dal Cd "Opera Omnia", Nuovi Orizzonti
Europei
1ª parte
La mafia, per essere tale, deve
controllare il territorio; ciò vuole dire necessariamente «fare politica». Per
poter realizzare i suoi «affari» -che sono alla base della esistenza stessa di
questo tipo di criminalità- deve instaurare rapporti con quella che viene
definita «società civile» e con il mondo politico ed economico. I rapporti con
la «società civile» del territorio controllato sono basati sulla forza
attraverso la quale si ottiene l'omertà o anche il consenso. I rapporti politici
ed economici sono fatti di legami palesi ed occulti, di scambi di favori, di
controllo del voti, di minacce, di infiltrazioni, di condizionamenti. Quando i
rapporti politici ed economici si rompono e gli apparati dello Stato combattono
veramente la mafia, essa va in crisi perché incomincia e perdere il controllo
dei territorio e quindi il consenso e l'omertà. La storia della mafia e del suo
sviluppo è quindi, soprattutto, storia dei suoi legami con il mondo politico ed
economico. Già nel primi anni dell'Unità d'Italia la Mafia ha i suoi legami con
il potere politico ed economico, ma essi sono di sudditanza: il nobile o il
borghese, con i voti dei mafiosi va a fare il deputato a Roma, mentre i mafiosi,
con l'appoggio del nobile e del borghese, vanno a fare i consiglieri nei paesi
della Sicilia. In quel periodo l'opera della mafia è essenzialmente legata
all'agricoltura: impone guardiani nel campi, tangenti sulle greggi e,
soprattutto, cerca di monopolizzare il controllo delle acque, indispensabili
all'agricoltura stessa. Alle elezioni dei 1876 l'opposizione ottiene in Sicilia
ben 43 deputati su 48 e c'è l'avvento al potere della sinistra, con il governo
De Pretis, proprio grazie al voti determinanti dei deputati siciliani. Si
comincia a dire che la vittoria della sinistra è stata agevolata proprio dal
mafiosi e che con la vittoria della sinistra ha vinto l'opposizione mafiosa.
«Nel 1895 (età di Giolitti) -scrive il giudice Rosario Minna in "Breve storia
della mafia"- il generale Mirzi, su ordine del governo, parte da Palermo e va ad
Alcamo per far scarcerare un mafioso la cui famiglia è essenziale per l'elezione
a deputato dei candidato governativo». In Sicilia le elezioni tra la fine
dell'800 e l'inizio del '900 -anche se non esiste il suffragio universale- non
hanno nulla di diverso da quelle dei giorni nostri: ciechi che votano, fucilate
e attentati. Nel 1905, a Grammichele, la mafia spara sul contadini: 18 morti e
200 feriti. Tra la fine del '800 e l'inizio dei '900, vengono assassinati anche
alcuni sindacalisti. Nel 1909 la mafia uccide a Palermo il poliziotto
italo-americano Joe Petrosino impegnato in indagini proprio sulla mafia.
Dell'omicidio viene accusato il boss don Vito Cascio-Ferro. Al processo, però,
don Vito si salva perché un deputato palermitano testimonia che all'ora
dell'omicidio il mafioso era a pranzo in casa sua. Nel maggio del 1924,
Mussolini -capo di un governo di coalizione- va in Sicilia e, a Piana dei Greci,
il sindaco Francesco Cuccia sull'auto gli dice che non c'era bisogno di tutti
quei carabinieri e poliziotti mobilitati in quanto, essendo sotto la sua
protezione, non avrebbe potuto avere «dispiacenze». Mussolini interruppe la
visita e tornò a Roma. Nella capitale convocò i suoi collaboratori e chiese un
uomo da mandare in Sicilia a combattere la mafia. Venne fuori il nome di Cesare
Mori che, da Prefetto di Bologna, aveva ordinato al carabinieri di sparare sugli
squadristi. Bocchini, capo della polizia, disse che Mori non era fascista e non
capiva niente di politica. Mussolini gli ribattè che non voleva un politicante e
chiuse il discorso dicendo: «Spero che sia duro con i mafiosi come lo è stato
con i miei squadristi». Mori venne nominato Prefetto di Trapani e dopo pochi
giorni era già in Sicilia. Nell'ottobre del 1925, venne quindi spostato a
Palermo con l'incarico preciso di combattere la mafia. Sull'opera di Mori in
Sicilia si è molto discusso nel dopoguerra e si continua a discutere ogni
qualvolta il problema mafioso si ripresenta nella sua drammaticità: alcuni -come
la televisione di Stato- hanno messo in risalto una eccessiva durezza del
«Prefetto di ferro»; altri hanno cercato di accreditare la tesi secondo cui Mori
avrebbe colpito solo personaggi secondari (tesi sostenuta anche su "la
Repubblica" del 26 luglio). Si tratta quasi sempre di affermazioni dettate da
interessi di parte, al fine di impedire una seria discussione sul perché del
rinascere della mafia e del suo continuo espandersi nel dopoguerra. Gli studiosi
più seri -anche se antifascisti- sono, però, di tutt'altro parere. Il giudice
Minna, nella citata "Breve storia della mafia", scrive: «Mori, abile anche nel
chiedere ai siciliani di muoversi per primi per liberarsi dai mafiosi, assesta
alla mafia una botta tremenda. Migliaia sono i mafiosi che se non vengono
incarcerati, almeno finiscono per un buon periodo in una caserma dei carabinieri
o in un commissariato di pubblica sicurezza, e i mafiosi vanno a piedi da casa
loro alle caserme, ammanettati per le strade dei loro paesi, così essi perdona
la faccia [...] Mori colpisce duramente i sindaci e i consiglieri comunali
mafiosi che numerosi vanno in galera o al confino (a cominciare da Cuccia di
Piana dei Greci) sotto l'accusa di associazione per delinquere di tipo mafioso.
[ ... ] Anche preti mafiosi è avvocati capimafia seguono in galera i loro
complici mafiosi. [...] Dal 1925 al 1931 numerosi sono i processi che si
celebrano contro la mafia, con oltre 100 imputati per volta, e si concludono con
pesantissime condanne». In galera fino alla morte finisce anche don Vito
Cascio-Ferro. «E la prima volta -prosegue Minna- che lo Stato italiano, con
Mussolini, usa la violenza specificamente e direttamente contro la mafia. [...]
Tanti sono allora i mafiosi che, secondo la leggenda che comincia a sorgere su
Mori, si danno spontaneamente nelle mani del prefetto, dopo anni e anni di
impunità e di comoda latitanza». Sergio Turone, nel libro "Corrotti e
corruttori" scrive: «Sul finire degli anni venti il regime fascista -il cui
autoritarismo ferreo ovviamente, non poteva tollerare l'esistenza di un
contropotere quale quello della mafia aveva profuso molte energie nella lotta
contro questo tipo di criminalità organizzata, e la quale aveva inferto molti
duri colpi». Lo storico e giornalista Arrigo Petacco è ancora più chiaro. Ha
infatti scritto: «La mafia [...] ha sempre vinto. Tranne una volta. [...]
Accadde in epoca fascista e l'operazione vittoriosa fu personalmente
sponsorizzata dallo stesso Mussolini». Mori «con alle spalle, oltre che
un'eccezionale carriera di polizia, tre clamorose operazioni antimafia
naufragate al momento giusto per i soliti intrighi tra mafia e politica, [...]
ai suoi uomini assegnò poche semplici direttive.
1) Ottenere subito un successo clamoroso (e lo ottenne deportando nelle isole migliaia di sospetti, impiegando anche l'esercito e ponendo l'assedio a interi paesi dominati dai briganti.
2) Seminare il terrore: se la mafia fa paura, lo Stato deve farne di più.
3) Distinguere fra «pesci grossi» e «pesci piccoli»; massima durezza con i primi, tolleranza con i secondi.
4) Riaprire tutti i processi di mafia precedentemente archiviati.
La valanga, di uomini e di mezzi che Mori rovesciò sulla Sicilia diede immediatamente i suoi frutti [...]». «Per il quarto punto in programma fu grande alleato di Mori il Procuratore generale Luigi Giampietro Rinunciando alla legittima suspicione ("devono essere i siciliani a giudicare i loro persecutori") Mori e Giampietro organizzarono nell'isola colossali processi cui veniva data la massima pubblicità. Le condanne furono naturalmente moltissime e sempre pesanti. Le assoluzioni assai poche. Per gli assolti c'era comunque il confino di polizia. I due "Torquemada", come li chiamavano i siciliani, non si fermarono davanti a nulla. Per esempio: scoperto che molti mafiosi avevano trovato rifugio nelle file fasciste, Mori sciolse addirittura la Federazione dei fasci di Palermo e rinviò a giudizio il segretario [...] fu certo un atto molto coraggioso. Assai più coraggioso di quello -mai accaduto- di sciogliere, tanto per fare un esempio, la DC palermitana di Ciancimino». Quest'ultima affermazione taglia corto anche sulle sciocchezze dette nella trasmissione televisiva "Lezione di mafia". Provino i partiti antifascisti, provi lo Stato democratico a sciogliere le sezioni di partito in cui sono non solo infiltrati ma palesemente presenti e ben accolti i mafiosi!
