di Mario Consoli
La
presidenta della Camera Boldrini – grazie a Dio alla fine del suo mandato –
nelle sue insistenti esternazioni continua a rivendicare i valori della
Resistenza e dell’antifascismo indicandoli come i pilastri della nostra
Costituzione.
Ebbene, nei 139
articoli che compongono la Costituzione italiana non appare mai – neppure una
volta – la parola Resistenza, né la parola antifascismo.
Il termine
«fascista» compare solo nell’appendice della Costituzione, quella intitolata
«Disposizioni transitorie». Nella XII Disposizione transitoria che si compone di
due commi.
Il primo
recita: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto
partito fascista».
Il secondo recita: «In deroga all’art. 48, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, sono stabilite limitazioni al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».
Questo secondo
comma, che passati i cinque anni previsti è evidentemente decaduto dal lontano
1952, è stato redatto dalle Commissioni della Costituente e dopo il dibattito in
aula è stato regolarmente approvato dai deputati.
Il primo comma,
che è tutt’ora valido e che è stato poi rafforzato dalla promulgazione della
legge Scelba e che oggi si vorrebbe inasprire con la legge Fiano, invece non è
stato redatto da nessuna Commissione e non è mai stato dibattuto dall’aula della
Costituente.
Vediamo allora
chi l’ha scritto e che strada ha percorso sino a finire dentro la XII
Disposizione transitoria della nostra Costituzione.
Si tratta di un
percorso molto interessante e istruttivo.
La frase «È
vietata la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito
fascista» fu scritta a Mosca, il 30 ottobre 1943, dai ministri degli esteri
inglese, statunitense e sovietico.
Compare poi
nell’art. 17 del Diktat di Parigi del 10 febbraio 1947 e fu sottoscritta da un
servizievole Alcide De Gasperi – di ritorno da un viaggio in USA dove era andato
a prendere ordini – col Decreto Legge 1430 del 20 novembre 1947.
La frase è
stata infine calata d’autorità dentro la XII Disposizione transitoria della
Costituzione.
La proibizione,
quindi, di riorganizzare il disciolto partito fascista non è stata assunta dai
rappresentanti del popolo italiano eletti in Assemblea Costituente, ma è stata
imposta dalle nazioni che avevano vinto la Seconda Guerra Mondiale.
E questa, in
termini storici e politici, non è una questione da poco.
Sarà, a questo
proposito, interessante ricordare che tutti i lavori della Costituente furono
discretamente, ma continuamente, monitorati da una speciale Commissione Alleata
di Controllo diretta dall’Ammiraglio Ellery Stone.
Questa
Commissione era stata istituita dal generale Eisenhower il 10 novembre 1943, per
controllare l’adempimento delle clausole dell’Armistizio dell’8 settembre
firmato dagli anglo-americani e dal governo Badoglio.
Significativamente la Commissione cessò la propria attività in concomitanza con
l’approvazione finale della Costituzione italiana, nel dicembre 1947.
È anche
importante sottolineare il fatto che da molto tempo tutte le 18 Disposizioni
transitorie della Costituzione sono superate, abolite o decadute.
Compreso
quella relativa ai componenti di Casa Savoia il cui esilio è finito e dal 2012
possono tranquillamente scorrazzare su tutto il territorio nazionale. Il
«pretendente al trono», il principe Emanuele Filiberto, ha persino cantato al
Festival di Sanremo.
Tutte le
Disposizioni transitorie, tranne il primo comma della XII. «È vietata la
riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto Partito fascista».
E questo
nonostante nella Costituzione sia scritto con estrema chiarezza – negli articoli
21 e 49 – «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero» e
«Tutti hanno diritto di associarsi liberamente in partiti».
Tutti, tranne i
fascisti?
Quello
dell’antifascismo rappresenta un gravissimo vulnus alla libertà che inficia
tutta la realtà istituzionale italiana. Non era legittimo, con la scusa della
passata esperienza dittatoriale, proibire il Partito Fascista e
contemporaneamente legittimare il Partito Comunista, propugnatore della
dittatura del proletariato, dei gulag, dell’eccidio di milioni di dissidenti,
della pulizia etnica antitedesca nell’Europa Orientale e antiitaliana in Istria
e Dalmazia.
I «padri
costituenti» probabilmente si resero conto dell’insostenibilità della soluzione
data alla questione e, proprio per questo, in un estremo sussulto di pudore, la
relegarono nel capitolo finale della Carta, quello delle «Disposizioni
transitorie».
