Benito Mussolini - Milano: Discorso del 16 Dicembre 1944 Teatro Lirico
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Milano, 16 dicembre 1944
Camerati, cari camerati milanesi!
Rinuncio ad ogni preambolo ed entro subito nel vivo della materia del mio discorso.
A sedici mesi di distanza dalla tremenda data della resa a
discrezione imposta ed accettata secondo la democratica e criminale
formula di Casablanca, la valutazione degli avvenimenti ci pone, ancora
una volta, queste domande: Chi ha tradito? Chi ha subito e subisce le
conseguenze del tradimento? Non si tratta, intendiamoci bene, di un
giudizio in sede di revisione storica, e, meno che mai, in qualsiasi
guisa, giustificativa.
È stato tentato da qualche foglio neutrale, ma noi lo respingiamo
nella maniera più categorica e per la sostanza e in secondo luogo per la
stessa fonte dalla quale proviene. Dunque chi ha tradito? La resa a
discrezione annunciata l'8 settembre è stata voluta dalla monarchia, dai
circoli di corte, dalle correnti plutocratiche della borghesia
italiana, da talune forze clericali, congiunte per l'occasione a quelle
massoniche, dagli Stati Maggiori, che non credevano più alla vittoria e
facevano capo a Badoglio. Sino dal maggio, e precisamente il 15 maggio,
l'ex-re nota in un suo diario, venuto recentemente in nostro possesso,
che bisogna ormai «sganciarsi» dall'alleanza con la Germania. Ordinatore
della resa, senza l'ombra di un dubbio, l'ex-re; esecutore Badoglio. Ma
per arrivare all'8 settembre, bisognava effettuare il 25 luglio, cioè
realizzare il colpo di Stato e il trapasso di regime.
La giustificazione della resa, e cioè la impossibilità di più oltre
continuare la guerra, veniva smentita quaranta giorni dopo, il 13
ottobre, con la dichiarazione di guerra alla Germania, dichiarazione non
soltanto simbolica, perché da allora comincia una collaborazione, sia
pure di retrovie e di lavoro, fra l'Italia badogliana e gli Alleati;
mentre la flotta, costruita tutta dal fascismo, passata al completo al
nemico, operava immediatamente con le flotte nemiche. Non pace, dunque,
ma, attraverso la cosiddetta cobelligeranza, prosecuzione della guerra;
non pace, ma il territorio tutto della nazione convertito in un immenso
campo di battaglia, il che significa in un immenso campo di rovine; non
pace, ma prevista partecipazione di navi e truppe italiane alla guerra
contro il Giappone.
Ne consegue che chi ha subito le conseguenze del tradimento è
soprattutto il popolo italiano. Si può affermare che nei confronti
dell'alleato germanico il popolo italiano non ha tradito. Salvo casi
sporadici, i reparti dell'Esercito si sciolsero senza fare alcuna
resistenza di fronte all'ordine di disarmo impartito dai comandi
tedeschi. Molti reparti dello stesso Esercito, dislocati fuori del
territorio metropolitano, e dell'Aviazione, si schierarono
immediatamente a lato delle forze tedesche, e si tratta di decine di
migliaia di uomini; tutte le formazioni della Milizia, meno un
battaglione in Corsica, passarono sino all'ultimo uomo coi tedeschi.
Il piano cosiddetto «P. 44», del quale si parlerà nell'imminente
processo dei generali e che prevedeva l'immediato rovesciamento del
fronte come il re e Badoglio avevano preordinato, non trovò alcuna
applicazione da parte dei comandanti e ciò è provato dal processo che
nell'Italia di Bonomi viene intentato a un gruppo di generali che agli
ordini contenuti in tale piano non obbedirono. Lo stesso fecero i
comandanti delle Armate schierate oltre frontiera.
Tuttavia, se tali comandanti evitarono il peggio, cioè l'estrema
infamia, che sarebbe consistita nell'attaccare a tergo gli alleati di
tre anni, la loro condotta dal punto di vista nazionale è stata nefasta.
Essi dovevano, ascoltando la voce della coscienza e dell'onore,
schierarsi armi e bagaglio dalla parte dell'alleato: avrebbero mantenuto
le nostre posizioni territoriali e politiche; la nostra bandiera non
sarebbe stata ammainata in terre dove tanto sangue italiano era stato
sparso; le Armate avrebbero conservato la loro organica costituzione; si
sarebbe evitato l'internamento coatto di centinaia di migliaia di
soldati e le loro grandi sofferenze di natura soprattutto morale; non si
sarebbe imposto all'alleato un sovraccarico di nuovi, impreveduti
compiti militari, con conseguenze che influenzavano tutta la condotta
strategica della guerra. Queste sono responsabilità specifiche nei
confronti, soprattutto, del popolo italiano.