Il fascismo non operò soltanto sul piano della repressione. Se ai primi del '900 la nobiltà siciliana possedeva i tre quarti delle terre, alla fine della IIª Guerra Mondiale tale possesso era ridotto al 27%; se la mafia aveva cercato di monopolizzare il controllo delle acque, lo Stato fascista operò per garantire l'acqua ai siciliani. Caduto il fascismo per la sconfitta militare, la mafia torna prepotentemente alla ribalta, torna ad acquisire potere; quel potere che è la ricompensa per la collaborazione fornita agli americani prima, durante e dopo l'invasione dell'Italia. Scrive Sergio Turone: «[Gli americani] per agevolare il successo dello sbarco in Sicilia, sollecitarono tramite la mafia USA la collaborazione dei mafiosi locali. [...] Il più noto degli intermediari Lucky Luciano, viene così liberato dal penitenziario, graziato e rispedito in Italia. La mafia aveva già conosciuto momenti di splendore, ed altri ne avrebbe avuti negli anni successivi, tuttavia sempre in una posizione di marginalità rispetto al potere ufficiale. Nel 1943, dopo lo sbarco americano, ebbe per la prima volta nella sua storia l'onore di essere portata alla ribalta come struttura politico-amministrativa riconosciuta, garantita dalle truppe d'occupazione. I vecchi padrini poterono dunque aggiungere alla forza della tradizione il fresco prestigio che procurava loro la protezione dei vincitori». Anche il giudice Minna sottolinea il legame fra la caduta dei fascismo e la riconquista del potere da parte dei mafiosi. Infatti scrive: «Scomparso il fascismo, i mafiosi riapparirono prepotentemente, come è nel loro stile, in pubblico. [...] Il generale dei Carabinieri Castellano, nel gennaio del 1945, presenta agli americani la possibilità di mettere insieme separatisti, mafia e partiti per governare la Sicilia contro il banditismo e la violenza generale». Interessante in proposito una lettera del console americano a Palermo, Alfred T. Nester, del 27 novembre 1944. In essa si legge: «[...] Durante gli incontri segreti tra il generale Castellano e i capi della mafia, il cav. Calogero Vizzini aveva con sé, come consigliere, il dr. Calogero Volpe, medico [...] Vizzini è il padrone della mafia in Sicilia». Dal canto suo, Arrigo Petacco scrive: «[La mafia] si risvegliò infatti soltanto nel 1943 in coincidenza con l'arrivo degli americani. Molti mafiosi poterono così rientrare dal confino vantando addirittura improbabili meriti antifascisti. Don Calogero Vizzini, capo supremo della nuova mafia, fu visto percorrere l'isola a bordo di una carro armato americano: indicava agli alleati gli uomini giusti da mettere alla guida dei comuni e delle province. Anche Genco Russo, altro boss mafioso di grande avvenire, rientrò dal comodo confino di Chianciano dove Mori lo aveva fatto "deportare". Anche lui si disse vittima del fascismo ed ottenne in premio la croce di cavaliere della Repubblica. La "Onorata Società" era dunque tornata in sella. Per la mafia cominciava una nuova era». E che la mafia sia ritornata con la "democrazia" lo ammette anche il comunista Malagugini il quale, nella dichiarazione di voto che accompagna la relazione di minoranza del PCI sulla mafia -relazione che reca come prima firma quella di Pio La Torre- dice: «La Commissione Antimafia doveva offrire una risposta alla seguente domanda: come mai la riconquista della libertà e della democrazia nel nostro Paese ha consentito, e secondo taluni giudizi agevolato, la rinascita dell'attività palese della mafia? Come, perché, ad opera di quali forze politiche e sociali è stato possibile un fatto di questo genere?». Ma non basta! Giuseppe Niccolai ricordava spesso che l'art. 16 del Trattato di pace firmato dall'Italia alla fine della IIª Guerra Mondiale stabilisce l'impegno dello Stato italiano a non perseguire penalmente coloro che avevano collaborato con gli «alleati». Quando la Commissione Antimafia -di cui Niccolai era attivissimo componente- chiese di prendere visione dell'elenco dei nomi di «collaboratori» allegato al Trattato, quell'elenco non si riuscì più a trovarlo. Ma noi sappiamo che a collaborare con gli «alleati» erano stati sicuramente moltissimi mafiosi: Lucky Luciano, appositamente liberato dal carcere; Calogero Vizzini, nominato sindaco di Villalba; Giuseppe Genco Russo, nominato capo dell'Ufficio Assistenza Civile del mandamento di Mussomeli; Vito Genovese -che diventerà poi il «capo dei capi»- nominato interprete di fiducia del colonnello Charles Poletti; Max Mugnani -trafficante di droga- nominato depositario dei magazzini farmaceutici americani in Sicilia. I mafiosi, tornati ad operare in modo palese, instaurarono subito rapporti con il mondo politico. Negli allegati alla relazione della Commissione Antimafia si legge: «[...] Già verso la fine del 1944 Calogero Vizzini orientò le sue scelte politiche verso la DC. Questo partito, nelle sue sfere provinciali e regionali, ben comprese il grande apporto che alle fortune politiche dei dirigenti e del partito stesso poteva arrecare l'orientamento di Calogero Vizzini e perciò della mafia in generale, e non esitò ad accogliere i mafiosi nelle sue file. [...] A Villalba, praticamente, l'intera mafia entrò nella DC; a Vallelunga Lillo Malta passa alla DC con tutto il suo seguito: i Madonia, i Sinatra ecc.; anche il gruppo Cammarata passò alla DC. A Mussomeli Genco Russo e tutto il suo seguito si iscrissero alla DC assumendo la direzione della sezione». La compenetrazione, l'unicità di interessi ed intenti fra mafia e poteri dello Stato che si realizzano con l'arrivo degli americani, appaiono evidenti fin dai primi anni della Repubblica ed esplodono con il «caso Giuliano». Salvatore Giuliano non era un mafioso, era diventato bandito perché aveva ucciso un carabiniere che lo aveva fermato con un sacco di farina sulle spalle. Il primo maggio del 1947 la banda di Giuliano spara, a Portella delle Ginestre, contro i contadini che manifestano. È la prima "Strage di Stato». Beppe Niccolai ricordava che gli ispettori-capi della polizia, Ettore Messana e Ciro Verdiani, andavano a fare visita a Giuliano latitante; che Ciro Verdiani consegnava a Giuliano i nomi dei carabinieri infiltrati nella sua banda, e che lo stesso Verdiani portava al bandito il panettone per Natale, brindava insieme a lui e lo accompagnava ai grandi magazzini di Palermo a comprarsi il vestito. Il 5 luglio del 1950, un comunicato del Ministero dell'Interno annunciava che Salvatore Giuliano era morto in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Nella relazione del colonnello Luca si diceva che il mitra dei bandito si era inceppato dopo il dodicesimo colpo -caricatore da 40- «forse per la eccessiva compressione della molla rimasta per troppo tempo inoperosa», e si elencavano i carabinieri che avevano partecipato al conflitto e il numero dei colpi di mitra sparati da ciascuno di essi.
1) Ottenere subito un successo clamoroso (e lo ottenne deportando nelle isole migliaia di sospetti, impiegando anche l'esercito e ponendo l'assedio a interi paesi dominati dai briganti.
2) Seminare il terrore: se la mafia fa paura, lo Stato deve farne di più.
3) Distinguere fra «pesci grossi» e «pesci piccoli»; massima durezza con i primi, tolleranza con i secondi.
4) Riaprire tutti i processi di mafia precedentemente archiviati.
La valanga, di uomini e di mezzi che Mori rovesciò sulla Sicilia diede immediatamente i suoi frutti [...]». «Per il quarto punto in programma fu grande alleato di Mori il Procuratore generale Luigi Giampietro Rinunciando alla legittima suspicione ("devono essere i siciliani a giudicare i loro persecutori") Mori e Giampietro organizzarono nell'isola colossali processi cui veniva data la massima pubblicità. Le condanne furono naturalmente moltissime e sempre pesanti. Le assoluzioni assai poche. Per gli assolti c'era comunque il confino di polizia. I due "Torquemada", come li chiamavano i siciliani, non si fermarono davanti a nulla. Per esempio: scoperto che molti mafiosi avevano trovato rifugio nelle file fasciste, Mori sciolse addirittura la Federazione dei fasci di Palermo e rinviò a giudizio il segretario [...] fu certo un atto molto coraggioso. Assai più coraggioso di quello -mai accaduto- di sciogliere, tanto per fare un esempio, la DC palermitana di Ciancimino». Quest'ultima affermazione taglia corto anche sulle sciocchezze dette nella trasmissione televisiva "Lezione di mafia". Provino i partiti antifascisti, provi lo Stato democratico a sciogliere le sezioni di partito in cui sono non solo infiltrati ma palesemente presenti e ben accolti i mafiosi!
Il fascismo non operò soltanto sul piano della repressione. Se ai primi del '900 la nobiltà siciliana possedeva i tre quarti delle terre, alla fine della IIª Guerra Mondiale tale possesso era ridotto al 27%; se la mafia aveva cercato di monopolizzare il controllo delle acque, lo Stato fascista operò per garantire l'acqua ai siciliani. Caduto il fascismo per la sconfitta militare, la mafia torna prepotentemente alla ribalta, torna ad acquisire potere; quel potere che è la ricompensa per la collaborazione fornita agli americani prima, durante e dopo l'invasione dell'Italia. Scrive Sergio Turone: «[Gli americani] per agevolare il successo dello sbarco in Sicilia, sollecitarono tramite la mafia USA la collaborazione dei mafiosi locali. [...] Il più noto degli intermediari Lucky Luciano, viene così liberato dal penitenziario, graziato e rispedito in Italia. La mafia aveva già conosciuto momenti di splendore, ed altri ne avrebbe avuti negli anni successivi, tuttavia sempre in una posizione di marginalità rispetto al potere ufficiale. Nel 1943, dopo lo sbarco americano, ebbe per la prima volta nella sua storia l'onore di essere portata alla ribalta come struttura politico-amministrativa riconosciuta, garantita dalle truppe d'occupazione. I vecchi padrini poterono dunque aggiungere alla forza della tradizione il fresco prestigio che procurava loro la protezione dei vincitori». Anche il giudice Minna sottolinea il legame fra la caduta dei fascismo e la riconquista del potere da parte dei mafiosi. Infatti scrive: «Scomparso il fascismo, i mafiosi riapparirono prepotentemente, come è nel loro stile, in pubblico. [...] Il generale dei Carabinieri Castellano, nel gennaio del 1945, presenta agli americani la possibilità di mettere insieme separatisti, mafia e partiti per governare la Sicilia contro il banditismo e la violenza generale». Interessante in proposito una lettera del console americano a Palermo, Alfred T. Nester, del 27 novembre 1944. In essa si legge: «[...] Durante gli incontri segreti tra il generale Castellano e i capi della mafia, il cav. Calogero Vizzini aveva con sé, come consigliere, il dr. Calogero Volpe, medico [...] Vizzini è il padrone della mafia in Sicilia». Dal canto suo, Arrigo Petacco scrive: «[La mafia] si risvegliò infatti soltanto nel 1943 in coincidenza con l'arrivo degli americani. Molti mafiosi poterono così rientrare dal confino vantando addirittura improbabili meriti antifascisti. Don Calogero Vizzini, capo supremo della nuova mafia, fu visto percorrere l'isola a bordo di una carro armato americano: indicava agli alleati gli uomini giusti da mettere alla guida dei comuni e delle province. Anche Genco Russo, altro boss mafioso di grande avvenire, rientrò dal comodo confino di Chianciano dove Mori lo aveva fatto "deportare". Anche lui si disse vittima del fascismo ed ottenne in premio la croce di cavaliere della Repubblica. La "Onorata Società" era dunque tornata in sella. Per la mafia cominciava una nuova era». E che la mafia sia ritornata con la "democrazia" lo ammette anche il comunista Malagugini il quale, nella dichiarazione di voto che accompagna la relazione di minoranza del PCI sulla mafia -relazione che reca come prima firma quella di Pio La Torre- dice: «La Commissione Antimafia doveva offrire una risposta alla seguente domanda: come mai la riconquista della libertà e della democrazia nel nostro Paese ha consentito, e secondo taluni giudizi agevolato, la rinascita dell'attività palese della mafia? Come, perché, ad opera di quali forze politiche e sociali è stato possibile un fatto di questo genere?». Ma non basta! Giuseppe Niccolai ricordava spesso che l'art. 16 del Trattato di pace firmato dall'Italia alla fine della IIª Guerra Mondiale stabilisce l'impegno dello Stato italiano a non perseguire penalmente coloro che avevano collaborato con gli «alleati». Quando la Commissione Antimafia -di cui Niccolai era attivissimo componente- chiese di prendere visione dell'elenco dei nomi di «collaboratori» allegato al Trattato, quell'elenco non si riuscì più a trovarlo. Ma noi sappiamo che a collaborare con gli «alleati» erano stati sicuramente moltissimi mafiosi: Lucky Luciano, appositamente liberato dal carcere; Calogero Vizzini, nominato sindaco di Villalba; Giuseppe Genco Russo, nominato capo dell'Ufficio Assistenza Civile del mandamento di Mussomeli; Vito Genovese -che diventerà poi il «capo dei capi»- nominato interprete di fiducia del colonnello Charles Poletti; Max Mugnani -trafficante di droga- nominato depositario dei magazzini farmaceutici americani in Sicilia. I mafiosi, tornati ad operare in modo palese, instaurarono subito rapporti con il mondo politico. Negli allegati alla relazione della Commissione Antimafia si legge: «[...] Già verso la fine del 1944 Calogero Vizzini orientò le sue scelte politiche verso la DC. Questo partito, nelle sue sfere provinciali e regionali, ben comprese il grande apporto che alle fortune politiche dei dirigenti e del partito stesso poteva arrecare l'orientamento di Calogero Vizzini e perciò della mafia in generale, e non esitò ad accogliere i mafiosi nelle sue file. [...] A Villalba, praticamente, l'intera mafia entrò nella DC; a Vallelunga Lillo Malta passa alla DC con tutto il suo seguito: i Madonia, i Sinatra ecc.; anche il gruppo Cammarata passò alla DC. A Mussomeli Genco Russo e tutto il suo seguito si iscrissero alla DC assumendo la direzione della sezione». La compenetrazione, l'unicità di interessi ed intenti fra mafia e poteri dello Stato che si realizzano con l'arrivo degli americani, appaiono evidenti fin dai primi anni della Repubblica ed esplodono con il «caso Giuliano». Salvatore Giuliano non era un mafioso, era diventato bandito perché aveva ucciso un carabiniere che lo aveva fermato con un sacco di farina sulle spalle. Il primo maggio del 1947 la banda di Giuliano spara, a Portella delle Ginestre, contro i contadini che manifestano. È la prima "Strage di Stato». Beppe Niccolai ricordava che gli ispettori-capi della polizia, Ettore Messana e Ciro Verdiani, andavano a fare visita a Giuliano latitante; che Ciro Verdiani consegnava a Giuliano i nomi dei carabinieri infiltrati nella sua banda, e che lo stesso Verdiani portava al bandito il panettone per Natale, brindava insieme a lui e lo accompagnava ai grandi magazzini di Palermo a comprarsi il vestito. Il 5 luglio del 1950, un comunicato del Ministero dell'Interno annunciava che Salvatore Giuliano era morto in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Nella relazione del colonnello Luca si diceva che il mitra dei bandito si era inceppato dopo il dodicesimo colpo -caricatore da 40- «forse per la eccessiva compressione della molla rimasta per troppo tempo inoperosa», e si elencavano i carabinieri che avevano partecipato al conflitto e il numero dei colpi di mitra sparati da ciascuno di essi.
