Le poche righe che seguono non vogliono essere la minuziosa ricostruzione storica delle vicende che videro protagonista Bettino Craxi, ma semplicemente offrire una visione “altra” dell’ex leader socialista, al di là delle grida indignate delle legioni travagliane, ma anche delle rivalutazioni di comodo effettuate sia dal centro-destra (con Berlusconi che ne condivide l’aspra avversione alla magistratura) che dal centro-sinistra (penosamente alla ricerca di identità).
- 15 dicembre 2014
Craxi si avvicinò
alla politica grazie alla militanza antifascista del padre durante la
Seconda Guerra Mondiale, entrando di lì a poco nel Partito Socialista e
non uscendone più sino al 1994, a causa dei noti processi di
tangentopoli. Negli infuocati scontri universitari dei suoi anni
giovanili cominciò a maturare quella che sarà una costante del suo
bagaglio politico: la gelosia per l’autonomia, del suo Paese e del suo
partito. I socialisti in Italia, infatti, vivevano costantemente
all’ombra del PCI, schiacciati dalla forza elettorale e culturale del
partito egemone della sinistra italiana. L’inversione di tendenza
cominciò proprio con l’elezione di Craxi a segretario del Partito
Socialista, datata 1976. Bettino nel frattempo aveva maturato una
notevole abilità ed esperienza, guadagnandosi la prima elezione in
Parlamento e svolgendo diversi incarichi di rilievo in Italia (Milano fu
il suo laboratorio politico) e all’estero, oltre a divenire il
“delfino” di Pietro Nenni.
Eppure l’opinione pubblica conosceva
poco o niente di questo giovane catapultato agli onori delle cronache,
tanto che fu definito «signor Nulla» in un articolo di Fortebraccio
sull’«Unità». I “colonnelli” del PSI, come Giacomo Mancini, pensavano di
poterlo controllare e manovrare dall’alto, ma sbagliarono
clamorosamente i calcoli. Craxi favorì sin da subito le nuove leve del
partito, dando inizio a quel ricambio generazionale (definito «la
rivoluzione dei quarantenni») che portò nuova linfa ai socialisti. Ad
animare il rinnovato protagonismo di questi ultimi fu il fermento
culturale acceso dalla rivista «Mondoperaio» di Federico Coen e da
Norberto Bobbio, impegnati ad emancipare la sinistra italiana dal
marxismo-leninismo.
Craxi si inserì perfettamente in questo
contesto, plasmando un PSI indipendente e dalle solide e rinnovate
radici culturali. Esse furono descritte nel saggio datato agosto 1978
intitolato “Il Vangelo Socialista”, da molti considerato l’atto di
definitiva rottura dei socialisti con il comunismo. Partendo da Proudhon
ed arrivando a Bobbio, passando per Rosselli, Gilas e Russell, il
leader socialista tracciò il profilo di una dottrina democratica, laica e
pluralista, in contrapposizione con la lezione marxista ed i concetti
di libertà collettiva e di egemonia gramsciana.
In quello stesso anno, durante i 55
giorni del sequestro-Moro, fu uno dei pochi politici a spingere per
l’apertura di trattative con le Br, contro la «linea della fermezza»
espressa dai maggiori partiti del paese: DC e PCI. Questa inaspettata
dimostrazione di coraggio e indipendenza portò il leader democristiano a
rivolgersi direttamente a Craxi in alcune lettere dalla prigionia,
chiedendogli di fare il possibile per mobilitare la classe dirigente
italiana. La cui fermezza sembrò più che altro un colpevole disimpegno,
come ribadito da numerose inchieste giornalistiche. Si veda ad esempio
l’importante opera di Sandro Provvisionato e Ferdinando Imposimato del
2008 titolata «Doveva morire».
Nel 1979 arrivò l’ennesimo “strappo”
all’ortodossia ideologica della sinistra, con l’assenso
all’installazione degli «euromissili» di fabbricazione americana sul
territorio italiano, in risposta allo schieramento degli SS-20 da parte
dell’URSS, che esponevano l’Europa a rinnovate e pericolose minacce. Una
presa di posizione che fu subito bollata dai comunisti come la conferma
dell’asservimento di Craxi agli USA e della “mutazione genetica” dei
socialisti sotto il nuovo segretario. Ma queste facili letture verrano
smentite dal tempo: il politico milanese dimostrò che la scelta
atlantica non impediva al PSI di mantenere ampi margini di manovra su
diversi fronti, che verranno rafforzati con la clamorosa elezione di
Craxi a Presidente del Consiglio, datata 1983. Il caso più emblematico
fu ovviamente quello di Sigonella, il momento più alto di tensione tra
Italia ed Usa di tutto il dopoguerra, in cui la concezione di sovranità
nazionale imposta dal capo del governo risultò inaspettatamente
vincente. Uno dei momenti più belli della storia italiana dalla fine
della guerra ad oggi.
