lunedì 2 settembre 2019

Sul mare luccica…


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di Vincenzo Vinciguerra

Buona parte degli storici italiani pretende di scrivere le vicende italiane del dopoguerra fermandosi alle apparenze, come a dire che nessuno di loro vuole – o ha la capacità – di immergersi nella profondità della storia.
Non sono gli esploratori della storia italiana che è intessuta di patti segreti, accordi inconfessabili, ruoli clandestini, poteri «occulti», ma sono come i bagnini che pretendono di conoscere il mare solo perché ne osservano il moto ondoso.
Invece, per comprendere quanto è accaduto in Italia bisogna avere il coraggio di tuffarsi nelle profondità abissali perché è lì che si nasconde la verità.
Giuseppe Parlato, per esempio, ha scritto un buon libro sulle origini del Movimento sociale italiano rilevando che è stato costituito dal Vaticano, dalla Democrazia cristiana, dai servizi segreti americani e dalla Confindustria.
Non si è chiesto, però, perché e con chi queste forze hanno formato un partito che doveva solo fingere di raccogliere l’eredità del fascismo, in particolare di quello repubblicano, per disperderla e tradirla.
Una delle ragioni era rappresentata dalla necessità di bloccare l’afflusso di reduci della Rsi nei ranghi dei Partiti comunista e socialista, l’altra quella di contribuire a ricostituire l’unità delle Forze armate e di polizia frantumata dopo l’8 settembre 1943 con la nascita della Repubblica del Nord contrapposta al Regno del Sud.
Il movimento sociale italiano nasce, dunque, per ragioni di servizio nei confronti dello schieramento anticomunista politico, militare e di sicurezza.
Non è vero che i dirigenti del Msi si sono impegnati nel tempo a traghettare i loro iscritti, simpatizzanti e votanti verso la democrazia «senza rinnegare né restaurare», perché fin dal luglio del 1946 Pino Romualdi, a capo dei Fasci di azione rivoluzionaria, regolarmente finanziati dal servizio segreto americano, aveva rinnegato l’essenza stessa del fascismo, e di quello repubblicano in particolare, proclamando la necessità strategica di porsi al servizio della borghesia per riacquistarne i favori combattendo il comunismo.
Quella borghesia che Benito Mussolini, nei primi giorni di aprile del 1945, aveva indicato ai fascisti come «la rovina dell’Italia», era ora il punto di riferimento, ovvero la cortigiana di cui bisognava riconquistare i favori, e per meglio svolgere il loro compito servile hanno indossato, i Romualdi e amici, la camicia nera per occultare la livrea.
Per oltre un ventennio, con alti e bassi, sono riusciti a fare questo doppio gioco fino al momento in cui, agli inizi degli anni Settanta, buona parte dei dirigenti non ha ritenuto maturo il momento di seppellire il fascismo, i busti di Mussolini, i saluti romani e la camicia nera per dire apertamente che rappresentavano una forza di destra conservatrice, cioè di dire la verità.
La scissione di Democrazia nazionale nasce, di conseguenza, dalla paura di Giorgio Almirante di perdere voti, tanti voti, di quelli che ancora all’epoca incredibilmente credevano che il Msi fosse l’erede del fascismo, di quello repubblicano che aveva salvaguardato l’onore d’Italia.
A leggere il libro che Giuseppe Parlato ha dedicato alla scissione di «Democrazia nazionale» sembra che tutto si è svolto alla luce del sole, uno scontro politico fra gentiluomini, fra uomini politici di altissimo livello e raffinatissimi intellettuali.
Parlato si ferma al 1977, nega i finanziamenti della Democrazia cristiana ai dirigenti di «Democrazia nazionale» fingendo di non sapere che uno dei loro finanziatori (ma gli altri chi erano?), Silvio Berlusconi, era legatissimo alla Dc, ipotizza che l’unico politico democristiano interessato alla scissione sia stato Amintore Fanfani e nega con forza che possa esserlo stato Giulio Andreotti.
Per scelta, Giuseppe Parlato, preferisce non ricordare altri fatti, quelli che provano che il gioco non era pulito ma era «sporco», com’è in uso non fra gentiluomini ma fra mezze tacche di politica e culturame sparso, che invano cerca di nobilitare.
Possiamo credere, perché non abbiamo gli elementi per smentirlo, che nel 1977 Giulio Andreotti e i suoi scagnozzi della loggia P2 non avessero interesse per «Democrazia nazionale»; ma abbiamo la prova che l’hanno avuto – eccome – a partire dal 1978, quando il generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi, subalterno del presidente del Consiglio Giulio Andreotti (perché il Sismi dall’ottobre del 1977 dipendeva dalla presidenza del Consiglio), piduista, farà riaprire l’inchiesta sull’attentato di Peteano di Sagrado del 31 maggio 1972, con un solo fine: screditare Giorgio Almirante e il Msi, per favorire elettoralmente Mario Tedeschi e «Democrazia nazionale» nelle elezioni politiche anticipate del 1979.
Potevano farlo, perché sia il Sismi che Mario Tedeschi sapevano fin dal mese di ottobre del 1972 che all’attentato aveva partecipato Carlo Cicuttini, segretario comunale del Msi di Manzano del Friuli. A lui Giorgio Almirante aveva destinato la cifra di 35 mila dollari per operarsi alla corde vocali.
A dirigere questo gioco sporco c’era proprio Giulio Andreotti, il solo che aveva il potere di ordinare al generale Giuseppe Santovito di procedere.
La domanda sorge spontanea: Giulio Andreotti si era convertito agli interessi di Democrazia nazionale solo nel 1978 o, in realtà, aveva occultamente partecipato alla sua nascita fin dal 1976?
Se Giuseppe Parlato avesse scritto la storia di Democrazia nazionale per intero, forse a questa domanda avrebbe potuto dare risposta, ma ha preferito fermarsi a guardare il mare che luccica senza calarsi nelle sue profondità mancando al suo dovere di storico.
Peccato!
Opera,04 luglio 2019

TRATTO DA:
https://ivoltidigiano.tumblr.com/post/187438685342/sul-mare-luccica?fbclid=IwAR0draElBT7VqMlsxvhedhg4-R7a0Snxy55dmcE4dEUXL9PkOzSEFudmcPU

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