Non era vero niente!
Due giorni dopo il quotidiano
"l'Unità" -in un articolo di Maurizio Ferrara- avanzava l'ipotesi che i
carabinieri per liquidare Giuliano avevano fatto ricorso alla mediazione e
all'aiuto della mafia. Sergio Turone ricorda che la ricostruzione completa
dell'intera vicenda apparve sul "l'Europeo". Fu proprio "l'Europeo" a rivelare
che Giuliano non era stato ammazzato dal carabinieri, ma era stato assassinato,
su commissione, mentre dormiva, da suo cugino Gaspare Pisciotta.
Beppe Niccolai raccontava, poi, che solo
dopo morto Giuliano era stato colpito da una raffica di mitra per dare credito
alla relazione dei carabinieri. Gaspare Pisciotta fu arrestato il 9
dicembre del 1950 e nel processo che si tenne a Viterbo, per la strage di
Portella delle Ginestre, ammise di avere ucciso Giuliano nel sonno; dichiarò che
l'incarico gli era stato affidato personalmente dal Ministro dell'Interno, il
democristiano siciliano Mario Scelba (quello della legge contro la ricostruzione
dei partito fascista!), e che la strage di Portella delle Ginestre era stata
ordinata dal democristiano Bernardo Mattarella e dai monarchici Alliata di
Montereale e Cusumano Geloso. La dichiarazione su Mario Scelba fu giudicata
estranea al processo. Mattarella, Alliata di Montereale e Cusumano Geloso furono
prosciolti in istruttoria. Pisciotta -che nel corso del processo aveva
dichiarato che banditi, polizia e mafia erano un corpo solo, come il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo- fu condannato per la strage di Portella delle
Ginestre, ma il 9 febbraio del 1954 veniva assassinato in carcere con un caffè
avvelenato. Scrive in proposito Sergio Turone -sempre nel libro "Corrotti e
corruttori": «[...] Mario Scelba non era più Ministro dell'Interno dal 16 luglio
1953. In quel delicato ministero gli era succeduto uno dei più abili e dinamici
delfini di De Gasperi: Amintore Fanfani. Fanfani restò all'Interno fino al 18
gennaio 1954, giorno in cui per la prima volta fu designato alla Presidenza dei
Consiglio e formò un monocolore democristiano. Nella nuova compagine governativa
il Ministero dell'Interno fu affidato a Giulio Andreotti, allora legatissimo a
Scelba. Quel governo durò in carica solo 23 giorni e cadde per la mancata
fiducia alle Camere, il 10 febbraio». A proposito delle responsabilità politiche
del delitto («le quali potrebbero coincidere o non con quelle penali»), Turone
prosegue: «Qualora si ritenga che per ottenere e progettare un delitto fra le
mura di un carcere occorra una preparazione più lunga di tre settimane, il
ministro responsabile deve essere indicato nel predecessore di Andreotti:
Fanfani. Se invece si ritenga, in teoria, che a un ministro furbo e
spregiudicato venti giorni siano sufficienti per fare organizzare la
liquidazione fisica di un testimone pericoloso carcerato, allora l'oggettiva
responsabilità politica dei fatto ricade su Andreotti. [...] Il 10 febbraio 1954
(coincidenza curiosa: proprio il giorno successivo alla morte di Pisciotta)
divenne Presidente del Consiglio Mario Scelba, che assunse, guarda caso, anche
il Ministero dell'Interno e conservò la carica per un anno e mezzo».
2ª parte
Nonostante gli avvenimenti
connessi all'arrivo degli angloamericani, nonostante il «caso Giuliano» negli
anni Cinquanta e Sessanta non sono pochi i politici e i magistrati che negano
perfino l'esistenza della mafia che, invece, agisce e celebra i suoi riti alla
luce dei sole. Da "Il venerdì di Repubblica": «Anche in quell'anno, il '61, la
festa della Madonna della Catena cadeva nella seconda domenica di settembre
[...] La processione in onore della patrona all'improvviso si fermò, la folla
voltò le spalle alla matrice e mille occhi guardarono il vecchio sul balcone.
Dietro c'era il figlio, il primogenito. Era poco più di un ragazzo. Il vecchio
lo abbracciò davanti a tutti e tutti capirono. A Riesi, case di tufo sparse
intorno alle miniere di zolfo della Sicilia profonda, quel giorno era nato un
nuovo capomafia. Da tre generazioni i Di Cristina si tramandavano il potere, da
un secolo si passavano lo scettro dei comando sulla piazza del paese [...]».
Sergio Turone, da un volume-inchiesta sulla mafia, desume questa descrizione di
Palermo agli inizi degli anni Sessanta: «Sindaco è Salvo Lima, un giovane
fanfaniano protetto da Giovanni Gioia; e assessore ai lavori pubblici è Vito
Ciancimino, pupillo di Bernardo Mattarella. È con Lima e Ciancimino che si
accolgono numerose «osservazioni» al piano regolatore (e se ne avvantaggiano
notissimi mafiosi) e che l'80% delle licenze edilizie vengono rilasciate a
prestanome. È il periodo di massima ascesa di Angelo e Salvatore La Barbera che
trovano tutte le porte aperte al Comune; ed è quello dell'affermazione del
costruttore miliardario "don" Ciccio Vassallo». A proposito di Giovanni Gioia,
Nando Dalla Chiesa ha scritto: «Lo scrittore Michele Pantaleone, nel suo libro
"Antimafia, occasione mancata", aveva dato a Gioia del mafioso [...] Gioia
querelò sia Pantaleone sia l'editore Einaudi. Le prove vennero fuori [...]
Pantaleone ed Einaudi furono assolti. Per la prima volta un tribunale della
Repubblica aveva riconosciuto che un ministro della Repubblica era un mafioso».
Per quanto riguarda la mappa del potere in Sicilia negli anni immediatamente
successivi, Nando Dalla Chiesa così prosegue: c'è «poi Attilio Ruffini,
ex-doroteo, già ministro della Difesa e degli Esteri In prima fila [...] al
funerali di don Calogero Volpe e poi ospite di gala a una cena elettorale
organizzata nel '79 dalla banda delinquenziale (traffico di droga) degli Spatola
e degli Inzerillo, allora membro come Lima della direzione nazionale
democristiana. [...] Il maggior potere economico è invece detenuto dal
costruttore Cassina [...] ma soprattutto dai cugini Salvo Lima e Antonio
Ardizzone, proprietario del "Giornale di Sicilia", la cui famiglia è a sua volta
in rapporti di amicizia con Michele Greco, il boss mafioso condannato
all'ergastolo per l'assassinio dei giudice Chinnici. Altri personaggi dotati di
potere reale sono Aristide Gunnella e l'avvocato Vito Guarrasi. A proteggere
Lima e Ciancimino non ci sono solo i democristiani. Ciancimino viene eletto
Sindaco di Palermo nel novembre del 1970; viene subito presentata una mozione
per le immediate dimissioni del Sindaco «mafioso»; ma Ugo La Malfa -segretario
nazionale del Partito Repubblicano, con fama di moralizzatore- invia un
telegramma in cui si dice in sostanza: «Se fate dimettere Ciancimino io provoco
la crisi su tutto il territorio nazionale ...». Gli anni Settanta, quelli in cui
i personaggi anzidetti accrescono il loro potere, sono anni cruciali per lo
sviluppo della mafia. Luciano Leggio (detto Liggio), dopo avere eliminato don
Michele Navarra, dà inizio all'era dei Corleonesi (a proposito di Liggio, nel
1974, il giornalista Zuffino manifestò il sospetto che questi sapesse qualcosa
sulla bomba di piazza Fontana del 12 dicembre 1969). Anche se proprio durante
gli anni Settanta Liggio, Alberti, Coppola, Badalamenti ecc. finiscono o al
confino, o in galera, o uccisi, la mafia non perde potere ma, anzi, si espande,
cresce, si modernizza -anche su consiglio di "Cosa Nostra" americana- e i
delitti eccellenti che prima erano stati rarissimi (quattro in un secolo)
diventano pane quotidiano.