Si deve tuttavia riconoscere che i tradimenti dell'estate 1944 ebbero
aspetti ancora più obbrobriosi, poiché romeni, bulgari e finnici, dopo
avere anch'essi ignominiosamente capitolato, e uno di essi, il bulgaro,
senza avere sparato un solo colpo di fucile, hanno nelle ventiquattro
ore rovesciato il fronte ed hanno attaccato con tutte le forze
mobilitate le unità tedesche, rendendone difficile e sanguinosa la
ritirata.
Qui il tradimento è stato perfezionato nella più ripugnante
significazione del termine. Il popolo italiano è, quindi, quello che,
nel confronto, ha tradito in misura minore e sofferto in misura che non
esito a dire sovrumana. Non basta. Bisogna aggiungere che mentre una
parte del popolo italiano ha accettato, per incoscienza o stanchezza, la
resa, un'altra parte si è immediatamente schierata a fianco della
Germania.
Sarà tempo di dire agli italiani, ai camerati tedeschi e ai camerati
giapponesi che l'apporto dato dall'Italia repubblicana alla causa comune
dal settembre del 1943 in poi, malgrado la temporanea riduzione del
territorio della Repubblica, è di gran lunga superiore a quanto
comunemente si crede.
Non posso, per evidenti ragioni, scendere a dettagliare le cifre
nelle quali si compendia l'apporto complessivo, dal settore economico a
quello militare, dato dall'Italia. La nostra collaborazione col Reich in
soldati e operai è rappresentata da questo numero: si tratta, alla data
del 30 settembre, di ben settecentottantaseimila uomini. Tale dato è
incontrovertibile perché di fonte germanica. Bisogna aggiungervi gli
ex-internati militari: cioè parecchie centinaia di migliaia di uomini
immessi nel processo produttivo tedesco, e molte altre decine di
migliaia di italiani che già erano nel Reich, ove andarono negli anni
scorsi dall'Italia come liberi lavoratori nelle officine e nei campi.
Davanti a questa documentazione, gli italiani che vivono nel territorio
della Repubblica Sociale hanno il diritto, finalmente, di alzare la
fronte e di esigere che il loro sforzo sia equamente e cameratescamente
valutato da tutti i componenti del Tripartito.
Sono di ieri le dichiarazioni di Eden sulle perdite che la Gran
Bretagna ha subito per difendere la Grecia. Durante tre anni l'Italia ha
inflitto colpi severissimi agli inglesi ed ha, a sua volta, sopportato
sacrifici imponenti di beni e di sangue. Non basta. Nel 1945 la
partecipazione dell'Italia alla guerra avrà maggiori sviluppi,
attraverso il progressivo rafforzamento delle nostre organizzazioni
militari, affidate alla sicura fede e alla provata esperienza di quel
prode soldato che risponde al nome del maresciallo d'Italia Rodolfo
Graziani.
Nel periodo tumultuoso di transizione dell'autunno e inverno 1943
sorsero complessi militari più o meno autonomi attorno a uomini che
seppero, col loro passato e il loro fascino di animatori, raccogliere i
primi nuclei di combattenti. Ci furono gli arruolamenti a carattere
individuale. Arruolamenti di battaglioni, di reggimenti, di specialità
Erano i vecchi comandanti che suonavano la diana. E fu ottima
iniziativa, soprattutto morale. Ma la guerra moderna impone l'unità.
Verso l'unità si cammina.
Oso credere che gli italiani di qualsiasi opinione saranno felici il
giorno in cui tutte le Forze Armate della Repubblica saranno raccolte in
un solo organismo e ci sarà una sola Polizia, l'uno e l'altra con
articolazioni secondo le funzioni, entrambi intimamente viventi nel
clima e nello spirito del fascismo e della Repubblica, poiché in una
guerra come l'attuale, che ha assunto un carattere di guerra «politica»,
la politicità è una parola vuota di senso ed in ogni caso superata.
Un conto è la «politica», cioè l'adesione convinta e fanatica
all'idea per cui si scende in campo, e un conto è un'attività politica,
che il soldato ligio al suo dovere e alla consegna non ha nemmeno il
tempo di esplicare, poiché la sua politica deve essere la preparazione
al combattimento e l'esempio ai suoi gregari in ogni evento di pace e di
guerra.
Il giorno 15 settembre il Partito Nazionale Fascista diventava il
Partito Fascista Repubblicano. Non mancarono allora elementi malati di
opportunismo o forse in stato di confusione mentale, che si domandarono
se non sarebbe stato più furbesco eliminare la parola «fascismo», per
mettere esclusivamente l'accento sulla parola «Repubblica». Respinsi
allora, come respingerei oggi, questo suggerimento inutile e vile.
