lunedì 19 agosto 2019

Intervista sul fascismo allo scrittore ed editore Maurizio Murelli



Questo articolo, che propone un’intervista sul fascismo a Maurizio Murelli, è stato pubblicato sul Primato Nazionale di aprile 2018

Maurizio Murelli, scrittore ed editore, animatore delle edizioni Aga, è un volto noto della «destra radicale» milanese e nazionale. Due anni fa, Murelli invitò i suoi contatti di Facebook a formulare domande per realizzare un’ipotetica intervista a un neofascista. In seguito, fu contattato da un giornalista che voleva realizzare un’intervista sempre sullo stesso argomento, che fu realizzata e poi mai pubblicata. Dalle due suggestioni è nato un lungo testo destinato forse in futuro a diventare un libretto, in cui Murelli affronta una serie di questioni legate a fascismo e antifascismo, tentando di stilare una sorta di ABC sull’argomento. Quella che presentiamo è uno stralcio relativo alle questioni più importanti.

Lei si definisce fascista?

Sì. Se non altro — e ovviamente c’è ben altro — per differenziarmi da chi non lo è. Provi lei a fare l’elenco delle personalità oggi in scena che fascista non lo sono o, peggio ancora, sono antifascisti avendo del fascismo un’idea costruita in vitro frammischiando ignoranza, incultura e falsificazione storica. Si renderà ben conto che quando in quella lista appaiono nomi come Saviano, Bonino, Boldrini etc. per quel che riguarda l’Italia, Soros et similia per quanto riguarda il mondo intero, se ci si vuole differenziare la scelta di definirsi fascista è addirittura obbligatoria, tanto più che l’alternativa comunista/marxista si è rivelata un bluff. È questa gente che elegge ad antitesi dei propri pseudo-valori e pseudo-princìpi il fascismo definendolo «male assoluto». Ponendosi dunque sul piano manicheistico, se da una parte ci sono questi bei personaggini, chi non è come loro e si centra attraverso princìpi e valori non può che declinarsi come fascista, prima di tutto per una questione di igiene.

Ma lei non trova anacronistico definirsi fascista nel 2018? Il fascismo è stato sconfitto dalla storia

Questa della sconfitta del fascismo e dell’inappellabile giudizio negativo della storia è un barbatrucco. Funziona così. Hanno mostrificato il fascismo del Ventennio definendolo, da un punto di vista storico, per linee false e comunque assumendolo appunto come parentesi storica. Invece il fascismo è prima di tutto una dottrina, una dottrina dinamica come nessun’altra. A fare testo, dunque, non è l’inveramento storico nelle sue contingenze di spazio e tempo. Basta leggere le prime righe alla voce «fascismo» vergate da Gentile e Mussolini per la Treccani per averne contezza. Recitano così: «Come ogni salda concezione politica, il fascismo è prassi ed è pensiero, azione a cui è immanente una dottrina, e dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze storiche, vi resta inserita e vi opera dal di dentro. Ha quindi una forma correlativa alle contingenze di luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale che la eleva a formula di verità nella storia superiore del pensiero. Non si agisce spiritualmente nel mondo come volontà umana dominatrice di volontà senza un concetto della realtà transeunte e particolare su cui bisogna agire, e della realtà permanente e universale in cui la prima ha il suo essere e la sua vita. Per conoscere gli uomini bisogna conoscere l’uomo; e per conoscere l’uomo bisogna conoscere la realtà e le sue leggi. Non c’è concetto dello Stato che non sia fondamentalmente concetto della vita: filosofia o intuizione, sistema di idee che si svolge in una costruzione logica o si raccoglie in una visione o in una fede, ma è sempre, almeno virtualmente, una concezione organica del mondo».
Quale dottrina presenta una superiore dinamicità? «Contingenze di luogo e di tempo» dice tutto. E ci dice prima di tutto che ferma restando l’immutabilità dei princìpi, i valori si adeguano al tempo storico nel quale si vive. Quindi, come ogni dottrina che sta a fondamento di una visione del mondo e concezione della vita, essa non è superata dalla storia. Del resto poi la dottrina fascista è più giovane rispetto a quella liberista – che tra l’altro è poliedrica e diversamente codificata, consentendo ai suoi estimatori il gioco delle tre carte, richiamando per convenienza ora a questa ora a quella declinazione – e a quella marxista, risultata sconfitta per consunzione quando non per inadeguatezza rispetto alle esigenze primarie dell’essere umano di ogni latitudine. La dottrina fascista ha rilevato la deficienza intrinseca rispetto alle esigenze umane, che non possono essere solo ed esclusivamente economiche, e ha ricollocato al centro l’uomo nella sua integrità di materia e spirito.

