FEMMINICIDI PARTIGIANI: ORRORI ROSSI IN TEMPO DI PACE
di Fabio Giuseppe Carlo Carisio
“I giovani facciano propri i valori costituzionali. La
festa del 25 aprile ci stimola a riflettere come il nostro Paese seppe
risorgere dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Un vero
secondo risorgimento”. Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio
Mattarella al Quirinale ricevendo gli ex-combattenti. “Conoscere la
tragedia il cui ricordo è ancora vivo ci aiuta a comprendere le tante
sofferenze che si consumano alle porte dell’Europa che coinvolgono
popoli a noi vicini”. Tanto è bastato all’Ansa per scrivere il titolo
fazioso “No a riscritture della storia”. Siccome per passione (e studi)
faccio lo storiografo trovo molto opportuno ripubblicare un articolo di
alcuni mesi fa nella speranza che il Capo dello Stato impari tutta la
storia e non solo quella che gli piace.
I FEMMINICIDI PARTIGIANI
Il femminicidio è una grave piaga della società contemporanea,
epifenomeno di un retaggio culturale che nei secoli legittimò gli abusi
maschilisti ma anche, o forse soprattutto, di una generale inaudita
recrudescenza di belluina violenza sociale che miete vittime tra
genitori anziani come tra bambini in culla. In Parlamento si sta
cercando di dare una risposta legislativa al fenomeno con la nuova legge
sul Codice Rosso
in difesa delle donne che, però, come la precedente normativa sullo
stalking, rischia di rivelarsi solo un vacuo tentativo di smorzare gli
effetti, a volte davvero imprevedibili, più che una reale soluzione per
affrontare le vere cause. Se diamo uno sguardo alla nostra storia,
inoltre, scopriamo purtroppo che il femminicidio è antico quanto la
libertà d’Italia,
VIOLENTATE ANCHE LE VERGINI COME AI TEMPI DI NERONE
Tutti oggi si scandalizzano per episodi che balzano sulle prime
pagine, a volte senza nemmeno conoscere il vortice di tensioni e
violenze psicofisiche reciproche che ha portato ad un aggressione o
peggio ad un omicidio, ma pochi s’indignano per le stragi di donne
civili compiute dopo il 25 aprile 1945 dai partigiani liberatori e
rimaste quasi tutte senza giustizia ed occultate nell’oblio storico: una
delle rarissime lapidi in memoria di una vittima, quella per la 13enne Giuseppina Ghersi di Savona, è stata vandalizzata di recente da un vindice odio mai sopito che nessuno persegue né punisce come meriterebbe.
Ma di casi simili al suo ce ne sono decine, centinaia… Secondo lo storico e giornalista Gian Paolo Pansa furono 2.365 le vittime. Si
tratta di uno dei femminicidi più vergognosi d’Italia: un ricordo che,
certamente, crea un po’ d’imbarazzo tra le stesse femministe, nella
maggior parte dei casi di vocazione comunista e quindi magari figlie,
sorelle, nipoti di coloro che quei crimini li perpetrarono con
efferatezza: aggiungendo alla sanguinaria violenza omicida anche la
sevizia e l’onta eterna dello stupro.
Come ai tempi di Nerone le vergini cristiane venivano deflorate dai
gladiatori prima di essere uccise, come nella ignominiosa guerra di
Bosnia le donne furono selvaggiamente violentate per giorni prima di
essere sgozzate (o costrette a partorire il figlio dello stupro), anche
nell’Italia liberata avvennero simili scempi. Con alcune sostanziali
differenze: ai tempi di Roma vigeva una tirannide, in Bosnia c’era una
cruenta guerra etnica, nel nostro paese, invece, si era in tempo di
pace: il dittatore, il duce Benito Mussolini era infatti stato
giustiziato il 28 aprile 1945, le forze militari fasciste si erano
arrese, quelle tedesche si erano ritirate. L’Italia era stata liberata
dall’occupazione il 25 aprile 1945.