E proprio negli anni '70 scoppia uno dei casi più clamorosi che mette in evidenza i legami tra mafia, alta finanza e poteri politici: il "caso Sindona". Sindona era appena un giovanotto negli anni in cui gli americani -con l'aiuto della mafia- sbarcavano in Sicilia. Negli anni in cui nasceva la Repubblica, Sindona lasciava l'isola per raggiungere Milano, con in tasca alcune lettere di presentazione per influenti personaggi dello stato post-fascista. Ambizione, intelligenza ed "amicizie giuste" facevano in pochi anni di Michele Sindona un potentissimo finanziere con le mani in pasta in numerose società finanziarie e banche in Italia e in America. Nel 1973 Sindona organizzava all'Hotel Regis di New York un pranzo in onore di Giulio Andreotti che, proprio in quella occasione, gli attribuì il titolo di "salvatore della lira". Pochi mesi dopo, però, l'impero finanziario del banchiere italo-americano è allo sfascio. Guido Carli, governatore della Banca d'Italia, chiama l'avvocato Giorgio Ambrosoli per rimettere ordine in quell'impero. Beppe Niccolai, nella rubrica "Rosso e Nero" sul "Secolo d'Italia" del 1 giugno 1984, scriveva: «C'è una lettera di Michele Sindona. È del settembre 1976. È indirizzata all'allora Presidente del Consiglio in carica, Giulio Andreotti, capo di un governo retto anche dai voti del PCI. Proviene dall'America. La busta reca il recapito: Hotel Pierre Nuova York. Il bancarottiere, inseguito da un mandato di cattura della magistratura italiana, traccia per il Presidente del Consiglio, un vero e proprio programma di azione. Eccolo: contrastare l'estradizione richiesta dai giudici milanesi; esercitare pressioni sull'apparato giudiziario e amministrativo perché recedano dal comportamenti contrari a lui, Sindona; sistemare gli affari delle banche dichiarate fallite; opporsi alla sentenza di insolvenza [...]». Il 17 dello stesso mese su "OP", l'agenzia di Mino Pecorelli, si poteva leggere per come riportato da Turone: «Siamo entrati in possesso di un documento relativo all'istruttoria Sindona - in particolare della parte che si riferisce al professionista che percepì dal salvatore della lira il miliardo da girare al Presidente dei Consiglio [Giulio Andreotti]. Esistono le prove documentali che il Presidente del Consiglio ha percepito un miliardo da Michele Sindona -che un altro miliardo è stato pagato ad un ex-segretario politico di un partito- che ben quindici miliardi sono stati versati nelle casse di un partito politico (lo stesso del Presidente del Consiglio e dell'ex-segretario politico in questione)». Nella citata rubrica "Rosso e Nero", Niccolai riportava quanto scritto da "il Corriere della Sera": «il 15 e il 25 luglio '78 Rodolfo Guzzi (avvocato di Sindona arrestato per estorsione in questi giorni) viene ricevuto a Palazzo Chigi da Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio. Lo mette al corrente del piano di salvataggio delle banche di Sindona. Andreotti spiega all'interlocutore che la persona più adatta per valutarlo è il ministro dei Lavori Pubblici Gaetano Stammati. Il nome di Gaetano Stammati risulterà poi nell'elenco degli iscritti alla P2. È lo stesso on. Andreotti che fissa l'incontro Guzzi e Stammati. Il 20 settembre '78 il ministro dei Lavori Pubblici presenta il progetto di salvataggio a Carlo Ciampi Governatore della Banca d'Italia. È bocciato. Il parere negativo viene riferito tanto all'on. Andreotti che all'avvocato Guzzi». Prosegue Niccolai: «[...] Infatti Andreotti non ce la fa. Nemmeno Enrico Cuccia, Consigliere delegato di Mediobanca, che, minacciato di rapimento dei figli, collabora alla stesura di un piano di salvataggio. A dire "no" ai piani di salvataggio è ancora Giorgio Ambrosoli [...]». Dagli atti del processo per l'assassinio dell'avvocato Ambrosoli risulta che lo stesso avvocato il 9 gennaio '79 ricevette nel suo studio una telefonata in cui l'interlocutore diceva che tutti davano la colpa a lui (Ambrosoli); «sia il Grande Capo sia il Piccolo, il signor Cuccia»; e l'anonimo telefonista spiegava all'allibito avvocato che il Grande Capo altri non era che Andreotti. L'11 luglio, alle ore 23,30, Ambrosoli veniva assassinato appena sceso dalla sua auto. Ai suoi funerali nemmeno una corona dello Stato. Qualche giorno prima aveva confessato ad un amico: «Mi minacciano di morte. Ho sinceramente paura. Ma non posso tirarmi indietro: ne andrebbe della credibilità dello Stato».
Anche lui, come Dalla Chiesa, come Falcone, come Borsellino, credeva in uno Stato che non si identifica con le istituzioni e con gli uomini che le rappresentano! Assassinato finirà anche Mino Pecorelli. Alcuni anni dopo, Michele Sindona -che in precedenza, per sfuggire al processo, aveva inscenato un suo finto rapimento con l'intervento della mafia e della massoneria- verrà estradato in Italia per essere processato. Durante le prime battute dei processo cercherà di mandare segnali rassicuranti per i suoi amici e protettori; cercherà di far capire che non ha intenzione di parlare. Non verrà creduto. Finirà assassinato in carcere con una tazzina di caffè avvelenato. Come Pisciotta. Proprio in quegli anni (gli anni 70) la Sicilia è ancora una volta terra di esperimenti politici: si tesse la tela del «compromesso storico» che porterà poi i comunisti nella maggioranza che sostiene il governo Andreotti ai tempi del «caso Sindona». A guidare il PCI siciliano è Achille Occhetto; e il PCI tesse la sua tela con il partito più imbevuto di mafia. In quegli anni si indaga sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ma il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo, impegnato nelle indagini viene assassinato (agosto '77) insieme al suo amico prof. Filippo Costa. Sul settimanale "il Candido" sta scritto: «In quel momento non solo i dirigenti politici romani, ma anche i ras DC-PCI dell'isola (Giovanni Gioia, Salvo Lima, Attilio Ruffini, Nino Gullotti, Achille Occhetto, Pio La Torre) possono finalmente convenire che sull'affare De Mauro-Scaglione è stata posta definitivamente la parola "fine". È vero che restano ancora in vita e in attività di servizio gli antichi dirigenti della squadra omicidi della questura di Palermo, Bruno Contrada e Boris Giuliano, che ai tempi dell'inchiesta sulla sparizione di De Mauro erano stati i più decisi accusatori della banda Verzotto-Guarrasi e, di riflesso, del loro grande protettore Eugenio Cefis [ex-capo partigiano]». Il 30 maggio '78 viene assassinato anche Giuseppe Di Cristina, il pezzo da 90, «uomo di mano del democristiano Graziano Verzotto» il quale è recentemente rientrato in Sicilia dopo un lungo periodo di latitanza, in quanto amnistie varie hanno annullato la condanna a suo carico. Di Giuseppe Di Cristina -quello delle consegne in piazza durante la processione- parlava anche Giovanni Falcone, ricordando quanto gli aveva detto il pentito Antonio Calderone: «Per esempio, il boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, deluso dalla mancanza di aiuto concreto da parte della Democrazia Cristiana per alleggerire le misure di sorveglianza di pubblica sicurezza, si è rivolto al repubblicano Aristide Gunnella. Di Cristina è stato poi anche assunto in un Istituto regionale su proposta dello stesso Gunnella». «C'è da meravigliarsi se il Partito Repubblicano ha raccolto "una valanga di voti" alle elezioni di Riesi, per dirla con Calderone?»
E proprio negli anni '70 scoppia uno dei casi più clamorosi che mette in evidenza i legami tra mafia, alta finanza e poteri politici: il "caso Sindona". Sindona era appena un giovanotto negli anni in cui gli americani -con l'aiuto della mafia- sbarcavano in Sicilia. Negli anni in cui nasceva la Repubblica, Sindona lasciava l'isola per raggiungere Milano, con in tasca alcune lettere di presentazione per influenti personaggi dello stato post-fascista. Ambizione, intelligenza ed "amicizie giuste" facevano in pochi anni di Michele Sindona un potentissimo finanziere con le mani in pasta in numerose società finanziarie e banche in Italia e in America. Nel 1973 Sindona organizzava all'Hotel Regis di New York un pranzo in onore di Giulio Andreotti che, proprio in quella occasione, gli attribuì il titolo di "salvatore della lira". Pochi mesi dopo, però, l'impero finanziario del banchiere italo-americano è allo sfascio. Guido Carli, governatore della Banca d'Italia, chiama l'avvocato Giorgio Ambrosoli per rimettere ordine in quell'impero. Beppe Niccolai, nella rubrica "Rosso e Nero" sul "Secolo d'Italia" del 1 giugno 1984, scriveva: «C'è una lettera di Michele Sindona. È del settembre 1976. È indirizzata all'allora Presidente del Consiglio in carica, Giulio Andreotti, capo di un governo retto anche dai voti del PCI. Proviene dall'America. La busta reca il recapito: Hotel Pierre Nuova York. Il bancarottiere, inseguito da un mandato di cattura della magistratura italiana, traccia per il Presidente del Consiglio, un vero e proprio programma di azione. Eccolo: contrastare l'estradizione richiesta dai giudici milanesi; esercitare pressioni sull'apparato giudiziario e amministrativo perché recedano dal comportamenti contrari a lui, Sindona; sistemare gli affari delle banche dichiarate fallite; opporsi alla sentenza di insolvenza [...]». Il 17 dello stesso mese su "OP", l'agenzia di Mino Pecorelli, si poteva leggere per come riportato da Turone: «Siamo entrati in possesso di un documento relativo all'istruttoria Sindona - in particolare della parte che si riferisce al professionista che percepì dal salvatore della lira il miliardo da girare al Presidente dei Consiglio [Giulio Andreotti]. Esistono le prove documentali che il Presidente del Consiglio ha percepito un miliardo da Michele Sindona -che un altro miliardo è stato pagato ad un ex-segretario politico di un partito- che ben quindici miliardi sono stati versati nelle casse di un partito politico (lo stesso del Presidente del Consiglio e dell'ex-segretario politico in questione)». Nella citata rubrica "Rosso e Nero", Niccolai riportava quanto scritto da "il Corriere della Sera": «il 15 e il 25 luglio '78 Rodolfo Guzzi (avvocato di Sindona arrestato per estorsione in questi giorni) viene ricevuto a Palazzo Chigi da Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio. Lo mette al corrente del piano di salvataggio delle banche di Sindona. Andreotti spiega all'interlocutore che la persona più adatta per valutarlo è il ministro dei Lavori Pubblici Gaetano Stammati. Il nome di Gaetano Stammati risulterà poi nell'elenco degli iscritti alla P2. È lo stesso on. Andreotti che fissa l'incontro Guzzi e Stammati. Il 20 settembre '78 il ministro dei Lavori Pubblici presenta il progetto di salvataggio a Carlo Ciampi Governatore della Banca d'Italia. È bocciato. Il parere negativo viene riferito tanto all'on. Andreotti che all'avvocato Guzzi». Prosegue Niccolai: «[...] Infatti Andreotti non ce la fa. Nemmeno Enrico Cuccia, Consigliere delegato di Mediobanca, che, minacciato di rapimento dei figli, collabora alla stesura di un piano di salvataggio. A dire "no" ai piani di salvataggio è ancora Giorgio Ambrosoli [...]». Dagli atti del processo per l'assassinio dell'avvocato Ambrosoli risulta che lo stesso avvocato il 9 gennaio '79 ricevette nel suo studio una telefonata in cui l'interlocutore diceva che tutti davano la colpa a lui (Ambrosoli); «sia il Grande Capo sia il Piccolo, il signor Cuccia»; e l'anonimo telefonista spiegava all'allibito avvocato che il Grande Capo altri non era che Andreotti. L'11 luglio, alle ore 23,30, Ambrosoli veniva assassinato appena sceso dalla sua auto. Ai suoi funerali nemmeno una corona dello Stato. Qualche giorno prima aveva confessato ad un amico: «Mi minacciano di morte. Ho sinceramente paura. Ma non posso tirarmi indietro: ne andrebbe della credibilità dello Stato».
Anche lui, come Dalla Chiesa, come Falcone, come Borsellino, credeva in uno Stato che non si identifica con le istituzioni e con gli uomini che le rappresentano! Assassinato finirà anche Mino Pecorelli. Alcuni anni dopo, Michele Sindona -che in precedenza, per sfuggire al processo, aveva inscenato un suo finto rapimento con l'intervento della mafia e della massoneria- verrà estradato in Italia per essere processato. Durante le prime battute dei processo cercherà di mandare segnali rassicuranti per i suoi amici e protettori; cercherà di far capire che non ha intenzione di parlare. Non verrà creduto. Finirà assassinato in carcere con una tazzina di caffè avvelenato. Come Pisciotta. Proprio in quegli anni (gli anni 70) la Sicilia è ancora una volta terra di esperimenti politici: si tesse la tela del «compromesso storico» che porterà poi i comunisti nella maggioranza che sostiene il governo Andreotti ai tempi del «caso Sindona». A guidare il PCI siciliano è Achille Occhetto; e il PCI tesse la sua tela con il partito più imbevuto di mafia. In quegli anni si indaga sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ma il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo, impegnato nelle indagini viene assassinato (agosto '77) insieme al suo amico prof. Filippo Costa. Sul settimanale "il Candido" sta scritto: «In quel momento non solo i dirigenti politici romani, ma anche i ras DC-PCI dell'isola (Giovanni Gioia, Salvo Lima, Attilio Ruffini, Nino Gullotti, Achille Occhetto, Pio La Torre) possono finalmente convenire che sull'affare De Mauro-Scaglione è stata posta definitivamente la parola "fine". È vero che restano ancora in vita e in attività di servizio gli antichi dirigenti della squadra omicidi della questura di Palermo, Bruno Contrada e Boris Giuliano, che ai tempi dell'inchiesta sulla sparizione di De Mauro erano stati i più decisi accusatori della banda Verzotto-Guarrasi e, di riflesso, del loro grande protettore Eugenio Cefis [ex-capo partigiano]». Il 30 maggio '78 viene assassinato anche Giuseppe Di Cristina, il pezzo da 90, «uomo di mano del democristiano Graziano Verzotto» il quale è recentemente rientrato in Sicilia dopo un lungo periodo di latitanza, in quanto amnistie varie hanno annullato la condanna a suo carico. Di Giuseppe Di Cristina -quello delle consegne in piazza durante la processione- parlava anche Giovanni Falcone, ricordando quanto gli aveva detto il pentito Antonio Calderone: «Per esempio, il boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, deluso dalla mancanza di aiuto concreto da parte della Democrazia Cristiana per alleggerire le misure di sorveglianza di pubblica sicurezza, si è rivolto al repubblicano Aristide Gunnella. Di Cristina è stato poi anche assunto in un Istituto regionale su proposta dello stesso Gunnella». «C'è da meravigliarsi se il Partito Repubblicano ha raccolto "una valanga di voti" alle elezioni di Riesi, per dirla con Calderone?»
