La legge sulla Socializzazione entrata in vigore nel 1944 alla fine della guerra e sotto i bombardamenti alleati, aveva avuto scarsa applicazione e non aveva avuto il tempo di essere percepita in tutta la sua dirompenza dai lavoratori.
Fu la prima legge fascista ad essere abrogata.
La data del decreto di abrogazione è infatti quella del 25 aprile 1943.
E non poteva essere altrimenti, visto che rappresentava un’innovazione incredibile nell’ordinamento sociale, innovazione che avrebbe messo in seria difficoltà i comunisti e che non piaceva per niente agli industriali.
Per fare un paragone, il codice penale Rocco (fascista) restò in vigoe sino al 1955, anno della prima riforma parziale (la riforma riguardava 100 articoli)
Una successiva riforma si ebbe nel 1956, ma solo nel 1974 fu data delega al governo per la riforma del codice penale. Il nuovo codice fu emanato il 16 febbraio 1987 ed entrò in vigore il 24 ottobre 1989.
La norma del ‘confino‘ invece, sia pure modificata, è tuttora in vigore.
Ma veniamo alla socializzazione istituita dal Fascimo.
Ben difficilmente avrete visto uno dei
manifesti più belli prodotti dal ministero della propaganda della RSI:
un braccio virile e armato di pugnale, incatenato dal capitalismo, viene
liberato dall’urlo proletario e fascista: socializzazione…
Ecco: quello fu il momento per rompere
ogni indugio; per abbandonare ogni prudenza; per tranciare, di netto,
ogni resistenza e condurre a termine il processo rivoluzionario:
“In ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai coopereranno intimamente – attraverso una conoscenza diretta della gestione – all’equa fissazione dei salari, nonché all’equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori“. (Art.12 del Manifesto di Verona)
Dal quale, per importanza, non disgiungerei, questo:
“Abolizione del sistema capitalistico interno e lotta contro le plutocrazie mondiali” (Art 8, punto b del Manifesto di Verona).
“In ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai coopereranno intimamente – attraverso una conoscenza diretta della gestione – all’equa fissazione dei salari, nonché all’equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori“. (Art.12 del Manifesto di Verona)
Dal quale, per importanza, non disgiungerei, questo:
“Abolizione del sistema capitalistico interno e lotta contro le plutocrazie mondiali” (Art 8, punto b del Manifesto di Verona).
“Dal punto di vista sociale, il
programma del fascismo repubblicano non è che la logica continuazione
del programma del 1919 (…) Bisognava porre le basi con le leggi
sindacali e gli organismi corporativi per compiere il passo successivo
della socializzazione … La natura non fa balzi e neanche l’economia…”
Così, Benito Mussolini nel discorso al Lirico di Milano (16.12.1944)
quando, quasi scusandosi per il ritardo, riassunse in oratoria quanto 10
mesi prima aveva legiferato:
DECRETO LEGISLATIVO DEL DUCE 12 Febbraio 1944 – XXII, n. 375. Socializzazione delle imprese
IL DUCE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
Vista la Carta del Lavoro;
Vista la “Premessa fondamentale per la creazione della nuova struttura dell’economia italiana approvata dal Consiglio dei Ministri del 13 Gennaio 1944;
Sentito il Consiglio dei Ministri; Su proposta del Ministro per l’Economia Corporativa di concerto con il Ministro per le finanze e con il Ministro per la Giustizia
IL DUCE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
Vista la Carta del Lavoro;
Vista la “Premessa fondamentale per la creazione della nuova struttura dell’economia italiana approvata dal Consiglio dei Ministri del 13 Gennaio 1944;
Sentito il Consiglio dei Ministri; Su proposta del Ministro per l’Economia Corporativa di concerto con il Ministro per le finanze e con il Ministro per la Giustizia
Decreta:
Titolo 1. – DELLA SOCIALIZZAZIONE DELLA IMPRESA
Art. 1. (Imprese socializzate) – Le imprese di proprietà privata che dalla data del 1° gennaio 1944 abbiano almeno un milione di capitale o impieghino almeno cento lavoratori, sono socializzate…
Tanto per smentire chi sostiene che
la socializzazione è stato solo uno strumento di mera propaganda
dell’agonizzante regime, ricorderò che il primo atto legislativo del
Governo di liberazione nazionale, molto controllato dai social-comunisti