Ma proprio il mese di maggio fu uno sei più sanguinari e ferali tanto
che il 7 maggio, ricorre l’anniversario della morte di ben quattro
donne trucidate dagli orrori rossi in tempo di pace. La memoria ritorna
alla provincia di Cuneo, seguendo la china dei racconti
di un giornalista che da bambino andava ad assistere ai processi ai
“neri” per vedere i “cattivi” puniti; uno storico che solo dopo aver
scritto tanto sulla Resistenza e sui partigiani, ha narrato il suo viaggio nella Seconda Guerra mondiale attraverso il libro di alto valore storiografico “Il sangue dei Vinti” di Gian Paolo Pansa.
Molteplici aneddoti, che giungono quindi da un ricercatore col cuore
partigiano, raccontano di semplici civili, rapiti in casa all’improvviso
da squadriglie di giustizieri improvvisati, a volte seviziati, poi
uccisi; e donne con la sola colpa di presunti e mai provati
collaborazionismi: bastava l’odore del sospetto a sancire la morte che
giungeva persino benedetta quando era immediata. Ora alle vittime di
questo immane femminicidio nascosto dalla storia vogliamo rendere un
poco giustizia ricordando il loro martirio. A volte anche in nome di Gesù Cristo dinnanzi ai quei guerriglieri della Resistenza in larga parte atei e capaci di scegliersi Satana come nome di battaglia..
MICHELINA, 12 GIORNI DI VIOLENZE FEROCI
Non fu immediata per Francesca G., 42 anni, e sua figlia Michelina di
20, di Borgo San Dalmazzo, in quella provincia Granda di Cuneo dove la
guerriglia tra partigiani e fascisti-tedeschi fu asperrima come in tutte
le zone prealpine. Furono prelevate di casa il 29 aprile insieme al
marito Giuseppe G. A difenderli non bastò nemmeno la circostanza che
loro figlio Biagio morì fucilato dalle Brigate nere in quanto…
partigiano! Michelina faceva la dattilograva saltuaria per guadagnare
qualche soldo nei tempi duri della guerra, la sua colpa fu farlo per un
capitano della Polizia militare della Littorio. Il 29 aprile i carnefici
entrarono nella loro casa, portarono fuori il padre e la madre insieme a
lei: il genitore fu subito giustiziato, le due donne furono rapate a
zero e poi riportate in casa «per essere violentate a turno da una banda
partigiana. Questa tortura andò avanti per qualche giorno» scrive
Pansa. Il 7 maggio fu uccisa la mamma, l’11 toccò a Michelina. Solo Dio
sa quante volte quella giovane invocò la morte in quei 12 giorni…
Lo stesso giorno in cui moriva Francesca, a Vercelli si consumava una
delle più cruente stragi rosse, di cui si trova notizia su numerosi
giornali locali. I giustizieri entrarono in una casa del rione Isola e,
per futili motivi, freddarono Luigi Bonzanini, insieme alle sue nipoti
di 16 e 21 anni, Elsa e Laura Scalfi, inerme e innocenti sorelle
inseguite e uccise sul ballatoio. La vicenda mi fu raccontata
direttamente dalla superstite dell’eccidio (vedi pdf in fondo all’articolo).
Per non lasciare testimoni gli assassini tornarono poi in casa per
eliminare anche la suocera del Bonzanini, Luigia Meroni, paralizzata a
letto. I corpi furono buttati nel fiume Sesia. Fu uno dei pochi massacri
ad avere parziale giustizia perché l’efferatezza dei partigiani fu tale
che i mattatori di quell’eccidio, Felice Starda ed un suo complice,
furono misteriosamente uccisi giorni dopo, si sospetta da loro stessi
compagni: ma il nome di Starda fu inspiegabilmente iscritto tra le
vittime per la Liberazione nella lapide del cimitero di Billiemme e la
moglie ricevette l’indennizzo riservato ai caduti per la patria…
IL CADAVERE DELL’ATTRICE MILANESE
Al fine di evidenziare gli assurdi femminicidi dei liberatori rimasti
senza giustizia e persino dimenticati dalla storia, non racconterò
volutamente di tutte quelle ausiliarie giustiziate, per non fare
confusione tra le donne combattenti e quelle civili. Ed ovviamente
tacerò dei crimini avvenuti in tempo di guerra, prima del 25 aprile,
sebbene quelli fascisti siano stati ampiamente propagandati ad infamia
eterna e quelli partigiani passati sotto silenzio. Tra le vittime ce ne
fu anche una famosa: l’attrice milanese Luisa Ferida, 31 anni, fu
assassinata insieme al collega Osvaldo Valenti di 39, all’alba del 30
aprile in via Poliziano, giustiziata per accuse mai provate.