Ma torniamo agli esperimenti politici
Ha scritto Nando Dalla Chiesa,
uomo di sinistra: «La mafia, è bene ricordarlo, diventa più potente proprio nel
decennio in cui cresce -e non di poco- la forza della Sinistra. Spiegazioni a
iosa, d'accordo. Ma c'è un interrogativo inquietante. Quali sono i princìpi che
regolano tattiche, strategie, formule e soprattutto alleanze della sinistra in
quel periodo? Forse le leggi della politica che essa pratica sono le stesse in
cui può navigare il potere mafioso? [...] c'è a sinistra un approccio al potere
che va criticato impietosamente. Senza di che la denuncia delle responsabilità
democristiane resterà sacrosanta quanto inefficace».
Questo approccio non riguarda solo la Sicilia
Franco Martelli, in "La guerra
mafiosa", scrive: «C'era comunque, e soprattutto nelle forze di sinistra, un
difetto di origine: le organizzazioni mafiose, laddove esistevano, non essendosi
ovunque caratterizzate come sostegno agii agrari (ciò era avvenuto più nella
zona di Gioia Tauro, di meno nella lonica e sull'Aspromonte) venivano viste pur
sempre come forma di ribellione e di reazione, quasi che il riscatto potesse
passare anche, dopo tutto, attraverso questa prima fase per così dire grezza
della rivolta. La cosiddetta "repubblica" di Caulonia del marzo '45 ne era stata
illuminante testimonianza». E a questo punto Martelli riporta quanto sostenuto
da Sharo Gambino nel suo libro "Mafia. La lunga notte della Calabria", proprio a
proposito della "Repubblica rossa" di Caulonia: «È certo comunque che presero
parte alla rivolta anche i mafiosi, ovvero i braccianti aderenti alle "ndrine"
locali. È altrettanto certo che la rivolta si nutrì di comportamenti e persino
di rituali mafiosi». E che la sinistra -e i comunisti in prima fila- avessero
attenzioni a dir poco benevole nei confronti della mafia lo dimostra quanto
scritto il 26 aprile '44, sul settimanale della Federazione Provinciale di
Palermo del PCI, in un articolo intitolato "La mafia".
Ecco una significativa parte:
«I componenti della vecchia mafia
nelle lotte per la conquista delle terre non avranno più bisogno di mettersi
fuorilegge: solo adattandosi ai nuovi tempi e al nuovi bisogni di unione con
tutti i lavoratori essi potranno realizzare le loro aspirazioni ed emanciparsi
economicamente come tutti i contadini. Il separatismo e la mafia hanno interessi
diametralmente opposti: se questa oggi è allettata dai latifondisti con lauti
stipendi e larghi utili per il concorso al contrabbando, è perché essa è utile;
ma se per caso domani i latifondisti si dovessero di nuovo consolidare,
troverebbero un altro Mori per reprimere nuovamente i loro alleati». Quale sia
stato poi l'approccio dei comunisti alla politica e soprattutto al potere è
dimostrato dal fatto che perfino Pio La Torre nel dicembre dei '74, in tempo di
compromesso storico e di crescita mafiosa, dichiarava: «Do atto che in questi
ultimi tempi nella DC siciliana c'è stato un processo critico, autocritico, di
ripensamento e quindi c'è uno sforzo di rinnovamento che si tenta (in mezzo a
mille difficoltà di portare avanti [...] Non vi è dubbio che la presa della
mafia e il suo potere sull'elettorato in Sicilia si siano ridotti e si sono
ridotti per tutto quello di progresso e di sviluppo che in Sicilia c'è stato».
Mentre la mafia cresceva ed aumentava il suo potere, Pio La Torre diceva, al
contrario, che la sua forza e il suo potere si riducevano.
Tutto ciò perché Il PCI e la DC
si erano messi d'accordo
Lo stesso Pio La Torre nella
relazione dei PCI nella Commissione antimafia -che è una relazione di
compromesso- difendeva Vito Guarrasi, il cui nome compariva più volte negli atti
della Commissione stessa. Per difenderlo -diceva- «dagli attacchi della destra
fascista». Chi sia Vito Guarrasi lo dice -oltre alle numerose citazioni negli
atti dell'Antimafia- anche una pagina dei memoriale di Giuseppe Insalaco, il
sindaco di Palermo assassinato dalla mafia. Insalaco scriveva che Guarrasi,
quale inviato dal conte Cassina, lo voleva convincere a scegliere la trattativa
privata per «quell'appalto»; in questo modo avrebbe evitato di essere travolto
da una vicenda giudiziaria che stava maturando al Palazzo di Giustizia contro di
lui, e di cui Guarrasi era misteriosamente a conoscenza. Nel diario di Rocco
Chinnici -il magistrato assassinato dalla mafia- c'è un appunto in data 17
aprile '81. Eccolo:
«Ore 18, viene a trovarmi il marchese De Seta; dopo avermi raccontato delle sue vicende con l'avvocato Guarrasi, mi fa presente che costui è intimo amico dei senatore Emanuele Macaluso. Mi riferisce che alla galleria d'arte "La Tavolozza" (il cui proprietario effettivo è Renato Guttuso) si recava spesso il dott. Boris Giuliano, il quale in quella sede, parlando con Leonardo Sciascia e qualche altro, si riteneva certo che responsabile del sequestro Di Mauro era proprio il Guarrasi [Boris Giuliano era il vice-questore di Palermo poi assassinato dalla mafia]». Scriveva Niccolai: «Importante Vito Guarrasi per il PCI. Al punto che il 30 maggio '74 [...] Emanuele Macaluso, direttore de "l'Unità" inviò al ministro dell'interno un'interrogazione, chiedendo, in modo perentorio, l'allontanamento dal servizio dei questore Angelo Mangano perché costui, in dichiarazioni rese davanti alla Corte di Assise di Palermo, aveva osato dire, sul conto di Guarrasi, quello che oggi si trova scritto sui diari di Rocco Chinnici: Vito Guarrasi, la testa pensante della mafia in Sicilia». Macaluso, chiamato in causa dalla pubblicazione dei diari di Chinnici, fece emanare una precisazione in cui affermava che la sua amicizia con Guarrasi era conseguenza dei rapporti che lo stesso Guarrasi intratteneva con tutto il gruppo dirigente comunista siciliano, e ricordava che Guarrasi era stato candidato nel '48 nelle liste del Fronte Popolare, era stato poi amministratore del «giornale democratico di Palermo "l'Ora" e consigliere giuridico di Enrico Mattei e dell'ENI». I rapporti di Guarrasi con il PCI -secondo Macaluso- si sarebbero poi interrotti dopo l'esperienza del governo di Milazzo. Peccato che l'interrogazione dello stesso Macaluso, prima riportata, sia successiva di quasi quindici anni a quel governo siciliano. Pio La Torre finirà poi massacrato dalla mafia e Niccolai invitava ad andare a guardare all'appalto del Palazzo dei Congressi di Palermo, («un appalto di diversi miliardi. Una ditta cara a sinistra, data per vincente, e che poi non ce la fa») e al racconto che si fa nella relazione di minoranza dei MSI -redatta dallo stesso Niccolai e definita «una cosa seria» da Leonardo Sciascia- «della convenzione che il Comune di Palermo stipula con la ditta Vaselli negli anni '60, per il rinnovo dell'appalto della nettezza urbana. E si troverà che anche Pio La Torre si portava dietro i suoi peccatucci, tipici di una situazione, quella siciliana, dove il PCI è stato sempre non forza di opposizione, ma di potere, niente altro che forza di potere».
Altri fatti ancora mostrano quale sia stato -e quale sia ancora- l'approccio dei PCI (e della sinistra in generale) al potere e alla politica. Fatti che fanno capire e che fanno apparire «naturale» quello che è successo in questi anni in Sicilia, a Milano (tangentopoli) e in ogni angolo d'Italia. Anni fa Niccolai scriveva -tramite il "Giornale di Sicilia" e "l'Unità"- una lettera (mai pubblicata perché il destinatario non ne volle sapere di rispondere) indirizzata ad Emanuele Macaluso, «per sapere se il PCI non partecipasse almeno in Sicilia al sistema di potere DC», e chiedeva: «che cosa ci faceva, nel febbraio del '72, nel Consiglio di Amministrazione della finanziaria GEFI, proprietaria del pacchetto di maggioranza dell'ex-Banca Loria, poi Banco di Milano di Michele Sindona, l'avvocato Calogero Cipolla, all'epoca presidente del giornale (comunista) "l'Ora" di Palermo, consigliere di amministrazione del quotidiano (comunista) "Paese Sera", fratello del senatore (comunista) Nicolò Cipolla, già membro della Commissione Antimafia [...]». Quello di non rispondere quando è in difficoltà è per Macaluso un vizio. Infatti non ha mai voluto rispondere nemmeno alle richieste di spiegazioni sul passaggio delle vecchie miniere baronali dalla mano privata a quella pubblica. Un «affare» a proposito del quale Leonardo Sciascia ha scritto che «nulla capiremo della mafia finché non metteremo in luce gli aspetti di questa vicenda». C'è poi una dichiarazione di Maria Fais, amica della famiglia La Torre, rilasciata dopo l'assassinio del parlamentare comunista, che si salda perfettamente con quanto detto: «Pio sospettava che "l'Ora" e "Tele l'Ora", testate del PCI fossero finanziate da imprenditori siciliani vicini alla mafia». Che l'approccio alla politica dei PCI fosse uguale a quello della DC anche fuori dalla Sicilia lo dice poi il democristiano Cirino Pomicino in una dichiarazione del 1982. Eccola: «Gli sviluppi dell'ultimo periodo a Napoli presentano un dato di continuità: quello dei rapporto tra gruppo doroteo della DC ed amministratori comunali del PCI. Per essere più precisi, tra Andrea Geremicca deputato ed assessore di punta comunista e Raffaele Russo, gaviano. La gestione di ventimila alloggi da costruire e distribuire in base alla legge Andreatta è stata manipolata da un cosiddetto comitato politico che è la sede della spartizione fra PCI e dorotei». La fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta sono caratterizzati da una lunga serie di delitti «eccellenti». Cadono, tra gli altri, il già citato Boris Giuliano, Cesare Terranova, Michele Rejna, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Piersanti Mattarella. Nell'aprile del 1982 muore anche -come già detto- Pio La Torre, segretario regionale del partito Comunista. Questo delitto precede di soli quattro mesi un altro delitto «eccellente», che è anche un delitto annunciato: quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa
«Ore 18, viene a trovarmi il marchese De Seta; dopo avermi raccontato delle sue vicende con l'avvocato Guarrasi, mi fa presente che costui è intimo amico dei senatore Emanuele Macaluso. Mi riferisce che alla galleria d'arte "La Tavolozza" (il cui proprietario effettivo è Renato Guttuso) si recava spesso il dott. Boris Giuliano, il quale in quella sede, parlando con Leonardo Sciascia e qualche altro, si riteneva certo che responsabile del sequestro Di Mauro era proprio il Guarrasi [Boris Giuliano era il vice-questore di Palermo poi assassinato dalla mafia]». Scriveva Niccolai: «Importante Vito Guarrasi per il PCI. Al punto che il 30 maggio '74 [...] Emanuele Macaluso, direttore de "l'Unità" inviò al ministro dell'interno un'interrogazione, chiedendo, in modo perentorio, l'allontanamento dal servizio dei questore Angelo Mangano perché costui, in dichiarazioni rese davanti alla Corte di Assise di Palermo, aveva osato dire, sul conto di Guarrasi, quello che oggi si trova scritto sui diari di Rocco Chinnici: Vito Guarrasi, la testa pensante della mafia in Sicilia». Macaluso, chiamato in causa dalla pubblicazione dei diari di Chinnici, fece emanare una precisazione in cui affermava che la sua amicizia con Guarrasi era conseguenza dei rapporti che lo stesso Guarrasi intratteneva con tutto il gruppo dirigente comunista siciliano, e ricordava che Guarrasi era stato candidato nel '48 nelle liste del Fronte Popolare, era stato poi amministratore del «giornale democratico di Palermo "l'Ora" e consigliere giuridico di Enrico Mattei e dell'ENI». I rapporti di Guarrasi con il PCI -secondo Macaluso- si sarebbero poi interrotti dopo l'esperienza del governo di Milazzo. Peccato che l'interrogazione dello stesso Macaluso, prima riportata, sia successiva di quasi quindici anni a quel governo siciliano. Pio La Torre finirà poi massacrato dalla mafia e Niccolai invitava ad andare a guardare all'appalto del Palazzo dei Congressi di Palermo, («un appalto di diversi miliardi. Una ditta cara a sinistra, data per vincente, e che poi non ce la fa») e al racconto che si fa nella relazione di minoranza dei MSI -redatta dallo stesso Niccolai e definita «una cosa seria» da Leonardo Sciascia- «della convenzione che il Comune di Palermo stipula con la ditta Vaselli negli anni '60, per il rinnovo dell'appalto della nettezza urbana. E si troverà che anche Pio La Torre si portava dietro i suoi peccatucci, tipici di una situazione, quella siciliana, dove il PCI è stato sempre non forza di opposizione, ma di potere, niente altro che forza di potere».