e sindacato dalle forze anglo-americane, è stato il provvedimento di
abrogazione del decreto legge appena su riportato e che, pur con tutte
le difficoltà della guerra in corso, nel controllo del territorio e nel
poco tempo che la storia concesse alla Rsi, la norma fu resa operativa
in 6.000 imprese…
Se fosse stato quello che hanno preteso tramandarci gli agiografi della liberazione (?) dubito, perfino, che si sarebbero ricordati che fosse stato mai emesso: evidentemente, la sua importanza era tale da meritare un’azione censoria drastica e tempestiva…
Se fosse stato quello che hanno preteso tramandarci gli agiografi della liberazione (?) dubito, perfino, che si sarebbero ricordati che fosse stato mai emesso: evidentemente, la sua importanza era tale da meritare un’azione censoria drastica e tempestiva…
Il concetto di socializzazione si pone
come Terza Via tra liberismo capitalista e statalizzazione coatta dei
mezzi di produzione (leggi: comunismo…). Nel sistema socializzato:
“Il popolo partecipa integralmente,
in modo organico e permanente, alla vita dello Stato e concorre alla
determinazione delle direttive, degli istituti e degli atti idonei al
raggiungimento dei fini della Nazione col suo lavoro, con la sua
attività politica e sociale…” (art. 12 della Costituzione della RSI).
Quindi: riconoscimento dell’importanza del capitale “produttivo”
(quello che investe moneta in imprese socialmente utili), ma insieme a
chi fornisce elementi altrettanto fondamentali all’attività
economico-sociale: braccia e menti… Né dominio della moneta, né espropri
statali: ma armonizzazione degli elementi in un rapporto di
condivisione delle responsabilità (e degli utili…): affinché nessuno si
senta depositario del destino dell’impresa e, di conseguenza, della
nazione in una innaturale investitura per intrallazzi bancari e
finanziari, per deleghe, per rappresentanze più o meno mediate o per
diritto divino…
In un orizzonte dominato dal capitale
finanziario, invocare il ritorno al diritto naturale della
partecipazione diretta dell’uomo all’opera della sua vita può forse
apparire fuori tempo.Ma la cosa
non deve né spaventare né scoraggiare: se un’idea è giusta lo è a
prescindere dalle contingenze epocali in cui si viene a trovare
espressa. In fondo, il fascismo è una rivoluzione giovane. Il liberismo
ha almeno trecento anni ed è stato sconfitto dalla storia (e dalla
morale…) almeno cento volte… Il comunismo ha avuto 50 anni di tempo per
giustificare la sua vittoria militare (e 70 per giustificare la sua
denominazione di repubblica dei soviet, cioè dei consigli, cioè della
partecipazione diretta degli operai all’impresa: e non l’ha fatto…). Il
fascismo ha avuto appena 22 anni per realizzarsi e l’ha fermato solo la
sconfitta militare. C’è tempo e voglia per riprovarci…
Un’ impresa per tutti
“La parola operaio non ha per noi alcuna indicazione di classe (…): non rappresenta inferiorità o superiorità sulla scala sociale: esprime un ramo d’occupazione speciale, un genere di lavoro, un’applicazione determinata dell’attività umana, una certa funzione sociale; non altro. Diciamo operaio come diciamo avvocato, mercante, chirurgo, ingegnere. Tra codeste occupazioni non corre divario alcuno quanto ai diritti e ai doveri dei cittadini… Le sole differenze che noi ammettiamo tra i membri di uno Stato sono le differenze di educazione morale. Un giorno, l’educazione generale uniforme ci darà una comune morale. Un giorno saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque direzione sì eserciti.”
Giuseppe Mazzini, 1842
“La parola operaio non ha per noi alcuna indicazione di classe (…): non rappresenta inferiorità o superiorità sulla scala sociale: esprime un ramo d’occupazione speciale, un genere di lavoro, un’applicazione determinata dell’attività umana, una certa funzione sociale; non altro. Diciamo operaio come diciamo avvocato, mercante, chirurgo, ingegnere. Tra codeste occupazioni non corre divario alcuno quanto ai diritti e ai doveri dei cittadini… Le sole differenze che noi ammettiamo tra i membri di uno Stato sono le differenze di educazione morale. Un giorno, l’educazione generale uniforme ci darà una comune morale. Un giorno saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque direzione sì eserciti.”