Per una donna, nell’Italia liberata, era esiziale anche solo aver
fatto la segretaria di redazione in un giornale, se era quello
sbagliato. Pia Scimonelli aveva 36 anni, e lavorava per Repubblica
Fascista: «moglie di un ufficiale disperso in guerra nell’Africa
orientale, era rimpatriata in Italia dall’Eritrea con la nave Vulcania,
insieme ai suoi tre bambini. Aveva bisogno di lavorare per mantenerli ed
era riuscita a trovare quel posto nel giornale…» precisa Pansa. Fuggì
con due colleghi del giornale, trovò rifugio in un alloggio poi
perquisito dai partigiani. Qualche giorno dopo di loro non si seppe più
nulla: i loro tre cadaveri furono riconosciuti all’obitorio di via
Ponzio.
GIUSTIZIATA SEBBENE INCINTA DI 5 MESI
Nessuna pietà nemmeno davanti ad una donna in gravidanza. Accadde il
27 aprile a Cigliano quando i partigiani fecero capitolare un gruppo di
fascisti che, dopo aver tentato una breve resistenza, si arrese. Tra
loro c’erano due giovani donne che si erano recate a trovare i mariti
ufficiali. Una delle due, Carla Paolucci, era incinta di cinque mesi e
lo disse ai suoi giustizieri improvvisati. Ma questo non bastò a
salvarla. «Si poteva essere giustizia anche per colpe da poco o
inesistenti – evidenzia Pansa – Cito un esempio solo: quello di un
gruppo di donne che, per campare, lavorava alle mense tedesche di via
Verdi (Torino), cuoche, cameriere, sguattere. I partigiani della Sap le
raparono a zero e le rilasciarono. Il giorno successivo furono trovate
uccise al Rondò della Forca».
Inevitabile quindi la morte per le parenti dei presunti
collaborazionisti. Forse per non lasciare testimoni in cerca di
giustizia. E’ il caso di Luisa, figlia di un albergatore di Bra il cui
hotel, il rinomato Gambero d’oro, fu requisito dai tedeschi, non si sa
se con il consenso o meno del titolare (e se avesse espresso dissenso
che fine avrebbe fatto?). Fatto sta che «il 26 aprile i partigiani lo
arrestarono, insieme alla figlia adottiva, Luisa di 19 anni. Fonti
fasciste sostengono che la ragazza fu violentata e poi uccisa con il
padre e gli altri alla Zizzola».
GIUSEPPINA, VIOLENTATA E UCCISA A 13 ANNI
Ma c’è una storia che fa rabbrividire. «A Savona, la fine della
guerra civile vide esplodere subito un’ottusa barbarie. La mattina del
25 aprile una ragazzina di 13 anni, Giuseppina Ghersi, venne sequestrata
in viale Dante Alighieri e scomparve. Apparteneva a una famiglia
agiata, commercianti in ortofrutticoli». Non erano nemmeno iscritti al
Partito Fascista Repubblicano, ma aveva un parente iscritto cui avrebbe
riferito “qualcosa che non doveva vedere”, secondo Pansa, secondo altre
fonti in qualità di allieva delle magistrali Rossella era stata premiata
per un concorso scolastico direttamente da Mussolini.