Sarebbe stato errore e viltà ammainare la nostra bandiera, consacrata da tanto sangue, e fare passare quasi di contrabbando quelle idee che costituiscono oggi la parola d'ordine nella battaglia dei continenti. Trattandosi di un espediente, ne avrebbe avuto i tratti e ci avrebbe squalificato di fronte agli avversari e soprattutto di fronte a noi stessi.
Sarebbe stato errore e viltà ammainare la nostra bandiera, consacrata da tanto sangue, e fare passare quasi di contrabbando quelle idee che costituiscono oggi la parola d'ordine nella battaglia dei continenti. Trattandosi di un espediente, ne avrebbe avuto i tratti e ci avrebbe squalificato di fronte agli avversari e soprattutto di fronte a noi stessi.
Chiamandoci ancora e sempre fascisti, e consacrandoci alla causa del
fascismo, come dal 1919 ad oggi abbiamo fatto e continueremo anche
domani a fare, abbiamo dopo gli avvenimenti impresso un nuovo indirizzo
all'azione e nel campo particolarmente politico e in quello sociale.
Veramente più che di un nuovo indirizzo, bisognerebbe con maggiore
esattezza dire: ritorno alle posizioni originarie. È documentato nella
storia che il fascismo fu sino al 1927 tendenzialmente repubblicano e
sono stati illustrati i motivi per cui l'insurrezione del 1922 risparmiò
la monarchia.
Dal punto di vista sociale, il programma del fascismo repubblicano
non è che la logica continuazione del programma del 1919: delle
realizzazioni degli anni splendidi che vanno dalla Carta del lavoro alla
conquista dell'impero. La natura non fa dei salti, e nemmeno
l'economia. Bisognava porre le basi con le leggi sindacali e gli
organismi corporativi per compiere il passo, ulteriore della
socializzazione. Sin dalla prima seduta del Consiglio dei ministri del
27 settembre 1943 veniva da me dichiarato che «la Repubblica sarebbe
stata unitaria nel campo politico e decentrata in quello amministrativo e
che avrebbe avuto un pronunciatissimo contenuto sociale, tale da
risolvere la questione sociale almeno nei suoi aspetti più stridenti,
tale cioè da stabilire il posto, la funzione, la responsabilità del
lavoro in una società nazionale veramente moderna».
In quella stessa seduta, io compii il primo gesto teso a
realizzare la più vasta possibile concordia nazionale, annunciando che
il Governo escludeva misure di rigore contro gli elementi
dell'antifascismo.
Nel mese di ottobre fu da me elaborato e riveduto quello che nella
storia politica italiana è il «manifesto di Verona», che fissava in
alcuni punti abbastanza determinati il programma non tanto del Partito,
quanto della Repubblica. Ciò accadeva esattamente il 15 novembre, due
mesi dopo la ricostituzione del Partito Fascista Repubblicano.
Il manifesto dell'assemblea nazionale del Partito Fascista
Repubblicano, dopo un saluto ai caduti per la causa fascista e
riaffermando come esigenza suprema la continuazione della lotta a fianco
delle potenze del Tripartito e la ricostituzione delle Forze Armate,
fissava i suoi diciotto punti programmatici.
Vediamo ora ciò che è stato fatto, ciò che non è stato fatto e soprattutto perché non è stato fatto.
Il manifesto cominciava con l'esigere la convocazione della
Costituente e ne fissava anche la composizione, in modo che, come si
disse, «la Costituente fosse la sintesi di tutti i valori della
nazione».
Ora la Costituente non è stata convocata. Questo postulato non è
stato sin qui realizzato e si può dire che sarà realizzato soltanto a
guerra conclusa. Vi dico con la massima schiettezza che ho trovato
superfluo convocare una Costituente quando il territorio della
Repubblica, dato lo sviluppo delle operazioni militari, non poteva in
alcun modo considerarsi definitivo. Mi sembrava prematuro creare un vero
e proprio Stato di diritto nella pienezza di tutti i suoi istituti,
quando non c'erano Forze Armate che lo sostenessero. Uno Stato che non
dispone di Forze Armate è tutto, fuorché uno Stato.
Fu detto nel manifesto che nessun cittadino può essere trattenuto
oltre i sette giorni senza un ordine dell'Autorità giudiziaria. Ciò non è
sempre accaduto. Le ragioni sono da ricercarsi nella pluralità degli
organi di Polizia nostri e alleati e nell'azione dei fuori legge, che
hanno fatto scivolare questi problemi sul piano della guerra civile a
base di rappresaglie e contro-rappresaglie. Su taluni episodi si è
scatenata la speculazione dell'antifascismo, calcando le tinte e facendo
le solite generalizzazioni. Debbo dichiarare nel modo più esplicito che
taluni metodi mi ripugnano profondamente, anche se episodici. Lo Stato,
in quanto tale, non può adottare metodi che lo degradano. Da secoli si
parla della legge del taglione. Ebbene, è una legge, non un arbitrio più
o meno personale.