Fortissimo fu inoltre l’impegno per
l’accelerazione del processo di integrazione europea, da costruirsi in
opposizione al «vento di destra» di marca tatcheriana e liberista. Egli
criticò sempre quelli che definiva «burosauri dell’europeismo, fautori
di un’Europa tecnocratica, socialmente indifferente e moralmente
assente», antitesi della sua visione del continente prima di tutto
politica, marcatamente sociale ed espressione reale dei cittadini. Craxi
vinse gli strenui tentativi d’ostruzione al processo di integrazione di
Margaret Tatcher, riuscendo nel Consiglio Europeo di Milano del 1985 ad
ottenere la convocazione di una conferenza intergovernativa dei primi
ministri da cui derivarono l’Atto Unico Europeo e la lunga marcia verso
una Costituzione. Un’Europa che avrebbe voluto ben diversa da quella
odierna, in cui dominano le oligarchie finanziarie. Non a caso nei suoi
scritti da Hammamet Craxi predisse il fallimento dell’UE, commentando le
azioni che venivano compiute a metà degli anni ’90 dai politici
europei. “Io parlo, e continuerò a parlare” è la recente opera che
raccoglie le sue analisi e intuizioni.
Il suo terreno privilegiato d’impegno
però fu quello mediterraneo, volto alla creazione di un vero e proprio
asse commerciale e culturale con i paesi arabi. Incentivò collaborazioni
ed interventi dell’IRI e dell’ENI nei paesi della zona, guadagnandosi
ampio credito, come testimoniato dalla vicinanza delle autorità tunisine
nei suoi ultimi anni di vita. Anche Arafat fu un suo grande amico,
vista l’opera craxiana di opposizione alla «visione di un grande
Israele, installato anche su territori che sono abitati ed appartengono a
popolazioni arabe e palestinesi», come disse nel 1982, proprio dopo un
incontro con il leader palestinese.
L’apice venne raggiunto nel dibattito
parlamentare seguente al succitato caso-Sigonella, dove giunse ad
affermare: «Io contesto all’OLP l’uso della lotta armata non perché
ritenga che non ne abbia diritto, ma perché sono convinto che la lotta
armata non porterà a nessuna soluzione. Non ne contesto la legittimità,
che è cosa diversa», portando ad esempio le lotte risorgimentali
italiane, necessariamente violente nell’ottica dell’indipendenza
nazionale. Craxi fu un profondo conoscitore e cultore del nostro periodo
risorgimentale, divenendo nel tempo uno dei massimi collezionisti di
cimeli garibaldini. Oltre a Mazzini, infatti, egli ammirava l’«eroe dei
due mondi», non a caso fautore di un socialismo gradualista e
riformista, in netta opposizione con Marx. «Non solo il frutto di una
curiosità da collezionista ma l’espressione di un progetto politico»,
ha scritto Ennio Di Nolfo. La percezione dell’identità nazionale era
prioritaria per Craxi. Le sue relazioni congressuali verranno spesso
arricchite con appassionati richiami a quelle lotte e quegli ideali,
patrimonio da riscoprire in una società come la nostra, preda di
«malattie moderne» e sempre più sommersa da «dubbi, disagi e terapie
neuro-psichiatriche».
I congressi del PSI divennero nel tempo
sempre più fastosi, grazie alle coreografie dell’architetto Filippo
Panseca, visto che Craxi dimostrò ben presto di voler dare un’idea
fortemente modernizzatrice di sé e del suo partito, sfruttando in pieno
l’immagine ed i mass-media. L’attenzione si concentrò ben presto quasi
esclusivamente su di lui, che aveva “spazzato via” le correnti interne
al PSI, e si era proposto al paese quale leader nuovo e credibile. La
sua strategia era stata premiata con la nomina a capo del governo, ma le
critiche si erano succedute ininterrotte: Biagio De Giovanni parlò di
tendenza ad «americanizzare la vita italiana», mentre Bobbio gli
contestò aspramente il meccanismo di elezione per acclamazione e la
scarsa dialettica interna al partito. Anche Enzo Biagi ed Indro
Montanelli non furono teneri. Senza contare gli immancabili paragoni con
Hitler e Mussolini provenienti da sinistra. Craxi ovviamente ribatté
alle accuse parlando di un partito che aveva trovato l’unità, facendone
l’arma per agire più efficacemente. Il peso politico della sua classe
dirigente (che spesso troviamo ancora al governo) fu in ogni caso
indubbio. Difatti nei quattro anni come Primo Ministro (1983-1987) non
mancarono gli eventi significativi: il primo da segnalare è il
raggiungimento del quinto posto tra i paesi industrializzati
dell’Italia, superando la Gran Bretagna, nel gennaio 1987. «Il maggior
successo della storia repubblicana» secondo Giano Accame, intellettuale
di destra autore del libro «Socialismo Tricolore».