Altri fatti ancora mostrano quale sia stato -e quale sia ancora- l'approccio dei PCI (e della sinistra in generale) al potere e alla politica. Fatti che fanno capire e che fanno apparire «naturale» quello che è successo in questi anni in Sicilia, a Milano (tangentopoli) e in ogni angolo d'Italia. Anni fa Niccolai scriveva -tramite il "Giornale di Sicilia" e "l'Unità"- una lettera (mai pubblicata perché il destinatario non ne volle sapere di rispondere) indirizzata ad Emanuele Macaluso, «per sapere se il PCI non partecipasse almeno in Sicilia al sistema di potere DC», e chiedeva: «che cosa ci faceva, nel febbraio del '72, nel Consiglio di Amministrazione della finanziaria GEFI, proprietaria del pacchetto di maggioranza dell'ex-Banca Loria, poi Banco di Milano di Michele Sindona, l'avvocato Calogero Cipolla, all'epoca presidente del giornale (comunista) "l'Ora" di Palermo, consigliere di amministrazione del quotidiano (comunista) "Paese Sera", fratello del senatore (comunista) Nicolò Cipolla, già membro della Commissione Antimafia [...]». Quello di non rispondere quando è in difficoltà è per Macaluso un vizio. Infatti non ha mai voluto rispondere nemmeno alle richieste di spiegazioni sul passaggio delle vecchie miniere baronali dalla mano privata a quella pubblica. Un «affare» a proposito del quale Leonardo Sciascia ha scritto che «nulla capiremo della mafia finché non metteremo in luce gli aspetti di questa vicenda». C'è poi una dichiarazione di Maria Fais, amica della famiglia La Torre, rilasciata dopo l'assassinio del parlamentare comunista, che si salda perfettamente con quanto detto: «Pio sospettava che "l'Ora" e "Tele l'Ora", testate del PCI fossero finanziate da imprenditori siciliani vicini alla mafia». Che l'approccio alla politica dei PCI fosse uguale a quello della DC anche fuori dalla Sicilia lo dice poi il democristiano Cirino Pomicino in una dichiarazione del 1982. Eccola: «Gli sviluppi dell'ultimo periodo a Napoli presentano un dato di continuità: quello dei rapporto tra gruppo doroteo della DC ed amministratori comunali del PCI. Per essere più precisi, tra Andrea Geremicca deputato ed assessore di punta comunista e Raffaele Russo, gaviano. La gestione di ventimila alloggi da costruire e distribuire in base alla legge Andreatta è stata manipolata da un cosiddetto comitato politico che è la sede della spartizione fra PCI e dorotei». La fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta sono caratterizzati da una lunga serie di delitti «eccellenti». Cadono, tra gli altri, il già citato Boris Giuliano, Cesare Terranova, Michele Rejna, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Piersanti Mattarella. Nell'aprile del 1982 muore anche -come già detto- Pio La Torre, segretario regionale del partito Comunista. Questo delitto precede di soli quattro mesi un altro delitto «eccellente», che è anche un delitto annunciato: quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa
3ª parte
Dalla Chiesa, reduce dal successo
contro il terrorismo, viene nominato Prefetto di Palermo. Sembra un segnale
importante. Si crede che il governo voglia combattere davvero la mafia. Ma è
solo apparenza. Il figlio del generale, Nando, racconta nel suo libro "Delitto
imperfetto" che, prima di partire per la Sicilia, il padre ebbe un incontro che
sarebbe stato «(...) per il suo destino un incontro cruciale: quello con Giulio
Andreotti». Dopo questo incontro il Generale avrebbe detto: «Sono andato da
Andreotti e quando gli ho detto tutto quello che so dei suoi in Sicilia è
sbiancato in faccia». Andreotti, dal canto suo, ha smentito che in
quell’incontro si sia parlato dei rapporti mafia-politica. Però, nel suo diario,
nella pagina del 6 aprile 1982, il Generale ha lasciato scritto: «Poi ieri anche
l’on. Andreotti mi ha chiesto di andare e naturalmente, date le sue presenze
elettorali in Sicilia, si è manifestato, per via indiretta, interessato al
problema. Sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò
riguardo per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi
elettori». Chi ha mentito? Comunque, appena Dalla Chiesa arriva in Sicilia
incominciano le polemiche sui poteri da conferirgli. E a schierarsi contro di
Lui sono proprio gli uomini e i partiti di governo che li avevano promessi e
che, secondo Nando Dalla Chiesa, erano stati posti dal padre come condizione per
l’accettazione della nomina. Comincia il socialdemocratico Carlo Vizzini
ricordando che il compito affidato al neo-prefetto era quello di «Spezzare le
pericolose collusioni tra la delinquenza organizzata e l’eversione». (Quindi non
i legami tra mafia e politica). I giornali del 13 agosto riportano la notizia
che il Ministro degli Interni Rognoni e il Presidente del Senato, Fanfani, sono
contrari all’idea di un Dalla Chiesa nazionale. Scrive il giudice Minna:
«Qualcuno del governo non vuole che Dalla Chiesa faccia il suo dovere ...». Sul
"Giornale di Sicilia" del 18 agosto il vicario episcopale Padre Francesco
Michele Stabile dichiara: «La gente comincia a pensare che i gruppi di potere
una direzione operativa a Dalla Chiesa non vogliono dargliela perché il Prefetto
potrebbe davvero sconfiggere la mafia (...). Troppe complicità fra i pubblici
amministratori. Troppe collusioni ed anche troppe omissioni ...». E quali
fossero le collusioni lo diceva lo stesso Generale il quale, secondo il figlio,
dichiarava: «Ora sono stato mandato in Sicilia. Non ci posso far niente se lì i
più legati alla mafia sono democristiani». Ma i problemi per lui sarebbero stati
non solo con la DC, ma anche con i partiti laici. In un’intervista a "Il Mondo",
Angelo Sanza, uomo di governo democristiano, legato a De Mita, delegato ai
problemi della polizia, affermava che Dalla Chiesa non poteva avere a Palermo
compiti che sono propri di organizzazioni centrali. Secondo Nando Dalla Chiesa
il messaggio lanciato da Sanza sarebbe stato questo: «Dalla Chiesa è un prefetto
come gli altri, non ha e non avrà nessun potere in più ...» e «Di fatto
significa, ancora, che lo Stato, se sarà toccato Dalla Chiesa, non riterrà di
essere stato colpito al cuore, di doversi mettere in guerra con la mafia». Lo
stesso Nando così commenta: «Se non sbaglio, quel messaggio ha trovato orecchie
attente». In questo clima, mentre la mafia continua ad uccidere e a far sapere
che è cominciata "l’operazione Carlo Alberto", si arriva quasi a negare
l’esistenza stessa della mafia, o almeno la collusione con i politici: il
sindaco di Palermo, Martellucci, dichiara: «Io non conosco collusioni mafiose al
Comune di Palermo», e il prefetto di Catania, Abatelli, afferma: «Qui la mafia
non esiste». Dalla Chiesa cerca allora di utilizzare la stampa per costringere
il governo ad uscire allo scoperto e a muoversi. Concede a Giorgio Bocca la
famosa intervista in cui dichiara di essere stato lasciato solo e di essere, per
questo, un facile bersaglio per la mafia. Ma il Presidente del Consiglio, il
Ministro degli Interni e tutto il governo non si muovono. Il 2 settembre, il
Generale viene assassinato insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro.