Mazzini, l'inflessibile apostolo dell'idea repubblicana, mandò agli
albori della Repubblica romana nel 1849 un commissario ad Ancona per
insegnare ai giacobini che era lecito combattere i papalini, ma non
ucciderli extra-legge, o prelevare, come si direbbe oggi, le argenterie
dalle loro case. Chiunque lo faccia, specie se per avventura avesse la
tessera del Partito, merita doppia condanna.
Nessuna severità è in tal caso eccessiva, se si vuole che il Partito,
come si legge nel «manifesto di Verona», sia veramente «un ordine di
combattenti e di credenti, un organismo di assoluta purezza politica,
degno di essere il custode dell'idea rivoluzionaria».
Alta personificazione di questo tipo di fascista fu il camerata
Resega, che ricordo oggi e ricordiamo tutti con profonda emozione, nel
primo anniversario della sua fine, dovuta a mano nemica.
Poiché attraverso la costituzione delle brigate nere il Partito sta
diventando un «ordine di combattenti», il postulato di Verona ha il
carattere di un impegno dogmatico e sacro. Nello stesso articolo 5,
stabilendo che per nessun impiego o incarico viene richiesta la tessera
del Partito, si dava soluzione al problema che chiamerò di
collaborazione di altri elementi sul piano della Repubblica. Nel mio
telegramma in data 10 marzo XXII ai capi delle provincie, tale formula
veniva ripresa e meglio precisata. Con ciò ogni discussione sul problema
della pluralità dei partiti appare del tutto inattuale.
In sede storica, nelle varie forme in cui la Repubblica come istituto
politico trova presso i differenti popoli la sua estrinsecazione, vi
sono molte repubbliche di tipo totalitario, quindi con un solo partito.
Non citerò la più totalitaria di esse, quella dei sovietici, ma
ricorderò una che gode le simpatie dei sommi bonzi del vangelo
democratico: la Repubblica turca, che poggia su un solo partito, quello
del popolo, e su una sola organizzazione giovanile, quella dei «focolari
del popolo».
A un dato momento della evoluzione storica italiana può essere
feconda di risultati, accanto al Partito unico e cioè responsabile della
direzione globale dello Stato, la presenza di altri gruppi, che, come
dice all'articolo tre il «manifesto di Verona», esercitino il diritto di
controllo e di responsabile critica sugli atti della pubblica
amministrazione. Gruppi che, partendo dall'accettazione leale, integrale
e senza riserve del trinomio Italia, Repubblica, socializzazione,
abbiano la responsabilità di esaminare i provvedimenti del Governo e
degli enti locali, di controllare i metodi di applicazione dei
provvedimenti stessi e le persone che sono investite di cariche
pubbliche e che devono rispondere al cittadino, nella sua qualità di
soldato-lavoratore contribuente, del loro operato.
L'assemblea di Verona fissava al numero otto i suoi postulati di
politica estera. Veniva solennemente dichiarato che il fine essenziale
della politica estera della Repubblica è «l'unità, l'indipendenza,
l'integrità territoriale della patria nei termini marittimi e alpini
segnati dalla natura, dal sacrificio di sangue e dalla storia».
Quanto all'unità territoriale, io mi rifiuto, conoscendo la Sicilia e
i fratelli siciliani, di prendere sul serio i cosiddetti conati
separatistici di spregevoli mercenari del nemico. Può darsi che questo
separatismo abbia un altro motivo: che i fratelli siciliani vogliano
separarsi dall'Italia di Bonomi per ricongiungersi con l'Italia
repubblicana.
È mia profonda convinzione che, al di là di tutte le lotte e
liquidato il criminoso fenomeno dei fuorilegge, l'unità morale degli
italiani di domani sarà infinitamente più forte di quella di ieri,
perché cementata da eccezionali sofferenze, che non hanno risparmiato
una sola famiglia. E quando attraverso l'unità morale l'anima di un
popolo è salva, è salva anche la sua integrità territoriale e la sua
indipendenza politica.
A questo punto occorre dire una parola sull'Europa e relativo
concetto. Non mi attardo a domandarmi che cosa è questa Europa, dove
comincia e dove finisce dal punto di vista geografico, storico, morale,
economico; né mi chiedo se oggi un tentativo di unificazione abbia
migliore successo dei precedenti. Ciò mi porterebbe troppo lontano. Mi
limito a dire che la costituzione di una comunità europea è auspicabile e
forse anche possibile, ma tengo a dichiarare in forma esplicita che noi
non ci sentiamo italiani in quanto europei, ma ci sentiamo europei in
quanto italiani. La distinzione non è sottile, ma fondamentale.
