di Vincenzo Vinciguerra
I giornalisti Mario Guarino e Fedora Raugei hanno scritto nel 2016 un libro sulla figura di Licio Gelli, l’ennesimo della serie.
Nelle loro intenzioni, come fa intendere la prefazione di Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di Bologna del 2 agosto 1980, la ricostruzione della vita e delle opere di Licio Gelli è un modo per ribadire la verità che vede costui al vertice di operazioni oscure finalizzate a condizionare il sistema politico.
È una tesi di comodo che va respinta una volta per sempre perché è funzionale alla difesa del sistema politico che riesce, sempre e puntualmente, a creare un capro espiatorio sul quale concentrare l’attenzione di tutti coloro che vogliono affermare una verità che, contrariamente alle loro aspirazioni, non coincide quasi mai – per non dire mai – con la vera verità.
È dubbio, perfino, che Licio Gelli sia stata veramente il capo della Loggia P2, indicato da più persone in Giulio Andreotti seguito da Francesco Cosentino e Umberto Ortolani.
Gelli era, stando a queste testimonianze, il quarto nella gerarchia di una struttura ufficialmente massonica, quello che ci metteva la faccia, quello che appariva, che aveva certamente potere, che certo contava, ma restava pur sempre un subalterno, quello che alla fine è stato «scaricato» dagli americani e gettato in pasto all’opinione pubblica, mentre gli altri sono rimasti in disparte, addirittura sconosciuti al grande pubblico come Francesco Cosentino, lo stesso che in questi ultimi anni un pentito mafioso ha indicato come il mandante dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Licio Gelli appare come il capo palese di un potere occulto e nessuno vuole comprendere che i capi di un potere occulto sono occulti anch’essi.
Troppa superficialità nello scrivere una storia che si basa su letture giornalistiche e su documenti giudiziari che spesso affermano il contrario della verità.
Difatti, i due autori tirano in ballo i depistaggi seguiti all’attentato di Peteano di Sagrado uniformandosi alle grottesche affermazioni del giudice istruttore Felice Casson che, nella sua ordinanza del 4 agosto 1986, ha scaricato ogni responsabilità e, addirittura, ha ipotizzato l’ispirazione dello stesso attentato alla Loggia P2.
Le farneticazioni giudiziarie di Felice Casson affermate senza indicare uno straccio di indizio, solo perché la P2 era, all’epoca, di moda, servivano a nascondere la responsabilità dei vertici dell’Arma dei carabinieri, del ministero degli Interni e dei servizi sia civili che militari.
Casson ha costruito la solita «deviazione», condita con infedeltà, tradimenti, collusioni per occultare la verità rendendo un servizio a coloro che quei depistaggi avevano ordinati e fatti eseguire.
La prova che la loggia P2 non ha avuto niente a che fare con i depistaggi seguiti all’attentato di Peteano nel 1972, è dato dal fatto che, nell’autunno del 1978 a fare riaprire l’inchiesta per motivazioni politiche (aiutare Democrazia nazionale) è stata proprio la loggia P2 nelle persone di Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, Giuseppe Santovito, direttore del Sismi, Mario Tedeschi, dirigente di Democrazia nazionale, che ha fornito i testimoni di accusa.
Questa che affermiamo non è una verità giornalistica ma storica perché è documentata negli atti del Sismi e in quelli processuali, ed è quindi di dominio pubblico.
È sconcertante che, dopo 30 anni, nessuno abbia rilevata questa verità e, viceversa, tutti, compresi gli autori di questo libro, ribadiscano le fasulle e strumentali affermazioni del Felice Casson.
Cecità o malafede?
Domanda che ha la sua ragion d’essere in una seconda «dimenticanza» di storici e giornalisti, quella che vede il vicequestore Giuseppe Impallomeni, dirigente della Digos di Venezia condurre le indagini per conto di Felice Casson.
Chi era Giuseppe Impallomeni, sono gli autori del libro a scriverlo, a pagina 166:
«…Giuseppe Impallomeni (tessera P2 n. 2213), precedentemente allontanato dalla Mobile di Firenze per un giro di tangenti e, inopinatamente, dal 309° posto della graduatoria dei vicequestori aggiunti, era passato al 13°, fatto che gli consente di prendere il comando della Mobile di Palermo».Non solo, nel mese di novembre del 1978, la loggia P2 fa riaprire l’inchiesta ma ne affida la direzione al piduista Giuseppe Impallomeni, uno che a Gelli si rivolgeva, per iscritto, con «Caro Licio».
Il «caro Licio» si era interessato al sottoscritto a Buenos Aires, a partire dal mese di giugno 1978, muovendo la squadra Speciale agli ordini personali dell’ammiraglio Emilio Massera, iscritto alla loggia P2, verità disattesa dal Felice Casson perché a svolgere le indagini era il piduista Giuseppe Impallomeni.
Non è azzardato, a questo punto, ritenere che le accuse rivolte alla Loggia P2 di aver ideato (addirittura!) l’attentato di Peteano e di aver organizzato i depistaggi nel 1972 siano state suggerite al Casson proprio dal suo piduista di fiducia Giuseppe Impallomeni.
Questa è storia, non quella scritta da Mario Guarino e Fedora Raugei, perché basata su fatti incontrovertibili, documentati e documentabili in ogni sede e in qualsiasi momento.
Nel 2018, cessate le protezioni politiche che gli avevano consentito di fare una brillante carriera giornalistica, il Casson è stato escluso dalla magistratura.
Nel 2019, ci possiamo augurare che qualcuno, oltre a chi scrive, abbia il coraggio di dire la verità?
La speranza non la perdiamo.
Opera,05 luglio 2019
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