione definitiva del movimento dei Fasci siciliani. Di questa seconda fase fu arbitro assoluto il generale Morra di Lavriano, nominato dal Crispi commissario straordinario con pieni poteri militari e civili. Il suo primo atto fu l'ordine di arrestare i membri del Comitato Centrale e i dirigenti più importanti dei Fasci dell'Isola. De Felice, Petrina, De Luca, Montalto, Ciralli e Maniscalco vennero arrestati il 4 gennaio; Bosco, Barbato e Verro il 16 gennaio. Gli arresti colpirono anche i contadini e tutti coloro, professionisti e studenti, che avevano partecipato alle dimostrazioni o semplicemente di simpatizzare per il movimento. In 70 paesi furono attuati arresti in massa. Circa 1000 persone furono inviati al confino senza nessun processo. L'11 gennaio il generale Morra di Lavriano dispose con un editto l'arresto e l'invio a domicilio coatto "degli ammoniti e della gente malfamata". Con questo editto il numero delle persone colpite dalla repressione governativa aumentava in maniera logaritmica. Le persone arrestate o inviate al domicilio coatto in virtù di questo decreto furono 1.962 e tra di esse 361 erano della provincia di Catania e 135 della provincia di Messina, vale a dire di due province dove non si erano registrati tumulti. Naturalmente fu applicata rigorosamente "la sospensione delle guarentigie individuali sancite dallo statuto del Regno, cioè la libertà individuale, l'inviolabilità del domicilio, la libertà della stampa, il diritto di riunione e di associazione". Ciò portò allo scioglimento di tutte le associazioni operaie (compresi i Fasci) e di tutte le cooperative, ma non disturbò il "circolo dei nobili" ed il "casino dei civili" (da non confondere con le case di tolleranza). Si procedette anche ad una revisione delle liste elettorali in base ai desiderata delle amministrazioni comunali. L'8 gennaio furono istituiti tre tribunali militari (Palermo, Messina e Caltanissetta) dove si svolsero tutti i processi contro i presunti responsabili dei tumulti e delle stragi. Le accuse mosse agli imputati si basavano sulle dichiarazioni dei sindaci, delle guardie campestri, dei carabinieri ecc.. Per rendersi conto della loro attendibilità basta considerare che un sordomuto fu imputato per aver emesso "grida sediziose" durante i tumulti di Misilmeri. Col movimento dei Fasci i siciliani si erano battuti contro gli agrari latifondisti, contro la mafia, e contro lo Stato. Ma erano in troppi e tutti dalla stessa parte. Le dure sentenze del tribunale militare di Palermo, scatenarono le reazioni di molti. "Già la sera stessa del 30 maggio 1894, molti studenti si radunarono a Palermo davanti al teatro Bellini e diedero vita ad un corteo cantando l'inno dei lavoratori; il giorno dopo, all'università, votarono un durissimo ordine del giorno contro le condanne e decisero di non presentarsi alle elezioni per protesta (...) La mattina del 31 una grande folla si radunò davanti al carcere per solidarizzare con i capi contadini detenuti, mentre il 1° giugno numerose barchette circondarono al porto di Palermo la nave "India", che stava trasportando verso un lontano penitenziario De Felice, Barbato, Verro, Montalto,Pico e Benzi" (D. Paternostro, 1994). Il 14 marzo 1896 il nuovo governo Di Rudinì, concesse l'amnistia ai condannati dai tribunali di guerra per i fatti del '93-94. Fu mantenuto però il divieto di ricostituire i Fasci del lavoratori e qualunque organizzazione dello stesso tipo. Con un provvedimento del settembre 1896 fu sciolta anche la federazione "La terra" di Corleone, fondata da Bernardino Verro, che per sfuggire alla condanna si rifugiò in America, dove continuò a fare propaganda tra gli emigrati siciliani. Sarebbe tornato, Bernardino Verro non era "uomo che scappa", e sarebbe morto.... ammazzato. I provvedimenti del Governo tuttavia non poterono cancellare l'esperienza dei Fasci dalle menti e dalle coscienze delle masse contadine siciliane. Le rivendicazioni economiche e sociali dei Fasci sarebbero state riprese dai successivi movimenti di organizzazione della classe contadina che avrebbero interessato la società siciliana fino agli anni Cinquanta.
Fara Misuraca
Bibliografia
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F. RENDA, Il movimento contadino nella società siciliana. Palermo, 1956.
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N. COLAJANNI, Gli avvenimenti in Sicilia e le loro cause, Sandron Palermo, 1895.
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G. DE FELICE GIUFFRIDA, La questione sociale in Sicilia, Roma, 1901.
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S.F. ROMANO, Storia dei fasci siciliani, Laterza, Bari, 1959
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F. RENDA, I fasci siciliani. 1892-1894, Einaudi, Torino, 1977.
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AA. VV., I Fasci siciliani, De Donato, Bari, 1976.
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