Come la nazione è la risultante di milioni di famiglie che hanno una
fisionomia propria, anche se posseggono il comune denominatore
nazionale, così nella comunità europea ogni nazione dovrebbe entrare
come un'entità ben definita, onde evitare che la comunità stessa
naufraghi nell'internazionalismo di marca socialista o vegeti nel
generico ed equivoco cosmopolitismo di marca giudaica e massonica.
Mentre taluni punti del programma di Verona sono stati scavalcati
dalla successione degli eventi militari, realizzazioni più concrete sono
state attuate nel campo economico-sociale. Qui la innovazione ha
aspetti radicali. I punti undici, dodici e tredici sono fondamentali.
Precisati nella «premessa alla nuova struttura economica della nazione»,
essi hanno trovato nella legge sulla socializzazione la loro pratica
applicazione. L'interesse suscitato nel mondo è stato veramente grande e
oggi, dovunque, anche nell'Italia dominata e torturata dagli
anglo-americani, ogni programma politico contiene il postulato della
socializzazione.
Gli operai, dapprima alquanto scettici, ne hanno poi compreso
l'importanza. La sua effettiva realizzazione è in corso. Il ritmo di ciò
sarebbe stato più rapido in altri tempi. Ma il seme è gettato.
Qualunque cosa accada, questo seme è destinato a germogliare. È il
principio che inaugura quello che otto anni or sono, qui a Milano, di
fronte a cinquecentomila persone acclamanti, vaticinai «secolo del
lavoro», nel quale il lavoratore esce dalla condizione economico-morale
di salariato per assumere quella di produttore, direttamente interessato
agli sviluppi dell'economia e al benessere della nazione.
La socializzazione fascista è la soluzione logica e razionale che
evita da un lato la burocratizzazione dell'economia attraverso il
totalitarismo di Stato e supera l'individualismo dell'economia liberale,
che fu un efficace strumento di progresso agli esordi dell'economia
capitalistica, ma oggi è da considerarsi non più in fase con le nuove
esigenze di carattere «sociale» delle comunità nazionali.
Attraverso la socializzazione i migliori elementi tratti dalle
categorie lavoratrici faranno le loro prove. Io sono deciso a proseguire
in questa direzione.
Due settori ho affidato alle categorie operaie: quello delle
amministrazioni locali e quello alimentare. Tali settori,
importantissimi specie nelle circostanze attuali, sono ormai
completamente nelle mani degli operai. Essi devono mostrare, e spero
mostreranno, la loro preparazione specifica e la loro coscienza civica.
Come vedete, qualche cosa si è fatto durante questi dodici mesi, in
mezzo a difficoltà incredibili e crescenti, dovute alle circostanze
obiettive della guerra e alla opposizione sorda degli elementi venduti
al nemico e all'abulia morale che gli avvenimenti hanno provocato in
molti strati del popolo.
In questi ultimissimi tempi la situazione è migliorata. Gli
attendisti, coloro cioè che aspettavano gli anglo-americani, sono in
diminuzione. Ciò che accade nell'Italia di Bonomi li ha delusi. Tutto
ciò che gli anglo-americani promisero, si è appalesato un miserabile
espediente propagandistico.
Credo di essere nel vero se affermo che le popolazioni della valle
del Po non solo non desiderano, ma deprecano l'arrivo degli
anglosassoni, e non vogliono saperne di un governo, che, pur avendo alla
vicepresidenza un Togliatti, riporterebbe a nord le forze reazionarie,
plutocratiche e dinastiche, queste ultime oramai palesemente protette
dall'Inghilterra.
Quanto ridicoli quei repubblicani che non vogliono la Repubblica
perché proclamata da Mussolini e potrebbero soggiacere alla monarchia
voluta da Churchill. Il che dimostra in maniera irrefutabile che la
monarchia dei Savoia serve la politica della Gran Bretagna, non quella
dell'Italia!
Non c'è dubbio che la caduta di Roma è una data culminante nella
storia della guerra. II generale Alexander stesso ha dichiarato che era
necessaria alla vigilia dello sbarco in Francia una vittoria che fosse
legata ad un grande nome, e non vi è nome più grande e universale di
Roma; che fosse creata, quindi, una incoraggiante atmosfera.