«I rapitori di Giuseppina decisero subito che lei aveva fatto la spia
per i fascisti o per i tedeschi. Le tagliarono i capelli a zero. Le
cosparsero i capelli di vernice rossa» si narra nel libro. La condussero
in una scuola media di Legino (Savona) adibita a campo di
concentramento: «Qui la pestarono e la violentarono. Un parente che era
riuscita a rintracciarla a Legino la trovò ridotta allo stremo». Aveva
solo tredici anni, tredici! Era in un campo di prigionia dove, ammesso e
non concesso che fosse una prigioniera di guerra, in qualche modo
avrebbe dovuto essere difesa dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Dopo
essere stata picchiata e violentata non sfuggì all’uccisione che forse
giunse a toglierle dal destino una vita nel ricordo degli orrori. Dei
tanti parlamentari uomini e soprattutto donne che si agitano per i
diritti dell’uomo a Guantamano non rammento nessuno che abbia mai
riaperto la storia della piccola Giuseppina sebbene vi sia una denuncia
depositata alla Questura di Savona dal 1949…
AD ALASSIO OCCULTAMENTO DI UNA STRAGE DI DONNE
Vicino ad Alassio i crimini senza senso si perpetrarono fino al 29
maggio. A Stella in località San Martino, furono giustiziate tre donne
non più giovani: di loro si conoscono solo nomi ed età, nulla più.
D’altronde molte vittime furono tumulate nelle fosse comuni addirittura
camuffate. E’ il caso di altre liguri, Maria Naselli, 54 anni, della
figlia Anna Maria di 22, e della domestica Elisa Merlo di 35. Furono
arrestate a Legino con il capofamiglia Domingo Biamonti di 61 anni,
capitano della Croce Rossa, reo di avere un figlio tenente nella San
Marco. Furono giustiziati a colpi di mitra al cimitero di Zinola e
tumulati in un’unica fossa con una finta lapide: “Qui riposa la salma di
Luigi Toso, di anni 84. La famiglia pose”. Un occultamento che prova la
consapevolezza dei carnefici di compiere un gesto violento ed illecito,
scoperto 4 anni dopo per il senso di colpa dei becchini.
Sterminate anche la moglie e le tre figlie poco più che ventenni di
un benestante agricoltore di Lavagnola (Savona). Giuseppina Turchi, la
maggiore delle ragazze, pare che fosse legata ad un ufficiale della San
Marco. «E come accadeva a molte donne, in quei giorni, la si accusava di
aver fatto la spia» nota Pansa. Per questo era stata rapata a zero e
poi rimandata a casa. Ma ciò non placò la sete di sangue e vendetta:
nella notte tra il 13 ed il 14 maggio, una squadra di armati irruppe
nella cascina della famiglia Turchi e uccise tutti (la più giovane morì
dissanguata in un bosco), persino il cane.
NELL’ECCIDIO DI SCHIO PER… MOROSITA’
Nel mistero morì Clotilde Biestra, 45 anni, di Loano: imprigionata
dai partigiani e scomparsa nel nulla in un giorno imprecisato del maggio
1945. Il motivo? Aveva una nipote ausiliaria che ebbe fortuna di
scamparla, nei giorni successivi alla Liberazione, ma fu poi freddata da
un killer il 15 gennaio 1946: forse avrebbe potuto testimoniare contro
chi aveva deciso l’esecuzione della zia?
Come si è potuto leggere si è trattato di donne inermi, civili, senza
implicazioni dirette con una militanza di guerra: uccise perché madri,
mogli, sorelle, zie. Nella sola Genova furono 71 le donne uccise tra i
456 civili. Ci furono 15 femmine anche tra le 53 vittime dell’eccidio di
Schio (Vicenza) del luglio 1945. Fra i giustiziati anche una casalinga
di 61 anni, Elisa Stella, vittima di una vicenda assurda – narra sempre
Pansa che fa riferimento anche al libro “L’eccidio di Schio. Luglio
1945: una strage inutile” – Aveva affittato un aloggio a un tizio che,
dopo un po’, si era rifiutato di pagarle l’affitto. Alle proteste della
padrona di casa l’inquilino moroso, nel frattempo diventato partigiano,
pensò bene di denunciarla come pericolosa fascista. La donna fu
arrestata, rinchiusa nel carcere di via Baratto e qui finì nel mucchio
dei trucidati il 6 luglio».