Si pensa ad una talpa che avrebbe informato il commando mafioso dell’uscita del
Generale dalla Prefettura e dell’itinerario seguito. Nando Dalla Chiesa afferma
che in Prefettura lavoravano -tra gli altri- Antonio Miceli, fratello del
famigerato Joseph Miceli Crimi, il medico che aveva ospitato Sindona all’epoca
del suo falso rapimento e Ciro Lo Prato, segretario comunale di Mariano,
democristiano, nipote del boss mafioso Vincenzo Catanzaro coinvolto
nell’indagine sull’assassinio del colonnello Russo. Ma il successore di Dalla
Chiesa smentisce la possibilità di infiltrazioni. Subito dopo il delitto, su "Il
Giornale", Indro Montanelli scrive: «Chi siano i capi mafiosi e da chi siano
protetti, a Palermo lo sanno anche le pietre. È ora che vengano stanati a
qualunque prezzo e con qualunque mezzo. Chi cercherà di opporvisi non potrà che
essere considerato un (...) favoreggiatore». E ancora: «Inchiesti il Parlamento,
se vuole, ma su sé stesso» e, riferendosi alla Regione Sicilia: «Sappiamo
benissimo quanto di mafia è permeata e succube». Ai funerali i figli di Dalla
Chiesa notano la presenza, davanti alla bara, della corona inviata dalla
Presidenza della Regione Sicilia. Quella presenza -scrive Nando- fa tornare loro
in mente la frase detta dal padre: «Nei delitti di mafia la prima corona ad
arrivare è quella del mandante». La morte del Generale è un colpo per tutta
l’Italia. É chiaro a tutti che le istituzioni -governo in prima fila- non hanno
fatto nulla per permettergli di combattere sul serio la mafia. Accanto alla
ribellione nasce allora la sfiducia. La convinzione che la mafia non può essere
vinta perché la classe politica è troppo legata ad essa. Dal canto suo il
Governo cerca di inventare qualcosa di nuovo; e mentre tutti coloro che avevano
osteggiato Dalla Chiesa da vivo ne tessono le lodi da morto e negano qualsiasi
disaccordo con esso, quei poteri che Lui aveva continuamente richiesti, che gli
erano stati promessi prima e negati poi, vengono concessi -forse ancora più
ampi- al suo successore. E dal cilindro dei politicanti nasce una nuova figura,
quella dell’Alto Commissario per la lotta alla mafia. La mafia continua, però,
ad operare senza grossi problemi. Ad operare e ad uccidere. Cadono: il
procuratore della Repubblica di Trapani, Giacomo Ciaccio Montalto; il capitano
dei carabinieri, Mario D’Aleo; il giudice Rocco Chinnici; il giornalista
Giuseppe Fava; il commissario di polizia Giuseppe Montana; il vicedirigente
della squadra mobile, Antonio Cassarà; il magistrato Giuseppe Giacomelli; il
presidente della Corte d’Appello di Palermo, Antonio Saetta; il giudice
Livatino. Cadono anche politici ed imprenditori, e non solo in Sicilia. In
Calabria viene assassinato un politico eccellente: l’ex-onorevole democristiano
Lodovico Ligato. Sempre in Calabria, dove anni prima era stato assassinato un
alto magistrato, Francesco Ferlaino, viene assassinato, nell’agosto del '91,
Antonio Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Corte di
Cassazione. Unico fatto di grande importanza nella lotta alla mafia, negli anni
ottanta, il processo che un gruppo di magistrati riesce a mettere in piedi in
Sicilia, contro pesci piccoli e grossi della mafia, e che resiste fino alla
Cassazione. Di questo gruppo di magistrati fanno parte Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino. Giovanni Falcone raccontava che il pentito Tommaso Buscetta gli
aveva detto che Cosa Nostra, prima di arrivare all’eliminazione fisica di un
nemico esterno (come può essere un magistrato), cerca di screditarlo. Questa
tecnica viene puntualmente attuata contro di Lui: prima i veleni del palazzo di
Giustizia di Palermo, con le lettere del corvo, poi il fallito attentato del
giugno del 1989 che viene usato per screditare il magistrato. Si arriva infatti
a sostenere che esso non era opera della mafia e che serviva come mezzo
pubblicitario. Intanto, il gruppo di magistrati che ha portato a termine gli
importanti processi di mafia -per uno di quei tanti misteri italici- è stato
sciolto. Il 13 marzo '91, Falcone viene nominato Direttore degli Affari Penali
del Ministero di Grazia e Giustizia e trasferito a Roma. L’allontanamento da
Palermo non pone però il giudice al riparo da Cosa Nostra. Il 23 maggio '92,
mentre in Parlamento si susseguono le inutili votazioni per l’elezione del
Presidente della Repubblica, Giovanni Falcone viene fatto saltare in aria
insieme alla moglie Francesca Morbillo e a tre uomini di scorta sull’autostrada
che porta dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Poco tempo prima, sempre a
Palermo, era stato assassinato Salvo Lima, europarlamentare della Democrazia
Cristiana, ritenuto uno degli uomini più potenti della Sicilia e personaggio di
spicco degli atti della Commissione Antimafia. Le indagini dei magistrati
palermitani sull’uccisione dell’europarlamentare e le confessioni di alcuni
mafiosi pentiti sembrano oggi avere confermato quello che tutti sapevano: Salvo
Lima era il difensore politico della mafia ed esercitava il suo compito
appoggiandosi a Giulio Andreotti. Il giudice Giuseppe Ayala ha detto che Cosa
Nostra non lascia niente al caso. La morte di Lima avrebbe quindi dovuto far
capire che all’interno dell’organizzazione si stava giocando (e ancora si sta
giocando) una partita importante, ma avrebbe -ancor di più- dovuto fare
riflettere su un dato importantissimo: se Lima è stato eliminato vuol dire che
ci sono già altri politici di non minore importanza e potere pronti a
sostituirlo nelle sue funzioni. Lo Stato non è però riuscito a salvare Falcone.
Morto Falcone, chiunque avrebbe dovuto capire che il bersaglio immediatamente
successivo sarebbe stato Paolo Borsellino. Puntualmente, due mesi dopo la
strage di Capaci, anche Borsellino salta in aria insieme agli uomini della sua
scorta. Se l’attentato a Falcone era difficile da prevenire -nelle condizioni
attuali-, quello contro Borsellino era talmente ovvio e prevedibile, da manuale,
che lascia increduli per come si è potuto attuare. Scontato l’obiettivo: il
Magistrato; possibilissimo come obiettivo -anche a prescindere dalla presenza
dello stesso- il luogo dell’attentato: il palazzo in cui abita la madre del
giudice, lasciato senza alcuna protezione; da manuale la tecnica usata: un
auto-bomba; tecnica già usata per assassinare il giudice Chinnici. Perché,
allora, chi doveva non ha preso le necessarie precauzioni? Aveva detto Falcone:
«Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo
grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché
si è privi di sostegno». Anche Falcone e Borsellino erano dunque stati lasciati
soli. Come Dalla Chiesa. Ma anche Falcone e Borsellino erano diventati troppo
potenti. Ed infatti uno dei magistrati che con Falcone e Borsellino aveva
lavorato a lungo -Giuseppe Ayala-, subito dopo la strage, ha detto: «Dire mafia
è troppo poco per spiegare questa strage». La morte di Falcone, e poi quella di
Borsellino, assumono un significato politico. Perché, per esempio, per
trasferire i mafiosi dall’Ucciardone (il carcere di Palermo) si è aspettato che
fossero assassinati i due magistrati più impegnati nella lotta a Cosa Nostra; i
due magistrati che più di ogni altro avevano capito la mafia. E se,
ufficialmente, Buscetta aveva detto a Falcone che non avrebbe parlato dei
rapporti tra mafia e politici, perché le cose che avrebbe potuto dire erano tali
che avrebbero reso incredibili tutte le altre accuse, è possibile che lo stesso
non avesse lanciato ai giudici di cui si fidava almeno un segnale su quali erano
i politici da cui avrebbero dovuto guardarsi maggiormente? Il giudice Caponetto
ha confermato, in un intervista televisiva, che Buscetta, fuori verbale, aveva
fatto il nome di Salvo Lima. Adesso, secondo un settimanale, viene fuori che lo
stesso Buscetta avrebbe fatto a Falcone i nomi dei politici che ordinavano di
uccidere, proprio pochi giorni prima della morte del magistrato. La morte di
Falcone e Borsellino suscita nuove ondate di emozione e di rabbia in tutta
Italia e, come al solito, il Governo cerca di varare misure che plachino
l’opinione pubblica: i mafiosi dell’Ucciardone vengono trasferiti e in Sicilia
arriva l’esercito. Ma la mafia non è un problema di ordine pubblico. Il giudice
Ayala, in una trasmissione televisiva, ha detto che la mafia non si combatte
mandando per le strade di Palermo ragazzi di vent’anni con il fucile in mano e
che i provvedimenti del governo sono solo di facciata e non serviranno a
combattere quella mafia che è cresciuta grazie ai governi che si sono succeduti
e di cui quello attuale prosegue la politica. Certo la presenza di militari fa
diminuire scippi, furti e rapine; ma non si sconfigge la mafia se non c’è una
volontà politica per farlo. Diceva Giovanni Falcone: «Diversi anni fa, a Palermo
fu consumato uno degli ormai tanti omicidi eccellenti. Mentre ero immerso in
amare riflessioni squillò il telefono. Era l’Alto commissario per la lotta alla
mafia del tempo: "E ora cosa possiamo inventare per placare l’allarme del
Paese?" mi chiese». L’Alto commissario non si preoccupava tanto di combattere la
mafia, ma di cosa inventare per placare l’opinione pubblica. Questo ed altri
episodi danno, secondo Falcone, il quadro realistico dell’impegno dello Stato
nella lotta alla criminalità organizzata. Emotivo, episodico, fluttuante.
Motivato solo dalla impressione suscitata da un crimine o dall’effetto che una
particolare iniziativa governativa può esercitare sull’opinione pubblica. É
quello che sta scritto anche in un messaggio fatto pervenire al giudice
Caponetto -padre del pool antimafia di cui avevano fatto parte Falcone e
Borsellino- da un vecchio compagno di scuola: «... I vari Martelli non mirano a
bonificare né a migliorare, pensano solo al proprio interesse, gli basta una
mossa indovinata per l’opinione pubblica. Anche perché non è gente cui preme che
la verità venga tutta a galla o sia perseguita". Ed infatti Cosa Nostra ha
continuato a colpire. Si è salvato per miracolo un collaboratore di Borsellino
e, proprio a Palermo, è stato tranquillamente assassinato uno dei potentissimi
in odore di mafia: Ignazio Salvo. Ma questo Stato può combattere davvero e fino
in fondo la mafia?
Secondo me, no! Non può combatterla perché esso nasce non dalla resistenza -come si dice comunemente-; nasce nel 1943 dagli accordi degli americani con i mafiosi. Quel Vito Guarrasi di cui ho parlato era, nel 1943, ad Algeri, insieme al generale Castellano, a trattare la resa dell’Italia. Ma Vito Guarrasi era soltanto un sottotenente. Chi rappresentava? E poi c’è quell’articolo 16 del Trattato di pace. Non può combattere la mafia perché i mafiosi albergano all’interno delle istituzioni e degli onnipotenti partiti che le occupano, e perché essa ha un potere economico enorme. Diceva Falcone: «Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto un organizzazione parallela ...». Dopo la morte di Dalla Chiesa, Alberto Cavallari, su "Il Corriere della sera" aveva scritto: «Dalla Chiesa muore perché spedito al fronte senza tenere conto che dietro le sue spalle la mafia ha invaso le retrovie, gli stati maggiori, l’intendenza, il territorio nazionale. Che può fare Dalla Chiesa se Milano è mafiosa come Palermo, se Torino ha più cosche di Agrigento, se Roma è una grande Bagheria?». Dopo l’assassinio di Falcone, Claudio Magris, sullo stesso quotidiano: «(...) la mafia è diventata parte del corpo che dovrebbe combatterla, si è intrecciata con gli organi dello Stato e del mondo politico fino a rendersi indistinguibile da esso». Giuseppe Fava, il giornalista assassinato dalla mafia, aveva scritto: «I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono Ministri, i mafiosi banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione». Su "l'Espresso" del 5 aprile, Giorgio Bocca ha scritto che quasi la metà dei giudici riuniti in assemblea dopo l’assassinio del giudice Livatino «(...) hanno firmato un documento in cui si dice che la mafia vince non solo per l’insufficienza dello Stato, ma per un preciso disegno volto a disarticolare ogni tipo di controllo istituzionale e a mantenere gli attuali equilibri economici basati su un intreccio sempre più potente tra attività legali e illegali su cui si fonda il consenso al potere politico attuale». Falcone raccontava che Buscetta gli aveva detto: «Ho fiducia in lei, giudice Falcone, come ho fiducia nel vicequestore Gianni Di Gennaro Ma non mi fido di nessun altro. Non credo che lo Stato italiano abbia veramente intenzione di combattere la mafia». Nel dicembre del 1983, in un convegno tenuto a Reggio Calabria sul tema "Mafia-Stato-Società", Raffaele Bertone, allora presidente della sezione antimafia del Consiglio Superiore della Magistratura, aveva detto: «(...) mentre l’attacco del terrorismo alle istituzioni aveva radici ed origini esterne ad esse, quello mafioso trova sostegno oggettivo all’interno delle istituzioni, tra coloro che in misura più o meno significativa le rappresentano e le esprimono».