Difatti, gli anglo-americani entrano in Roma il 5 giugno;
all'indomani, 6, i primi reparti alleati sbarcano sulla costa di
Normandia, tra i fiumi Vire e Orne. I mesi successivi sono stati
veramente duri, su tutti i fronti dove i soldati del Reich erano e sono
impegnati.
La Germania ha chiamato in linea tutte le riserve umane, con la
mobilitazione totale affidata a Goebbels, e con la creazione della
«Volkssturm». Solo un popolo come il germanico, schierato unanime
attorno al Führer, poteva reggere a tale enorme pressione; solo un
Esercito come quello nazionalsocialista poteva rapidamente superare la
crisi del 20 luglio e continuare a battersi ai quattro punti cardinali
con eccezionale tenacia e valore, secondo le stesse testimonianze del
nemico.
Vi è stato un periodo in cui la conquista di Parigi e Bruxelles, la
resa a discrezione della Romania, della Finlandia, della Bulgaria hanno
dato motivo a un movimento euforico tale che, secondo corrispondenze
giornalistiche, si riteneva che il prossimo Natale la guerra sarebbe
stata praticamente finita, con l'entrata trionfale degli Alleati a
Berlino.
Nel periodo di tale euforia venivano svalutate e dileggiate le nuove
armi tedesche, impropriamente chiamate «segrete». Molti hanno creduto
che grazie all'impiego di tali armi, a un certo punto, premendo un
bottone, la guerra sarebbe finita di colpo. Questo miracolismo è ingenuo
quando non sia doloso. Non si tratta di armi segrete, ma di «armi
nuove», che, è lapalissiano il dirlo, sono segrete sino a quando non
vengono impiegate in combattimento. Che tali armi esistano, lo sanno per
amara constatazione gli inglesi; che le prime saranno seguite da altre,
lo posso con cognizione di causa affermare; che esse siano tali da
ristabilire l'equilibrio e successivamente la ripresa della iniziativa
in mani germaniche, è nel limite delle umane previsioni quasi sicuro e
anche non lontano.
Niente di più comprensibile delle impazienze, dopo cinque anni di
guerra, ma si tratta di ordigni nei quali scienza, tecnica, esperienza,
addestramento di singoli e di reparti devono procedere di conserva.
Certo è che la serie delle sorprese non è finita; e che migliaia di
scienziati germanici lavorano giorno e notte per aumentare il potenziale
bellico della Germania.
Nel frattempo la resistenza tedesca diventa sempre più forte e
molte illusioni coltivate dalla propaganda nemica sono cadute. Nessuna
incrinatura nel morale del popolo tedesco, pienamente consapevole che è
in gioco la sua esistenza fisica e il suo futuro come razza; nessun
accenno di rivolta e nemmeno di agitazione fra i milioni e milioni di
lavoratori stranieri, malgrado gli insistenti appelli e proclami del
generalissimo americano. E indice eloquentissimo dello spirito della
nazione è la percentuale dei volontari dell'ultima leva, che raggiunge
la quasi totalità della classe. La Germania è in grado di resistere e di
determinare il fallimento dei piani nemici.
Minimizzare la perdita di territori, conquistati e tenuti a prezzo di
sangue, non è una tattica intelligente, ma lo scopo della guerra non è
la conquista o la conservazione dei territori, bensì la distruzione
delle forze nemiche, cioè la resa e quindi la cessazione delle ostilità.
Ora le Forze Armate tedesche non solo non sono distrutte, ma sono in una fase di crescente sviluppo e potenza.
Se si prende in esame la situazione dal punto di vista politico, sono
maturati, in questo ultimo periodo del 1944, eventi e stati d'animo
interessanti.
Pur non esagerando, si può osservare che la situazione politica non è oggi favorevole agli Alleati.
Prima di tutto in America, come in Inghilterra, vi sono correnti
contrarie alla richiesta di resa a discrezione. La formula di Casablanca
significa la morte di milioni di giovani, poiché prolunga
indefinitamente la guerra; popoli come il tedesco e il giapponese non si
consegneranno mai mani e piedi legati al nemico, il quale non nasconde i
suoi piani di totale annientamento dei paesi del Tripartito.
Ecco perché Churchill ha dovuto sottoporre a doccia fredda i suoi
connazionali surriscaldati e prorogare la fine del conflitto all'estate
del 1945 per l'Europa e al 1947 per il Giappone. Un giorno un
ambasciatore sovietico a Roma, Potemkin, mi disse: «La prima guerra
mondiale bolscevizzò la Russia, la seconda bolscevizzerà l'Europa».
Questa profezia non si avvererà, ma se ciò accadesse, anche questa
responsabilità ricadrebbe in primo luogo sulla Gran Bretagna.