Giuseppe Mazzini, 1842
“Il riordinamento del lavoro sotto la
legge dell’associazione sostituta all’attuale del salario, sarà, noi
crediamo, la base del mondo economico sicuro, e implica che un capitale
indispensabile all’impianto dei lavori e alle anticipazioni necessari
debba raccogliersi nelle mani degli operai associati.“
Nel 1943 avvenne un fatto storico
clamoroso (storico e clamoroso a livello mondiale, ben inteso…), fino a
quel momento, sperato e disperato: viene proclamata una Repubblica che,
per la prima e, a tutt’oggi, unica volta, intese ufficialmente definirsi
sociale, oltre che italiana. Il che apparirà consustanziale emergenza
agli esiti della Seconda guerra mondiale solo alla miopia congenita dei
pregiudizialisti dell’antifascismo a oltranza. Invece, nonostante
l’infausto andamento del conflitto, significava (anche…) altro e,
soprattutto, nella fattispecie: “…Lo sviluppo logico della nostra rivoluzione”
(Mussolini Benito…). Che viene (detta rivoluzione…) dalle lontane
aspirazioni mazziniane ricordate in epigrafe (con prego di leggere
bene…), quasi contestuali, a quelle dei comunardi parigini che, proprio
al grido di “Repubblica sociale”, inaugurarono la rivoluzione
del febbraio ’48 (prontamente stroncata dalla reazione, allora come
quasi cento anni dopo, lo fu quella italiana…).
A parte quelli che l’avrebbero voluta
realizzare già all’indomani del programma di San Sepolcro (1919), la
Repubblica sociale italiana continua a cogliere di sorpresa perfino gli
storici di età successive i quali, in auge di immancabili ripensamenti
negazionisti, ancora inciuciano tra ipotesi e sospetti: se si tentò di
recuperare le originarie matrici di “sinistra” del fascismo; se è stata
la mina a scoppio ritardato per far saltare in aria, conclusa la guerra,
gli industriali traditori della patria e del fascismo e i loro degni
compari d’affari anglo-americani; o se, al massimo, è stato solo un
espediente di propaganda per creare, in finale di partita, nuovo
consenso di massa…
Quando non arrivano a dichiarare invalide “giuridicamente”
le iniziative di uno Stato che – sempre a loro dire – non avrebbe avuto
nessun riconoscimento legittimativo, dimenticando (o facendo finta di
dimenticare…) che, se così fosse, non ci sarebbe stato alcun bisogno di
abrogare “giuridicamente” i suoi atti legiferativi che attuarono, per esempio, “La socializzazione delle imprese”
(Decreto del duce 12.2.1944, n.375). Come fecero, di corsa, i
partigiani della liberazione, la mattina stessa del loro insediamento al
governo (occhio alla data del decreto abrogativo).
La cosa non è cervellotica.
Il Regno del Sud, o se preferite il governo Badoglio, contrariamente alla Repubblica Sociale Italiana non aveva alcun riconoscimento legittimativo. E questa è la precisa ragione per cui la ‘dichiarazione di guerra‘ alla Germania e al Giappone di Badoglio non furono mai considerate valide e quindi non ci fu bisogno, alla fine della guerra, di stipulare alcun trattato di pace nè con la Germania, nè con il Giappone visto che non vi era mai stata una dichiarazione di guerra legittimamente valida.
TRATTO DA:
https://ricordare.wordpress.com/
Il Regno del Sud, o se preferite il governo Badoglio, contrariamente alla Repubblica Sociale Italiana non aveva alcun riconoscimento legittimativo. E questa è la precisa ragione per cui la ‘dichiarazione di guerra‘ alla Germania e al Giappone di Badoglio non furono mai considerate valide e quindi non ci fu bisogno, alla fine della guerra, di stipulare alcun trattato di pace nè con la Germania, nè con il Giappone visto che non vi era mai stata una dichiarazione di guerra legittimamente valida.
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