sabato 25 maggio 2019

L'antifascismo come abituale foglia di fico per nascondere la crisi della sinistra italiana

di Mario Consoli
 
La presidenta della Camera Boldrini – grazie a Dio alla fine del suo mandato – nelle sue insistenti esternazioni continua a rivendicare i valori della Resistenza e dell’antifascismo indicandoli come i pilastri della nostra Costituzione.
 
Ebbene, nei 139 articoli che compongono la Costituzione italiana non appare mai – neppure una volta – la parola Resistenza, né la parola antifascismo.
 
Il termine «fascista» compare solo nell’appendice della Costituzione, quella intitolata «Disposizioni transitorie». Nella XII Disposizione transitoria che si compone di due commi.
 
Il primo recita: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista».

Il secondo recita: «In deroga all’art. 48, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, sono stabilite limitazioni al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».
 
Questo secondo comma, che passati i cinque anni previsti è evidentemente decaduto dal lontano 1952, è stato redatto dalle Commissioni della Costituente e dopo il dibattito in aula è stato regolarmente approvato dai deputati.
 
Il primo comma, che è tutt’ora valido e che è stato poi rafforzato dalla promulgazione della legge Scelba e che oggi si vorrebbe inasprire con la legge Fiano, invece non è stato redatto da nessuna Commissione e non è mai stato dibattuto dall’aula della Costituente.
 
Vediamo allora chi l’ha scritto e che strada ha percorso sino a finire dentro la XII Disposizione transitoria della nostra Costituzione.
 
Si tratta di un percorso molto interessante e istruttivo.
 
La frase «È vietata la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista» fu scritta a Mosca, il 30 ottobre 1943, dai ministri degli esteri inglese, statunitense e sovietico.
 
Compare poi nell’art. 17 del Diktat di Parigi del 10 febbraio 1947 e fu sottoscritta da un servizievole Alcide De Gasperi – di ritorno da un viaggio in USA dove era andato a prendere ordini – col Decreto Legge 1430 del 20 novembre 1947.
 
La frase è stata infine calata d’autorità dentro la XII Disposizione transitoria della Costituzione.
 
La proibizione, quindi, di riorganizzare il disciolto partito fascista non è stata assunta dai rappresentanti del popolo italiano eletti in Assemblea Costituente, ma è stata imposta dalle nazioni che avevano vinto la Seconda Guerra Mondiale. 
 
E questa, in termini storici e politici, non è una questione da poco.
 
Sarà, a questo proposito, interessante ricordare che tutti i lavori della Costituente furono discretamente, ma continuamente, monitorati da una speciale Commissione Alleata di Controllo diretta dall’Ammiraglio Ellery Stone.
 
Questa Commissione era stata istituita dal generale Eisenhower il 10 novembre 1943, per controllare l’adempimento delle clausole dell’Armistizio dell’8 settembre firmato dagli anglo-americani e dal governo Badoglio.
 
Significativamente la Commissione cessò la propria attività in concomitanza con l’approvazione finale della Costituzione italiana, nel dicembre 1947.
 
È anche importante sottolineare il fatto che da molto tempo tutte le 18 Disposizioni transitorie della Costituzione sono superate, abolite o decadute.
 
Compreso quella relativa ai componenti di Casa Savoia il cui esilio è finito e dal 2012 possono tranquillamente scorrazzare su tutto il territorio nazionale. Il «pretendente al trono», il principe Emanuele Filiberto, ha persino cantato al Festival di Sanremo.
 
Tutte le Disposizioni transitorie, tranne il primo comma della XII. «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto Partito fascista».
 
E questo nonostante nella Costituzione sia scritto con estrema chiarezza – negli articoli 21 e 49 – «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero» e «Tutti hanno diritto di associarsi liberamente in partiti».
 
Tutti, tranne i fascisti?
 
Quello dell’antifascismo rappresenta un gravissimo vulnus alla libertà che inficia tutta la realtà istituzionale italiana. Non era legittimo, con la scusa della passata esperienza dittatoriale, proibire il Partito Fascista e contemporaneamente legittimare il Partito Comunista, propugnatore della dittatura del proletariato, dei gulag, dell’eccidio di milioni di dissidenti, della pulizia etnica antitedesca nell’Europa Orientale e antiitaliana in Istria e Dalmazia.
 
I «padri costituenti» probabilmente si resero conto dell’insostenibilità della soluzione data alla questione e, proprio per questo, in un estremo sussulto di pudore, la relegarono nel capitolo finale della Carta, quello delle «Disposizioni transitorie».
 