Politicamente Albione è già sconfitta. Gli eserciti russi sono sulla
Vistola e sul Danubio, cioè a metà dell'Europa. I partiti comunisti,
cioè i partiti che agiscono al soldo e secondo gli ordini del
maresciallo Stalin, sono parzialmente al potere nei paesi
dell'occidente.
Che cosa significhi la «liberazione» nel Belgio, in Italia, in
Grecia, lo dicono le cronache odierne. Miseria, disperazione, guerra
civile. I «liberati» greci che sparano sui «liberatori» inglesi non sono
che i comunisti russi che sparano sui conservatori britannici.
Davanti a questo panorama, la politica inglese è corsa ai ripari. In
primo luogo, liquidando in maniera drastica o sanguinosa, come ad Atene,
i movimenti partigiani, i quali sono l'ala marciante e combattente
delle sinistre estreme, cioè del bolscevismo; in secondo luogo,
appoggiando le forze democratiche, anche accentuate, ma rifuggenti dal
totalitarismo, che trova la sua eccelsa espressione nella Russia dei
sovieti.
Churchill ha inalberato il vessillo anticomunista in termini
categorici nel suo ultimo discorso alla Camera dei Comuni, ma questo non
può fare piacere a Stalin. La Gran Bretagna vuole riservarsi come zone
d'influenza della democrazia l'Europa occidentale, che non dovrebbe
essere contaminata, in alcun caso, dal comunismo.
Ma questa «fronda» di Churchill non può andare oltre ad un certo
segno, altrimenti il grande maresciallo del Cremlino potrebbe
adombrarsi. Churchill voleva che la zona d'influenza riservata alla
democrazia nell'Occidente europeo fosse sussidiata da un patto tra
Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Norvegia, in funzione antitedesca
prima, eventualmente in funzione antirussa poi.
Gli accordi Stalin-De Gaulle hanno soffocato nel germe questa idea,
che era stata avanzata, su istruzioni di Londra, dal belga Spaak. Il
gioco è fallito e Churchill deve, per dirla all'inglese, mangiarsi il
cappello e, pensando all'entrata dei Russi nel Mediterraneo e alla
pressione russa nell'Iran, deve domandarsi se la politica di Casablanca
non sia stata veramente per la «vecchia povera Inghilterra» una politica
fallimentare.
Premuta dai due colossi militari dell'Occidente e dell'Oriente, dagli
insolenti insaziabili cugini di oltre Oceano e dagli inesauribili
euroasiatici, la Gran Bretagna vede in gioco e in pericolo il suo
avvenire imperiale; cioè il suo destino. Che i rapporti «politici» tra
gli Alleati non siano dei migliori, lo dimostra la faticosa preparazione
del nuovo convegno a tre. Parliamo ora del lontano e vicino Giappone.
Più che certo, è dogmatico che l'impero del Sole Levante non piegherà
mai e si batterà sino alla vittoria. In questi ultimi mesi le armi
nipponiche sono state coronate da grandi successi. Le unità dello
strombazzatissimo sbarco nell'isola di Leyte, una delle molte centinaia
di isole che formano l'arcipelago delle Filippine, sbarco fatto a
semplice scopo elettorale, sono, dopo due mesi, quasi al punto di prima.
Che cosa sia la volontà e l'anima del Giappone è dimostrato dai
volontari della morte. Non sono decine, sono decine di migliaia di
giovani che hanno come consegna questa: «Ogni apparecchio una nave
nemica». E lo provano. Davanti a questa sovrumanamente eroica decisione,
si comprende l'atteggiamento di taluni circoli americani, che si
domandano se non sarebbe stato meglio per gli statunitensi che Roosevelt
avesse tenuto fede alla promessa da lui fatta alle madri americane che
nessun soldato sarebbe andato a combattere e a morire oltremare. Egli ha
mentito, come è nel costume di tutte le democrazie.
È per noi, italiani della Repubblica, motivo di orgoglio avere a
fianco come camerati fedeli e comprensivi i soldati, i marinai, gli
aviatori del Tenno, che colle loro gesta s'impongono all'ammirazione del
mondo.
Ora io vi domando: la buona semente degli italiani, degli italiani
sani, i migliori, che considerano la morte per la patria come l'eternità
della vita, sarebbe dunque spenta? (La folla grida: «No! No!»). Ebbene,
nella guerra scorsa non vi fu un aviatore che non riuscendo ad
abbattere con le armi l'aeroplano nemico, vi si precipitò contro,
cadendo insieme con lui? Non ricordate voi questo nome? Era un umile
sergente: Dall'Oro.