Sì, ma il fascismo ha generato le leggi razziali e portato alla guerra

Lei sta usando il barbatrucco a cui ho accennato prima, tentando di ricondurre la questione «fascismo-dottrina» all’inveramento della stessa in un dato periodo storico. Assecondandola in questo giochino tipico del boldrinismo, le posso dire questo, senza neppure entrare nel merito della contestazione del dato storico, cioè su cosa sono veramente state le «leggi razziali» e la dinamica che ha portato in guerra l’Italia. Anche se una cosa sulle leggi razziali la voglio comunque dire. Sono del 1938; mi sa dire lei a quanti ebrei è stato torto un capello tra il 1938 e il 1943 (caduta del fascismo mussoliniano)? Glielo dico io: nemmeno uno. Espulsi da ambienti lavorativi e scolastici (e non del tutto, come si desume dalla stessa legge, tant’è che agli studenti che avevano già intrapreso un dato percorso scolastico si riconosceva il diritto di terminarli) ma non incarcerati o malmenati. Per contro, senza promulgazioni di legge, sa lei quanti imputati di essere fascisti sono stati espulsi dal contesto scolastico e lavorativo a partire dal 1945 fino ai giorni nostri? Quanti per la stessa ragione sono stati ammazzati ed espulsi, oltre che dal mondo del lavoro, nel percorso accademico?
E sulla guerra potrei farle notare che lo Stato democratico per eccellenza – «faro di civiltà», cioè gli Usa oggi sul piedistallo a cui fa riferimento l’antifascismo (essendo orfano dello sputtanato sovietismo) – dalla sua fondazione ad oggi solo per due anni non è stato in guerra. Solo dal 1945 in qua ha provocato milioni di morti il cui computo — calcolando anche quelli derivati dalle guerre per procura — è ormai superiore a quello registrato per la Seconda guerra mondiale.
Ma uscendo dalla diatriba della contrapposizione di fatti storici e restando sulla dottrina, volendo correlare questa al periodo storico, allora si dovrebbero dire, usando la sua logica sottintesa nella domanda, che sono insite nella dottrina cristiana, cioè nel Vangelo inteso come dottrina, tanto le crociate quanto i crimini derivati dalla conquista del continente americano, per cui in nome del dio cristiano sono stati sterminati interi popoli; si dovrebbero imputare alla dottrina la Santa Inquisizione, i roghi degli eretici e quant’altro. Al liberismo l’uso delle bombe atomiche e dei bombardamenti delle città che non avevano alcuna rilevanza militare. Le dicono niente Dresda, Norimberga, ma anche Milano, o Montecassino per esempio? Senza tener conto che il razzismo biologico nasce nelle democrazie liberali inglese e francese e che è stato prassi consolidata negli Usa fino a metà degli anni Sessanta del secolo scorso. La «furbata» è stata quella di non codificare il razzismo in legge ma di assumerlo solo come prassi.
Allora mettiamoci d’accordo: dobbiamo valutare la dottrina in quanto tale o il modo in cui essa si è inverata in un dato periodo storico e, pertanto, imputare alla dottrina l’interpretazione di questo o quel governo/regime che l’ha messa a proprio fondamento? Perché, se questa cosa deve valere per il fascismo, allora deve valere anche per una dottrina religiosa e per quella liberista o marxista. Dunque, quel che voglio dire è che, pur avendo argomenti per controbattere sul piano degli accadimenti storici, io nel definirmi fascista prescindo dal periodo storico e mi aggancio alla dottrina. Cioè sono fascista secondo dottrina e non per rivendicazione storica, per quanto su quel piano possa controbattere punto su punto e mettere a fronte dei supposti crimini le valenze sociali, politiche, artistiche, urbanistiche, economiche etc. che oggi gli vengono negate.