In questi 72 anni più volte si è tentato da parte di esponenti politici di varia estrazione di avviare embrionali esperimenti di pacificazione e di superamento del clima antifascista da guerra civile. Ricordiamo quelli – superficiali e poi velocemente rientrati – di Luciano Violante, di Carlo Azeglio Ciampi e di Silvio Berlusconi.
 
Oggi, piombate nel più totale vuoto ideologico, le forze politiche al potere non parlano più di pacificazione e sono tornate ad attribuirsi un’identità e una ragion d’essere nella «Repubblica nata dalla Resistenza» e nell’«antifascismo totale, intransigente ed eterno».
 
Scorrendo la storia, è interessante scoprire come il «mito della Resistenza» nel primo ventennio del dopoguerra sia stato tenuto in penombra, praticamente nascosto. Innanzitutto ciò è avvenuto perché al partito al potere – la Democrazia Cristiana – il fatto che la leadership del movimento partigiano fosse vantata dai comunisti non era ben digerito, e poi perché gran parte della classe dirigente postfascista aveva iniziato a muoversi proprio all’interno del regime mussoliniano.

Amintore Fanfani aveva insegnato nella Scuola di Mistica fascista e aveva collaborato, assieme a Giovanni Spadolini, alla rivista La Difesa della Razza; Giovanni Gronchi nel 1920 era stato eletto deputato nel listone fascista ed era stato il Sottosegretario all’Industria e al Commercio nel primo governo Mussolini; Giovanni Leone era stato un fedele iscritto al PNF; ai GUF e ai Littoriali avevano partecipato Giulio Andreotti, Pietro Ingrao, Giorgio Napolitano, Aldo Moro, Luigi Preti, Paolo Emilio Taviani, Carlo Azeglio Ciampi, Antonello Trombadori, Alessandro Natta, tanto per citarne alcuni.
 
Il «mito della Resistenza» così come ci viene propagandato oggi è nato solo durante la presidenza di Giuseppe Saragat (1965-1971). Questo mito servì a quel presidente socialista per ricreare un clima unitario in una sinistra dilaniata da liti e scissioni a catena – proprio come avviene oggi – e per favorire la formazione di governi di centro-sinistra.
 
Saragat lanciò l’«operazione Resistenza» sfruttando le celebrazioni del ventennale della fine della guerra, con un discorso pronunciato a Milano il 9 maggio 1965. Di lì presero le mosse quelle ritualità e quelle glorificazioni partigiane che ci hanno seguito fino ad oggi. 
 
Anche la colonna sonora resistenziale è stata elaborata in quegli anni. Bella ciao, prima, era conosciuta da pochissimi; la musica ha origini lontanissime: è un misto di un pezzo francese del XV secolo e di un canto yiddish inciso a New York nel 1919. Durante la guerra era stata canticchiata solo da qualcuno a Reggio Emilia e nel Modenese. 
 
I partigiani cantavano soprattutto Fischia il vento, canzone costruita sulle note della popolare Katiusha sovietica, ma i registi del mito della Resistenza furbescamente preferirono, a un canto dove si invocava «la rossa primavera dove sorge il sol dell’avvenir», la sconosciuta Bella ciao dove si canta genericamente del «fiore del partigiano morto per la libertà».
 
Oggi sono passati 72 anni dalla fine della guerra e non ci dovrebbe essere bisogno di «revisionismi» per ristabilire un minimo di obbiettività storica. Ormai i documenti ci sono tutti – o quasi – e tutti sono consultabili. Invece siamo ancora al livello delle commemorazioni fantasiose e all’accanimento sui temi della guerra civile.
 
Oggi, come nel 1965, si cerca di nascondere la crisi politica – come fosse polvere – sotto il tappeto di una recrudescenza antifascista.
 
Ma l'italiano è una lingua – almeno fino a quando riuscirà a sopravvivere all'offensiva dell'americanizzazione – dove le parole hanno un preciso significato.
 
Tolleranza, libertà, democrazia. Sarebbe bene riflettere bene sul significato di queste parole e confrontarlo alle attuali cronache politiche.
 
Sarebbero proprio i fascisti, oggi, gli intolleranti?
 
10/12/2017

TRATTO:
http://www.italiasociale.net/alzozero17/az17-12-10.html


1 commento:

  1. Caro Antonio Pocobello, il fatto è che io conosco fior di comunisti che pur dicendosi comunisti in linea di principio condannano i crimini di Stalin e dei vari regimi comunisti, mentre io non ho mai sentito nessun fascista condannare i crimini di Mussolini e della dittatura fascista.

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