Nel 1935, quando l'Inghilterra voleva soffocarci nel nostro mare e io
raccolsi il suo guanto di sfida (la folla si leva in piedi con un grido
unanime di esaltazione: «Duce! Duce! Duce!») e feci passare ben
quattrocentomila legionari sotto le navi di Sua Maestà britannica,
ancorate nei porti del Mediterraneo, allora si costituirono in Italia, a
Roma, le squadriglie della morte. Vi devo dire, per la verità, che il
primo della lista era il comandante delle forze aeree. Ebbene, se domani
fosse necessario ricostituire queste squadriglie, se fosse necessario
mostrare che nelle nostre vene circola ancora il sangue dei legionari di
Roma, il mio appello alla nazione cadrebbe forse nel vuoto? (La folla
risponde: «No!»).
Noi vogliamo difendere, con le unghie e coi denti, la valle del Po
(grida: «Sì!»); noi vogliamo che la valle del Po resti repubblicana in
attesa che tutta l'Italia sia repubblicana. (Grida entusiastiche: «Si!
Tutta!»). Il giorno in cui tutta la valle del Po fosse contaminata dal
nemico, il destino dell'intera nazione sarebbe compromesso; ma io sento,
io vedo, che domani sorgerebbe una forma di organizzazione
irresistibile ed armata, che renderebbe praticamente la vita impossibile
agli invasori. Faremmo una sola Atene di tutta la valle del Po. (La
folla prorompe in grida unanimi di consenso. Si grida: «Si! Sì!»).
Da quanto vi ho detto, balza evidente che non solo la coalizione
nemica non ha vinto, ma che non vincerà. La mostruosa alleanza fra
plutocrazia e bolscevismo ha potuto perpetrare la sua guerra barbarica
come la esecuzione di un enorme delitto, che ha colpito folle di
innocenti e distrutto ciò che la civiltà europea aveva creato in venti
secoli. Ma non riuscirà ad annientare con la sua tenebra lo spirito
eterno che tali monumenti innalzò.
La nostra fede assoluta nella vittoria non poggia su motivi di
carattere soggettivo o sentimentale, ma su elementi positivi e
determinanti. Se dubitassimo della nostra vittoria, dovremmo dubitare
dell'esistenza di Colui che regola, secondo giustizia, le sorti degli
uomini.
Quando noi come soldati della Repubblica riprenderemo contatto con
gli italiani di oltre Appennino, avremo la grata sorpresa di trovare più
fascismo di quanto ne abbiamo lasciato. La delusione, la miseria,
l'abbiezione politica e morale esplode non solo nella vecchia frase «si
stava meglio», con quel che segue, ma nella rivolta che da Palermo a
Catania, a Otranto, a Roma stessa serpeggia in ogni parte dell'Italia
«liberata».
Il popolo italiano al sud dell'Appennino ha l'animo pieno di cocenti
nostalgie. L'oppressione nemica da una parte e la persecuzione bestiale
del Governo dall'altra non fanno che dare alimento al movimento del
fascismo. L'impresa di cancellarne i simboli esteriori fu facile; quella
di sopprimerne l'idea, impossibile. (La folla grida: «Mai!»).
I sei partiti antifascisti si affannano a proclamare che il fascismo è
morto, perché lo sentono vivo. Milioni di italiani confrontano ieri e
oggi; ieri, quando la bandiera della patria sventolava dalle Alpi
all'equatore somalo e l'italiano era uno dei popoli più rispettati della
terra.
Non v'è italiano che non senta balzare il cuore nel petto nell'udire
un nome africano, il suono di un inno che accompagnò le legioni dal
Mediterraneo al Mar Rosso, alla vista di un casco coloniale. Sono
milioni di italiani che dal 1919 al 1939 hanno vissuto quella che si può
definire l'epopea della patria. Questi italiani esistono ancora,
soffrono e credono ancora e sono disposti a serrare i ranghi per
riprendere a marciare, onde riconquistare quanto fu perduto ed è oggi
presidiato fra le dune libiche e le ambe etiopiche da migliaia e
migliaia di caduti, il fiore di innumerevoli famiglie italiane, che non
hanno dimenticato, né possono dimenticare.
Già si notano i segni annunciatori della ripresa, qui, soprattutto in
questa Milano antesignana e condottiera, che il nemico ha
selvaggiamente colpito, ma non ha minimamente piegato.
Camerati, cari camerati milanesi!
È Milano che deve dare e darà gli uomini, le armi, la volontà e il segnale della riscossa!
Mussolini a Milano, per il discorso del Lirico, sul predellino dell'auto Franco Colombo
Ausiliarie e borghesi, popolane e piccolo borghesi,
tutte in piazza per il discorso del duce al Lirico
IL DUCE ENTRA AL TEATRO LIRICO
BERGAMO REPUBBLICANA DEL 18 DICEMBRE 1944
TRATTO DA:
http://discorsolirico.blogspot.it/
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