STUPRATA IN CASA DAVANTI AI TRE BAMBINI E SEPOLTA VIVA
Tra tutte forse la più “colpevole” fu una infermiera di Conselice,
Anselma G. di 25 anni. Rea di essere fidanzata con un militare fascista e
di aver curato soldati tedeschi. Fu stuprata e poi uccisa con
un’iniezione di veleno, forse per una cinica legge del contrappasso… Nel
triangolo rosso, nella provincia di Bologna comunista furono ben 42 le
vittime del femminicidio tra i 334 civili. Stragi di donne non di rado
compiute per «antipatie famigliari, contrasti sul lavoro, ruggini
antiche. E anche per faccende del tutto private come storie d’amore
finite male o questioni di gelosia» si scrive ne “Il sangue dei vinti”
evocando quelle ragioni di “femminicidi” che ai nostri giorni suscitano
le reazioni indignate di politici e opinione pubblica ma che allora
furono passate sotto silenzio e ancora oggi sono relegate nell’oblio.
Tra di loro ci fu anche Ida, 20 anni, sposata e madre di un bambino:
strangolata col fino telefonico insieme ai suoi sei fratelli, tutti
colpevoli perché due di loro avevano la tessera del Pfr, e gettata in
una fossa comune con altre dieci vittime. Nel Modenese, a Liberazione
ormai conclamata, non fu da meno il trattamento riservato al gentil
sesso che si ritrovò a pagare una doppia empietà per la sua natura: alla
condanna a morte si aggiunse infatti l’empietà dello stupro. Pansa
narra di omicidi «che qui non possiamo ricordare neppure in parte. Tutti
o quasi senza una parvenza di processo. E spesso preceduti da
efferatezze barbariche, specialmente nei confronti delle donne
catturate». «Rosalia P., 32 anni, segretaria del fascio di Medolla, il
27 aprile fu presa in casa, violentata davanti al marito e ai tre
bambini…», fu poi obbligata a scavarsi la fossa in giardino e «sepolta
viva». «Il 2 maggio a Cavezzo, madre e figlia, Bianca e Paola C.,
vennero seviziate a lungo, sino alla morte. Poco tempo fece la stessa
fine un’insegnante cinquantenne che stava cercando notizie sulla
scomparsa delle sue amiche di Cavezzo».
Come detto in questta narrazione ho volutamente espunto le storie di
coloro che, per citare un paragrafo del libro, seppero “Morire da
uomini” avendo militato e creduto nel fascismo. Tra loro ci fu anche
un’insegnante, sospettata di essere ausiliaria ma di certo terziaria
francescana, che lasciò parole toccanti. Angela Maria Tam annunciò così
la sua morte in una lettera ad un sacerdote: “Durante tutto il viaggio
da Sondrio a Buglio ho cantato le canzoni della Vergine. Ho passato in
prigione ore di raccoglimento e di vicinanza a Dio. Viva l’Italia! Gesù
la benedica e la riconduca all’amore e all’unità per il nostro
sacrificio. Così sia!”».
Nella lista manca l'eccidio di Codevigo dove il comandante Boldrini detto buloc del battaglione Cramona ha sterminato 136 persone parroco compreso.ricostruzione con il film Segreto d'Italia coibottato dai Komunisti e poco conosciuto perché insabbiato Partigiani = peggio dei integralisti islamici!!!
Nella lista manca l'eccidio di Codevigo dove il comandante Boldrini detto buloc del battaglione Cramona ha sterminato 136 persone parroco compreso.ricostruzione con il film Segreto d'Italia coibottato dai Komunisti e poco conosciuto perché insabbiato Partigiani = peggio dei integralisti islamici!!!
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