Beppe Niccolai, nelle conclusioni della sua relazione quale componente della Commissione Antimafia, così scriveva: «La battaglia contro la mafia si combatte sul fronte dei partiti, debellando prima l’omertà, o meglio l’equilibrio dei ricatti che si è stabilito fra i partiti per poi passare, con mezzi rigorosi e alla piena luce del sole, alla pulizia interna, senza la quale, per dirla con Leonardo Sciascia, grazie al canale putrescente delle correnti partitocratiche, si darà sempre il caso che l’uomo politico di statura europea, moderno, di idee avanzate, ritenuto, in Italia e fuori, capace di guidare le sorti del governo e dello Stato, in Sicilia risulti di fatto il più efficiente protettore degli uomini politici indiziati di mafia, o addirittura, della mafia». Ma i partiti si sono guardati bene dal fare pulizia, dal recidere i rapporti con la criminalità, organizzata o meno. Diceva Giovanni Falcone: «La mafia, è un fatto notorio, controlla gran parte dei voti in Sicilia. Il pentito Francesco Marino Mannoia ha parlato di decine di migliaia di voti sotto influenza nella sola Palermo. E le elezioni politiche del 1987 hanno peraltro messo in luce massicci spostamenti di voti nei seggi elettorali più significativi». Questo spostamento di voti «è stato provocato da Cosa Nostra per lanciare un avvertimento alla Democrazia Cristiana, responsabile di non avere saputo bloccare l’inchiesta antimafia dei magistrati di Palermo».
I voti sottratti alla DC -secondo Falcone- «sono confluiti verso quei partiti che avevano assunto una posizione fortemente critica nei confronti della magistratura: il Partito Socialista e il Partito Radicale». Sempre secondo Falcone, alla mafia i problemi politici «non interessano più di tanto fino a che non si sente minacciata nel suo potere o nelle sue fonti di guadagno. Le basta fare eleggere amministratori e politici amici e a volte addirittura membri dell’organizzazione. E ciò sia per orientare il flusso della spesa pubblica, sia perché vengano votate delle leggi idonee a favorire le sue opportunità di guadagno e ne vengano invece bocciate altre che potrebbero esercitare ripercussioni nefaste sul suo giro d’affari». E che i mafiosi sappiano bene quali uomini e quali partiti far votare lo dimostra questo quadro della collusione e dei rapporti politica-criminalità, riferito alla Calabria, tratto dal libro di Franco Martelli: «Scrivevano di don Mommo Piromalli i carabinieri di Gioia Tauro, in un rapporto del 1970: "Gode delle amicizie in seno al personale di governo, con i quali si mantiene in buoni rapporti e dei quali gode anche protezione (...)". Tre anni dopo, nel corso di una perquisizione nella villa Piromalli, venivano trovati i biglietti da visita di alcuni deputati calabresi della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista». I De Stefano, in varie occasioni hanno fatto campagna elettorale per il PSDI; i boss mafiosi del reggino hanno fatto il giro della Calabria per un parlamentare democristiano; decine di mafiosi sono stati graziati al tempo in cui era sottosegretario alla giustizia un parlamentare repubblicano. Nel giugno 1980 «La DC al comune di Reggio ha presentato un cugino dei De Stefano (...) risultato al secondo posto fra gli eletti. Nel periodo elettorale, Paolo De Stefano, rimasto a capo della famiglia dopo l’uccisione dei due fratelli, aveva ottenuto la sospensione del soggiorno obbligato dovendo essere sottoposto ad un processo a Reggio. (...) Nella stessa occasione, di uguale trattamento ha goduto il boss di Rosarno Giuseppe Pesco, in permesso nel suo comune dove era attivamente impegnato nella campagna elettorale per il PSI. (...) Casi altrettanto clamorosi si sono registrati nel PRI che ha eletto alla Regione Pietro Araniti, cugino del boss Santo Araniti. (...) Sempre i repubblicani hanno fatto eleggere alla provincia di Reggio il genero di don Antonio Macrì, Pietro Ligato. (...) Il PSI, da parte sua, aveva candidato al comune di Montebello Ionico il latitante Paolo Fati, risultato poi primo degli eletti. L’infiltrazione non ha risparmiato in questi anni neanche il PSI».
Secondo me, no! Non può combatterla perché esso nasce non dalla resistenza -come si dice comunemente-; nasce nel 1943 dagli accordi degli americani con i mafiosi. Quel Vito Guarrasi di cui ho parlato era, nel 1943, ad Algeri, insieme al generale Castellano, a trattare la resa dell’Italia. Ma Vito Guarrasi era soltanto un sottotenente. Chi rappresentava? E poi c’è quell’articolo 16 del Trattato di pace. Non può combattere la mafia perché i mafiosi albergano all’interno delle istituzioni e degli onnipotenti partiti che le occupano, e perché essa ha un potere economico enorme. Diceva Falcone: «Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto un organizzazione parallela ...». Dopo la morte di Dalla Chiesa, Alberto Cavallari, su "Il Corriere della sera" aveva scritto: «Dalla Chiesa muore perché spedito al fronte senza tenere conto che dietro le sue spalle la mafia ha invaso le retrovie, gli stati maggiori, l’intendenza, il territorio nazionale. Che può fare Dalla Chiesa se Milano è mafiosa come Palermo, se Torino ha più cosche di Agrigento, se Roma è una grande Bagheria?». Dopo l’assassinio di Falcone, Claudio Magris, sullo stesso quotidiano: «(...) la mafia è diventata parte del corpo che dovrebbe combatterla, si è intrecciata con gli organi dello Stato e del mondo politico fino a rendersi indistinguibile da esso». Giuseppe Fava, il giornalista assassinato dalla mafia, aveva scritto: «I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono Ministri, i mafiosi banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione». Su "l'Espresso" del 5 aprile, Giorgio Bocca ha scritto che quasi la metà dei giudici riuniti in assemblea dopo l’assassinio del giudice Livatino «(...) hanno firmato un documento in cui si dice che la mafia vince non solo per l’insufficienza dello Stato, ma per un preciso disegno volto a disarticolare ogni tipo di controllo istituzionale e a mantenere gli attuali equilibri economici basati su un intreccio sempre più potente tra attività legali e illegali su cui si fonda il consenso al potere politico attuale». Falcone raccontava che Buscetta gli aveva detto: «Ho fiducia in lei, giudice Falcone, come ho fiducia nel vicequestore Gianni Di Gennaro Ma non mi fido di nessun altro. Non credo che lo Stato italiano abbia veramente intenzione di combattere la mafia». Nel dicembre del 1983, in un convegno tenuto a Reggio Calabria sul tema "Mafia-Stato-Società", Raffaele Bertone, allora presidente della sezione antimafia del Consiglio Superiore della Magistratura, aveva detto: «(...) mentre l’attacco del terrorismo alle istituzioni aveva radici ed origini esterne ad esse, quello mafioso trova sostegno oggettivo all’interno delle istituzioni, tra coloro che in misura più o meno significativa le rappresentano e le esprimono».
Beppe Niccolai, nelle conclusioni della sua relazione quale componente della Commissione Antimafia, così scriveva: «La battaglia contro la mafia si combatte sul fronte dei partiti, debellando prima l’omertà, o meglio l’equilibrio dei ricatti che si è stabilito fra i partiti per poi passare, con mezzi rigorosi e alla piena luce del sole, alla pulizia interna, senza la quale, per dirla con Leonardo Sciascia, grazie al canale putrescente delle correnti partitocratiche, si darà sempre il caso che l’uomo politico di statura europea, moderno, di idee avanzate, ritenuto, in Italia e fuori, capace di guidare le sorti del governo e dello Stato, in Sicilia risulti di fatto il più efficiente protettore degli uomini politici indiziati di mafia, o addirittura, della mafia». Ma i partiti si sono guardati bene dal fare pulizia, dal recidere i rapporti con la criminalità, organizzata o meno. Diceva Giovanni Falcone: «La mafia, è un fatto notorio, controlla gran parte dei voti in Sicilia. Il pentito Francesco Marino Mannoia ha parlato di decine di migliaia di voti sotto influenza nella sola Palermo. E le elezioni politiche del 1987 hanno peraltro messo in luce massicci spostamenti di voti nei seggi elettorali più significativi». Questo spostamento di voti «è stato provocato da Cosa Nostra per lanciare un avvertimento alla Democrazia Cristiana, responsabile di non avere saputo bloccare l’inchiesta antimafia dei magistrati di Palermo».
I voti sottratti alla DC -secondo Falcone- «sono confluiti verso quei partiti che avevano assunto una posizione fortemente critica nei confronti della magistratura: il Partito Socialista e il Partito Radicale». Sempre secondo Falcone, alla mafia i problemi politici «non interessano più di tanto fino a che non si sente minacciata nel suo potere o nelle sue fonti di guadagno. Le basta fare eleggere amministratori e politici amici e a volte addirittura membri dell’organizzazione. E ciò sia per orientare il flusso della spesa pubblica, sia perché vengano votate delle leggi idonee a favorire le sue opportunità di guadagno e ne vengano invece bocciate altre che potrebbero esercitare ripercussioni nefaste sul suo giro d’affari». E che i mafiosi sappiano bene quali uomini e quali partiti far votare lo dimostra questo quadro della collusione e dei rapporti politica-criminalità, riferito alla Calabria, tratto dal libro di Franco Martelli: «Scrivevano di don Mommo Piromalli i carabinieri di Gioia Tauro, in un rapporto del 1970: "Gode delle amicizie in seno al personale di governo, con i quali si mantiene in buoni rapporti e dei quali gode anche protezione (...)". Tre anni dopo, nel corso di una perquisizione nella villa Piromalli, venivano trovati i biglietti da visita di alcuni deputati calabresi della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista». I De Stefano, in varie occasioni hanno fatto campagna elettorale per il PSDI; i boss mafiosi del reggino hanno fatto il giro della Calabria per un parlamentare democristiano; decine di mafiosi sono stati graziati al tempo in cui era sottosegretario alla giustizia un parlamentare repubblicano. Nel giugno 1980 «La DC al comune di Reggio ha presentato un cugino dei De Stefano (...) risultato al secondo posto fra gli eletti. Nel periodo elettorale, Paolo De Stefano, rimasto a capo della famiglia dopo l’uccisione dei due fratelli, aveva ottenuto la sospensione del soggiorno obbligato dovendo essere sottoposto ad un processo a Reggio. (...) Nella stessa occasione, di uguale trattamento ha goduto il boss di Rosarno Giuseppe Pesco, in permesso nel suo comune dove era attivamente impegnato nella campagna elettorale per il PSI. (...) Casi altrettanto clamorosi si sono registrati nel PRI che ha eletto alla Regione Pietro Araniti, cugino del boss Santo Araniti. (...) Sempre i repubblicani hanno fatto eleggere alla provincia di Reggio il genero di don Antonio Macrì, Pietro Ligato. (...) Il PSI, da parte sua, aveva candidato al comune di Montebello Ionico il latitante Paolo Fati, risultato poi primo degli eletti. L’infiltrazione non ha risparmiato in questi anni neanche il PSI».
Francesco Mastroianni
TRATTO DA:
http://www.beppeniccolai.org/Mafia_potere.htm
TRATTO DA:
http://www.beppeniccolai.org/Mafia_potere.htm
Un quadro generale della storia della mafia incredibile ma soprattutto convincente.
RispondiEliminaGrazie per la pubblicazione.