In questi 72
anni più volte si è tentato da parte di esponenti politici di varia estrazione
di avviare embrionali esperimenti di pacificazione e di superamento del clima
antifascista da guerra civile. Ricordiamo quelli – superficiali e poi
velocemente rientrati – di Luciano Violante, di Carlo Azeglio Ciampi e di Silvio
Berlusconi.
Oggi, piombate
nel più totale vuoto ideologico, le forze politiche al potere non parlano più di
pacificazione e sono tornate ad attribuirsi un’identità e una ragion d’essere
nella «Repubblica nata dalla Resistenza» e nell’«antifascismo totale,
intransigente ed eterno».
Scorrendo la
storia, è interessante scoprire come il «mito della Resistenza» nel primo
ventennio del dopoguerra sia stato tenuto in penombra, praticamente nascosto.
Innanzitutto ciò è avvenuto perché al partito al potere – la Democrazia
Cristiana – il fatto che la leadership del movimento partigiano fosse vantata
dai comunisti non era ben digerito, e poi perché gran parte della classe
dirigente postfascista aveva iniziato a muoversi proprio all’interno del regime
mussoliniano.
Amintore Fanfani aveva insegnato nella Scuola di Mistica fascista e aveva collaborato, assieme a Giovanni Spadolini, alla rivista La Difesa della Razza; Giovanni Gronchi nel 1920 era stato eletto deputato nel listone fascista ed era stato il Sottosegretario all’Industria e al Commercio nel primo governo Mussolini; Giovanni Leone era stato un fedele iscritto al PNF; ai GUF e ai Littoriali avevano partecipato Giulio Andreotti, Pietro Ingrao, Giorgio Napolitano, Aldo Moro, Luigi Preti, Paolo Emilio Taviani, Carlo Azeglio Ciampi, Antonello Trombadori, Alessandro Natta, tanto per citarne alcuni.
Il «mito della
Resistenza» così come ci viene propagandato oggi è nato solo durante la
presidenza di Giuseppe Saragat (1965-1971). Questo mito servì a quel presidente
socialista per ricreare un clima unitario in una sinistra dilaniata da liti e
scissioni a catena – proprio come avviene oggi – e per favorire la formazione di
governi di centro-sinistra.
Saragat lanciò
l’«operazione Resistenza» sfruttando le celebrazioni del ventennale della fine
della guerra, con un discorso pronunciato a Milano il 9 maggio 1965. Di lì
presero le mosse quelle ritualità e quelle glorificazioni partigiane che ci
hanno seguito fino ad oggi.
Anche la
colonna sonora resistenziale è stata elaborata in quegli anni. Bella ciao,
prima, era conosciuta da pochissimi; la musica ha origini lontanissime: è un
misto di un pezzo francese del XV secolo e di un canto yiddish inciso a New York
nel 1919. Durante la guerra era stata canticchiata solo da qualcuno a Reggio
Emilia e nel Modenese.
I partigiani
cantavano soprattutto Fischia il vento, canzone costruita sulle note della
popolare Katiusha sovietica, ma i registi del mito della Resistenza
furbescamente preferirono, a un canto dove si invocava «la rossa primavera dove
sorge il sol dell’avvenir», la sconosciuta Bella ciao dove si canta
genericamente del «fiore del partigiano morto per la libertà».
Oggi sono
passati 72 anni dalla fine della guerra e non ci dovrebbe essere bisogno di
«revisionismi» per ristabilire un minimo di obbiettività storica. Ormai i
documenti ci sono tutti – o quasi – e tutti sono consultabili. Invece siamo
ancora al livello delle commemorazioni fantasiose e all’accanimento sui temi
della guerra civile.
Oggi, come nel
1965, si cerca di nascondere la crisi politica – come fosse polvere – sotto il
tappeto di una recrudescenza antifascista.
Ma l'italiano è
una lingua – almeno fino a quando riuscirà a sopravvivere all'offensiva
dell'americanizzazione – dove le parole hanno un preciso significato.
Tolleranza,
libertà, democrazia. Sarebbe bene riflettere bene sul significato di queste
parole e confrontarlo alle attuali cronache politiche.
Sarebbero
proprio i fascisti, oggi, gli intolleranti?
TRATTO:
http://www.italiasociale.net/alzozero17/az17-12-10.html
Caro Antonio Pocobello, il fatto è che io conosco fior di comunisti che pur dicendosi comunisti in linea di principio condannano i crimini di Stalin e dei vari regimi comunisti, mentre io non ho mai sentito nessun fascista condannare i crimini di Mussolini e della dittatura fascista.
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