Ma non mi vorrà dire che l’antifascismo che si rifà alla Resistenza è nella sua prassi privo di fondamento

Anche qui vorrei evitare di assecondare il barbatrucco mettendomi a polemizzare sulla veridicità storica della Resistenza. Glisso. Se vuole, possiamo realizzare una intervista centrata sul revisionismo storico ma, se dobbiamo restare sul piano della questione politica qui e ora, quel che c’è da dire sull’antifascismo è che esso è una teoria a geometria variabile che rispetto al fascismo si è riposizionata a più riprese secondo convenienza. Ai tempi della mia militanza giovanile, il fascista era essenzialmente il «servo del padrone». Se lo ricorda questo? Ma dacché la sinistra si è palesata in modo inconfutabile come autentica serva del capitale, della finanza, della speculazione, dello strapotere delle banche, ecco che quello slogan è caduto nel dimenticatoio: cassato.
Con De Felice poi, che ha dimostrato che il fascismo non era una dittatura poliziesca ma un autoritarismo supportato dal pieno consenso del popolo, anche lo slogan «fascismo dittatura» è poco usato. Si preferisce «razzista/antisemita», xenofobo, omofobo, guerrafondaio. Se lei va a leggersi la pubblicistica antifascista dalla fine degli anni Settanta in giù fino al 1943, si accorgerà che la contiguità fascismo/antisemitismo è quasi assente. E sa perché? A quel tempo una delle caratteristiche della sinistra, dal Pci al Psi e di tutto l’extraparlamentarismo a loro collegato ideologicamente, era la posizione essenzialmente filopalestinese e antiisraeliana. Se li ricorda i cortei pro-Palestina, le accuse al calor bianco verso Israele? Ecco, appunto di ricordo si tratta. Perché la mobilitazione filopalestinese è scomparsa dall’extraparlamentarismo di sinistra di pari passo con il riposizionamento filoisraeliano di quel che resta del Pci e del Ps. A questo punto si è potuta utilizzare impunemente la coniugazione fascismo-antisemitismo (inteso come antiebraismo, antisionismo etc.) così come prima non era possibile fare senza darsi la zappa sui piedi.
Sulla questione omofobia e xenofobia non mette conto neppure parlare. Se pensiamo al comportamento dei padri e dei nonni degli attuali antifascisti rispetto agli esuli dalmati e istriani, non ci sarebbe altro che da inorridire: se la presero con donne e bambini e ora vengono a dare lezioni a chi, tra l’altro, cerca di salvaguardare il lavoro dell’operaio italiano rispetto a forme di neoschiavismo. Del resto il termine «xenofobo» è per me del tutto errato perché non si tratta di «paura», ma di repulsione. Repulsione non certo per una questione di «razza» con riferimento a quella di matrice non europea, ma di quella stessa repulsione che per esempio i nostri nonni avevano per gli austriaci che li volevano respinti oltre confine, fuori dalla terra dei Padri, ché questo significa Patria e nazione il luogo di nascita, là dove hanno avuto nascita i padri stabilendo così un legame circolare e insolubile tra Patria e Matria, cioè, se la vogliamo dire in senso figurato, la Nazione (Matria) è l’utero, sede dell’uovo fecondo che genera i padri. In un’epoca nella quale vanno per la maggiore le madri surrogate, gli uteri in affitto e clonazioni bestiali — da ultimo siamo arrivati ad impiantare geni umani nel maiale e nella pecora per ricavarne organi da commercializzare — questi concetti risultano indigesti.
Relativamente all’omofobia, anche qui: agli antifascisti viene comodo chiamare in causa la Costituzione che, peraltro, è tutto fuorché antifascista, ma semmai postfascista, tant’è che, se fa divieto della ricostituzione del Partito fascista, nella stessa famosa XII disposizione transitoria fa esplicito riferimento al fatto che i fascisti a partire dal 1953 potevano tranquillamente essere eletti al Parlamento e financo essere primi ministri. Per contro non fa comodo richiamare gli articoli 19 e 21, dove si proibiscono manifestazioni contrarie al «buon costume». Che altro è il gay pride se non una manifestazione oscena dove l’omosessualità c’entra veramente ben poco? Certo, mi immagino l’aggiornamento relativamente al concetto di «buon costume».