Una definizione calzante per la politica
craxiana che (mentre promuoveva il progressismo) portava a termine il
nuovo concordato Stato-Chiesa, valorizzava come non mai il “Made in
Italy” e le PMI, ammetteva Almirante per la prima volta alle
consultazioni per la formazione di un governo, combatteva le droghe
leggere, rifiutava la tesi dello stragismo fascista, riscopriva il
garofano quale simbolo e concludeva i congressi al grido: «viva
l’Italia!». Inoltre, secondo l’acuta lettura dello storico Marco
Gervasoni, il governo-Craxi «evitò ogni privatizzazione» e «cercò sempre
il coinvolgimento dei sindacati nella politica della concertazione. Il
risanamento passò anche dall’intervento sulla scala mobile. Le politiche
economiche dei governi di quegli anni recavano il segno di una
sensibilità sociale. Certo si può obiettare che la riduzione
dell’inflazione fu facilitata dal mini-boom e si potrebbe dire che tale
sensibilità era più il frutto dell’uso politico della spesa pubblica a
fini di consenso. Ciò non toglie che gli interventi di allora furono
incisivi e costituirono un precedente per gli esperimenti di
aggiornamento delle policies socialiste in un periodo di sfide tutto
nuovo».
Ovviamente ci furono anche aspetti negativi, in primis
la crescita esponenziale del debito pubblico, venti punti percentuali
secondo gli accurati dati dello Studio Ambrosetti. Anche se il
“divorzio” Tesoro – Banca d’Italia (di cui ancora scontiamo le
conseguenze) del 1981 giocò una parte rilevante. Ma ciò che più gli
costò fu la mancata attuazione del suo cavallo di battaglia: la «Grande
Riforma» istituzionale in senso presidenziale, tesa a velocizzare e
migliorare i pachidermici ritmi politici italiani. «Non è il paese in
ritardo con la Costituzione antifascista, ma la Costituzione fatta
all’indomani del trauma della dittatura ad aver disegnato un’attività
istituzionale in ritardo sulle esigenze di legiferare e governare». Così
chiarì il giornalista e politico Ugo Finetti, autore nel 2009 di uno
dei libri più completi sul tema: «Storia di Craxi». Ma alla fine proprio
il leader socialista, il più grande fautore del cambiamento, rimase
schiacciato dal tacito e convergente interesse alla staticità politica
di concorrenti dotati di numeri più pesanti.
Terminata la fruttuosa esperienza del
suo governo, i partiti storici del paese iniziarono un periodo di
declino, accompagnato dall’emergere di nuovi fenomeni come quello della
Lega Nord (da Craxi aspramente criticata quale movimento qualunquista e
razzista). Nel 1989 il crollo del Muro di Berlino e del sistema
sovietico diede ragione alle battaglie anticomuniste del segretario PSI,
che sin dagli anni giovanili era stato accanto al mondo dei dissidenti
di quei paesi. Le sue opere in questo senso furono innumerevoli: dalla
candidatura al Parlamento Europeo dell’esule cecoslovacco Jiri Pelikan,
alla promozione della «Biennale del dissenso» del ’77 (alla quale fu
l’unico capo di partito italiano a partecipare), fino alla vicinanza
culturale e finanziaria ai movimenti d’opposizione al sistema. Per
capire la dimensione della sua opera, basti ricordare le parole di Lech
Wałęsa, leader di Solidarność: «Non saprei dire oggi come sarebbero
andate le cose se non ci fossero stati leader della portata di Craxi».
È soprattutto per queste azioni che il
PCI vide Craxi come fumo negli occhi, poiché il partito di Botteghe
Oscure veniva da lui costantemente messo davanti alle proprie
contraddizioni. Le legnate del leader socialista non risparmiarono
nessuno: dal “padre nobile” Togliatti fino a Berlinguer, con cui si aprì
uno scontro all’insegna della diversità politica, d’immagine e di
carattere. Tanto austero il sardo quanto spregiudicato e giovanile il
milanese, e basti qui citare il cosiddetto periodo della «Milano da
bere». Una Milano che si modernizzava al ritmo delle televisioni
berlusconiane, cominciando a uscire dalle paure degli “anni di piombo”
assaporando edonismo e individualismo.
Da non dimenticare inoltre l’appoggio
che fornì ai dissidenti e rivoluzionari dal Medio Oriente fino
all’Africa e l’America Latina, contro il Cile di Pinochet in primis.