In che senso il gay pride ha poco a che vedere con l’omosessualità?

L’omosessualità ha come fondamento l’attrazione verso il medesimo sesso. E spesso l’omosessuale maschio autentico è attirato dal maschio che presenta forti caratteri di virilità e la femmina al contrario verso la femminilità estrema. Qui siamo davanti alla parodia della femmina da parte di maschi e di maschi da parte delle femmine. Così vediamo femmine mascolinizzate e maschi effeminati, spesso con tratti bisbetici ed isterici. Quello che io chiamo «checchismo» che appunto, comunque la si pensi sull’omosessualità, con l’omosessualità nulla ha a che vedere. Ci sono studi seri che affermano che la causa della femminilizzazione dilagante sia da ricercarsi anche nel tipo di alimentazione, per via di quel che si dà da mangiare alle bestie di cui poi noi ci nutriamo. Secondo altre osservazioni a carattere sociologico, invece, la causa è da ricercarsi in fattori di involuzione antropologica su cui qui sarebbe troppo complicato soffermarsi. In ogni caso, comunque la si giri, ci vuole veramente molta malafede per sostenere che certe manifestazioni pubbliche non siano contrarie al «buon costume» e quindi in contrasto con articoli della Costituzione niente affatto transitori.

Torniamo un momento alla questione Patria. Perché non potrebbe essere anche la patria per gli immigrati?

Mi si trovi nei circa tremila anni di storia una dichiarazione, uno scritto, uno straccio di poesia di uno dei nostri padri che ha arato la nostra terra, l’hanno inzuppata di sangue e sudore, l’hanno difesa con la spada e il fucile, sul mare e sulle Alpi, in cui ci dice che il suo lascito (patrimonio) non è per i propri figli ma per l’umanità. Possiamo metterla come vogliamo sul come era l’umanità nella preistoria, ma ad un certo punto è un dato di fatto che nascono le civiltà. E le civiltà sono tali perché hanno a fondamento la specificità, il patrimonio coltivato, la norma prima e la legge poi che si modella sulla base dello sviluppo di ogni singola civiltà. Che ha specificità nella lingua, nell’arte, nei costumi, usi e ciò che diventa tradizione (trasmissione di padre in figlio, di generazione in generazione).
La nostra civiltà è una plurisecolare, costante, lenta sedimentazione e ha alle fondamenta la specificità a cerchi concentrici. L’Italia è un canestro di pluralità omogenee tenute assieme da un magnete trascendente che è mito e simbolo, cultura (coltivazione) sedimentata. Non metto in discussione che ci siano uomini che alla loro morte devolvono il proprio personale patrimonio a favore dell’umanità intera gettandolo in una fondazione a qualcosa di simile. Ma queste sono eccezioni. La regola è che anche il semplice frutto del lavoro di una vita di un padre sia assegnato per diritto, e spesso certificato per testamento, alla propria discendenza. Se prendiamo tutta la memorialistica dei nostri antenati, io non trovo un rigo che assegna la loro eredità all’umanità in senso lato. Quel che hanno ricevuto in linea diretta dalle origini lo assegnano ai discendenti. Si leggano le lettere dei soldati al fronte colme del senso del sacrificio consumato e se ne avrà contezza. Quindi chi dà diritto a questi servi del capitale e della finanza internazionale di mettere all’incanto il patrimonio nazionale, il dono dei padri che noi abbiamo accettato in eredità?
Il nomadismo, la libertà di circolazione planetaria a cui certe pie e candide anime fanno spesso allusione, non ha più diritto di essere con la nascita delle civiltà, con la definizione di un limes entro il quale si fondano norma e regola, specificità. L’uomo, tra l’altro, va da sé, è ben più che un animale, ma anche considerandolo solo come animale, nella sua natura di mammifero, non c’è mammifero che non difenda il territorio che l’animale acquisisce per istinto.
Tutto il nostro ecosistema politico e culturale è a rischio e aggredito da più parti. Da un lato dal cosiddetto «mondialismo», che prefigura l’uomo indifferenziato, grigio e interscambiabile, forgiato da una monocultura. Dall’altro da queste invasioni forzate e indotte di gente non invitata che ti entra in casa con prepotenza, senza chiedere permesso e sfondando la porta per rivendicare diritti sulla scorta di una conclamata uguaglianza che in natura non esiste e che, se esistesse, sarebbe men che un deserto, una moltitudine di granelli di sabbia…

E dunque che si dovrebbe fare con quelle genti che premono ai confini?

Quel che i nostri padri hanno fatto con gli austriaci: usare l’esercito e buttare oltre confine anche le quinte colonne, quelli che, calcando il suolo patrio, vogliono gettare ponti e aprire varchi. Guardi, tutta la nostra nazione è in massima parte caratterizzata da borghi e città che hanno castelli e muri di cinta, ponti levatoi e fossati, torri di guardia sulle coste. La specificità della nostra nazione è fatta di mura, cinte e bastioni difensivi e dentro queste mura è cresciuta la nostra civiltà. Tutto il nostro prodotto culturale, artistico, letterario è frutto di una civiltà antidemocratica e non incline alla commistione. Abbiamo città che addirittura si differenziano per contrade, pensi a Siena.
Io, anni fa, sono stato tra i primi a rivalutare la definizione di «patriota» caduta in disuso e che oggi è la parola d’ordine di molti tra quelli impegnati per il recupero della sovranità nazionale. Oggi vorrei spingermi oltre e recuperare addirittura in senso positivo il termine «borghese», che appunto deriva da borgo e che è stato volto in dispregiativo dalla cultura marxista e passivamente accettato anche da non pochi fascisti. Ma, anche accettando l’idea propalata dal marxismo, io dico: magari avessimo ancora il borghese, che non è il cittadino pantofolaio della megalopoli. Il borghese, piaccia o non piaccia, aveva un suo codice e una sua morale alla quale non transigeva. Ma il borghese in quanto abitante del borgo italico è addirittura il mattone di base della nostra civiltà. Perché quel borghese abitante del borgo la guerra la faceva e, quando non era a far la guerra, era artigiano, artista, letterato e quant’altro.