Ogni sua azione era concepita su scala internazionale: «fu una costante
l’idea che l’efficacia di una politica sta nel sapersi muovere in
grandi forze capaci di esercitare effettivamente un ruolo geopolitico»,
ha notato Pietro Craveri. Un ampio respiro che faceva di lui un
politico nel vero senso del termine. Tanto che, considerato il panorama
attuale, possiamo parlare di Craxi come “l’ultimo statista italiano”.
E siamo arrivati ora a tangentopoli.
Craxi contribuì all’acuirsi della pratica tangentizia connaturata al
sistema repubblicano, anche per via della sfrenata ricerca di spazi
politici (la stessa che lo portò a favorire l’imprenditore amico Silvio
Berlusconi). Ma la “molla” rimase sempre la politica, non l’
arricchimento personale, come arrivò a riconoscere il grande accusatore
Sergio D’Ambrosio. E d’altronde l’esito di quel periodo di inchieste
non può che lasciare interdetti. Intere parti politiche furono
praticamente risparmiate, ed il PCI (parimenti colpevole e per di più
finanziato dall’URSS) ne uscì lindo e pulito. Un partito che lo stesso
Craxi aveva “risparmiato”, evitando le elezioni nel momento della loro
crisi di identità successiva al crollo del Muro.
Nel libro «Il Caso C.», il politico
milanese denunciò tutte le anomalie ed abusi di stampa e magistratura ai
suoi danni. “Contro” le toghe si era già scontrato in occasione del
caso-Tobagi e aveva promosso il refendum per la responsabilità civile
dei giudici (1987), che ebbe esito favorevole ma rimase lettera morta.
Ma l’atto più clamoroso del leader socialista fu sicuramente il discorso
pronunciato alla Camera il 3 Luglio 1992, in cui accusò tutti i
politici presenti di essere al corrente del finanziamento illegale ai
partiti, sfidando chi dissentisse dalle sue parole ad alzarsi. Nessuno
lo fece.
Nonostante questo Craxi passò come capro
espiatorio, mentre altri esponenti della prima repubblica torneranno
sulla scena di lì a poco. Il fatto poi che il polverone si alzò dopo le
elezioni del ’92, che, seppur in un clima di sfiducia popolare, avevano
visto Craxi affermarsi come unico candidato possibile alla Presidenza
del Consiglio, ha portato Finetti a sostenere che «il ritorno di Craxi a
Palazzo Chigi è visto con avversione, si configura come la
riaffermazione di una centralità del potere politico e di riflesso dello
Stato. Alla sua pretesa di “dialettizzare” i vertici imprenditoriali
sostenendo l’emergere di nuovi soggetti si aggiunge la riluttanza che
sempre più manifesta alla cessione di porzioni strategiche che sono in
mano pubblica. In un paese come l’Italia ogni smottamento è frutto di
una pluralità di concause. Per i più – magistrati, uomini d’affari,
operatori culturali – l’anticraxismo è stato molto semplicemente
un’opportunità professionale. Nel rifiuto di assurde dietrologie non
bisogna negare l’evidenza e cioè il fatto che Craxi è stato colpito per
via extraparlamentare, da forze extraparlamentari e che all’epoca in
Italia la più consistente opposizione a Craxi non era nel mondo
politico, ma in quello economico-finanziario». Una tesi che fa il paio
con le ricostruzioni di Sergio Romano e Francesco Cossiga, che videro lo
zampino della finanza inglese (nazione per di più da sempre ostile ad
azioni indipendenti italiane sul Mediterraneo) nello scompaginamento del
panorama politico italiano, per poter approfittare della svendita del
patrimonio pubblico. L’incontro del panfilo Britannia tra banchieri
della “City” ed esponenti del mondo economico italiano è stato descritto
in lungo e in largo, e la concezione di politique d’abord di
Craxi era ciò che di più scomodo potesse esserci a questo disegno.
Complottismo? Quello che è certo è che mai come nel periodo seguente a
tangentopoli si è assisto a privatizzazioni continue (proprietà del
Ministero del Tesoro, come: Telecom, Seat, Ina, Imi, Eni, Enel,
Mediocredito Centrale, Bnl; dell’Iri come Finmeccanica, Aeroporti di
Roma, Cofiri, Autostrade, Comit, Credit, Ilva, Stet; dell’Eni: come
Enichem, Saipem, Nuovo Pignone; dell’Efim e di altri enti a controllo
pubblico, come: Istituto Bancario S. Paolo di Torino e Banca Monte dei
Paschi di Siena; di enti pubblici locali, come Acea: Aem, Amga. Solo per
dare l’idea…). Mentre la corruzione e l’incapacità della classe
politica non sembrano minimamente estirpate. Anzi.
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