Scusi ma lei esalta l’antidemocraticità? Ma senza democrazia non c’è libertà…

E questo è un altro falso clamoroso. Non c’era cittadino della Roma imperiale che non si sentisse libero; non c’era cittadino greco, irlandese, germanico, nordico in genere che non si sentisse libero in assenza di democrazia, tanto più della democrazia coniugata con parlamentarismo o suffragio universale. Democrazia è un sistema che, a seconda di dove e come si impianta, non è indice di minore o maggiore libertà del e per l’uomo di qualsiasi altro sistema, dalla monarchia alla dittatura (che è cosa diversa dalla tirannide).
Tra le tante citazioni che potrei farle, mi piace sottoporle questa che ho trovato in Cittadella di Saint-Exupéry, un’opera di cui ho di recente curato l’edizione integrale: «Non ho capito bene per quale motivo si faccia una netta distinzione tra costrizione e libertà. Quanto più io traccio delle strade, tanto più sei libero di scegliere. Ora, ogni strada è una costrizione poiché ho costruito ai suoi lati una barriera. Ma che cosa significa per te la libertà se non esistono strade tra le quali ti sia possibile scegliere? Chiami forse libertà il diritto di vagare nel vuoto? Proprio quando si è costretti a percorrere una via, la libertà diviene più grande. […] Ora la differenza tra libertà e costrizione sta innanzi tutto nell’obbligo di salutare il re. Chi vuole salire in una gerarchia e sentirsi più ricco interiormente, chiede anzitutto che gli diano degli ordini. E i riti imposti ti accrescono. Il bambino triste, quando vede gli altri giocare, chiede innanzi tutto di sottostare anche lui alle regole del gioco, le quali, e soltanto esse, lo faranno divenire. Ma triste è colui che sente suonare la campana e rimane insensibile al suo richiamo. Quando squilla la tromba ti senti triste se non devi balzare in piedi, ma lo vedi felice quel tale che ti dice: “L’appello che ho sentito è per me e mi alzo”. Ma per gli altri non esiste né suono di campana né squillo di tromba e permangono tristi. La libertà per costoro non è altro che la libertà di non esistere».
Va bene. Ma ora si vive in un sistema democratico-parlamentare che si implementa attraverso il suffragio universale. Lei mi ha appena detto che è antidemocratico, non mi pare apprezzi il suffragio universale e il sistema parlamentare, e si dichiara fascista. Dunque sta dando ragione all’antifascismo che vede in lei un nemico della Costituzione in quanto fascista…
No, un momento. Io ho detto e sostengo che tutto quanto ha fatto grande questa nazione si è determinato prima dell’instaurazione dell’attuale sistema e del varo della Costituzione; che chi ha vissuto in epoche precedenti non si sentiva meno libero per l’assenza del suffragio universale e della democrazia, che dunque l’equazione democrazia uguale libertà è falsa. Aggiungo che è palese che l’entrata in campo di questo sistema registra un costante regresso, economico, culturale, politico e valoriale…

Ma come, scusi, il boom degli anni Cinquanta e Sessanta a fascismo caduto dove lo mette?

Il boom di quegli anni è semplicemente il frutto della forza d’inerzia che fa seguito alla caduta del fascismo mussoliniano, cioè una potenza e un potenziale ancora in atto a regime caduto, un frutto tardo. E questo non perché, nonostante la guerra, lo Stato nel 1945 aveva i conti in ordine, perché le strutture che allora fruttificarono furono poste in essere durante il Ventennio, non solo per questo ma, soprattutto, perché i protagonisti di quel boom sono stati forgiati nelle università e negli istituti tecnici fascisti. Chi ha cominciato a frequentare le scuole nel 1922 negli anni Sessanta aveva circa quarant’anni. A sfasciare la Stato, e dunque il sistema industriale ed economico, sono quelli usciti dalla scuola del 1968. È una semplificazione, ma è un dato di fatto.

In conclusione?

In conclusione: a) il fascismo come dottrina è eterno; b) essere fascisti oggi è l’atteggiamento più rivoluzionario che si possa assumere; c) essere fascisti oggi non significa essere i cloni dei fascisti che realizzarono il Pnf; essere fascisti oggi non è anticostituzionale. È essere antifascisti nelle modalità oggi concepite che semmai è anticostituzionale, perché l’antifascismo cozza con gli articoli della Costituzione che prevedono la libertà di pensiero e azione politica.



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