martedì 27 settembre 2016

Alessandro Pavolini il “Poeta Guerriero”




«Un'Idea vive nella sua pienezza e si collauda nella sua profondità quando il morire battendosi per essa non è metaforico giuramento ma pratica quotidiana»

Oggi, 27 settembre 2016, a 113 anni dalla sua nascita ricordiamo Alessandro Pavolini, il “Poeta Guerriero”… pronto al più intenso dei sacrifici, esempio di vita e protagonista del periodo più burrascoso ma sicuramente più brillante della storia Italiana.
Uomo in grado di rappresentare i più alti valori umani… l’Artista ed il Guerriero… Uomo di grande cultura… poeta… giornalista… politico e soldato…

Nato il 27 settembre del 1903 nella città di Firenze, Pavolini nasce letteralmente con la cultura nel sangue: sua madre, Margherita Cantagalli, è una donna colta e vivace, discendente di un antico ceppo della borghesia intellettuale fiorentina mentre il padre, Paolo Emilio, ha un curriculum culturale molto caratteristico: professore di sanscrito all’Università di Firenze, conosce un numero impressionante di lingue antiche e moderne, vive e morte, traduce il poema indiano Mahābhārata, quello nazionale finnico, il Kalevala, ed altre opere di lingua greca, polacca, albanese, svedese, tedesca e lituana. Ma l’illustre professore, oltre alla cultura, ha anche un lato debole che trasmetterà poi al figlio Alessandro: le donne, tant’è vero che a un certo punto abbandonerà moglie e figli per seguire all’estremo Nord una bellissima finlandese molto più giovane di lui.
Fin da piccolo Alessandro sembra seguire le orme familiari: a cinque anni gioca con i giornali da cui ritaglia i titoli per farne dei collages, per poi cominciare qualche anno più tardi a fabbricarsi da solo dei giornaletti, tutti scritti a mano, ospitando articoli e poesie del fratello Corrado e di altri amici. A otto anni si cimenta con il primo giornaletto, intitolato “La guerra”, in cui tratta il conflitto in Libia tra il Regno d’Italia e l’Impero Ottomano. Qualche anno dopo stampa un altro giornaletto che chiama “Il Buzzegolo”, a causa di un soprannome dato da amici e familiari dovuto ad un accenno appuntito di pancetta di cui Alessandro va molto fiero e nel quale, oltre alle poesie e alla presentazione natalizia, c’è un articolo di fondo scritto dallo stesso Pavolini dedicato alla guerra mondiale che si sta svolgendo in Europa.
Al liceo il giovane federale di Firenze si distingue dagli altri studenti per la preparazione e l’eccezionale intelligenza, ottenendo voti alti (alla maturità otterrà un dieci in italiano) e figurandosi sempre tra i primi. In quel periodo, assieme al fratello Corrado, Pavolini entra in un circolo di coetanei, tutti di ottima famiglia, facente parte della borghesia fiorentina, di cui manterrà i contatti nel corso degli anni in maniera alterna ma sempre duratura, anche quando sarà diventato federale e poi Ministro della cultura popolare.
Nel frattempo, concluso il liceo, si iscrive contemporaneamente a due facoltà universitarie: Legge a Firenze e Scienze Sociali a Roma, laureandosi in entrambe nel 1924 e presentando, per quest’ultima, una tesi sull’indipendenza finlandese che poi pubblicherà.
Accurato nel vestire, ricco, intelligente e pronto di parola, il Pavolini di quegli anni si alterna in due diversi ambienti: da una parte frequenta i salotti della Firenze perbene, partecipando a svariate discussioni con i suoi coetanei, partecipando a tornei di tennis e a spettacoli teatrali, dall’altro partecipando attivamente alla politica. Nazionalista convinto, abbraccia l’ideologia fascista aderendo al movimento il primo ottobre 1920 e partecipando alle prime spedizioni punitive prima nella “Dante Rossi” e poi nella “Gustavo Mariani”, due delle più note squadracce fiorentine.
Il 28 ottobre 1922 il caso vuole che Pavolini si trovi a Roma per sostenere degli esami universitari e pertanto il giovane ha l’opportunità di infilarsi nelle squadre dei fascisti toscani che sfilano per la Capitale e di acquisire la cosiddetta “sciarpa littorio” che contraddistinguerà i fascisti della prima ora da quelli che emergeranno durante il regime.
Nonostante l’attività squadristica di Pavolini sia molto attiva nella sua città natia, ciò non turba più di molto i suoi amici, tant’è vero che, nonostante le divisioni politiche interne, il gruppo resta unito, favorendo una complicità intellettuale che durerà nel corso degli anni e, dalla quale, Alessandro ne prenderà ampiamente vantaggio scrivendo e facendo scrivere sulle sue riviste uomini di cultura assai critici verso il fascismo.
Nonostante le due lauree gli lascino parecchi sbocchi lavorativi (la famiglia cercherà di indirizzarlo verso un lavoro diplomatico) le attività di Pavolini durante il periodo 1922 – 1924 ruotano tutte attorno al fascismo, ricoprendo incarichi come membro del direttorio del GUF e delegato provinciale dell’ONB, l’Opera nazionale balilla. Dopo la crisi provocata dal delitto Matteotti, Alessandro torna a Firenze dove assiste alla resa dei conti con il separatismo del fascismo fiorentino: Italo Balbo, che viene inviato in città come commissario straordinario, decreta lo scioglimento della federazione provinciale, espellendo dal partito 51 squadristi. Tullio Tamburini, che comandava la federazione, verrà inviato in Libia, dove otterrà una concessione agricola e sancendo, pertanto, la vittoria del fascismo aristocratico – borghese comandato dal conte Dino Perrone Compagni di cui Pavolini e suo fratello Corrado ne fanno parte.
Nel 1927 accadono due fatti importanti nella vita del giovane fascista: diventa vicefederale di Firenze e pubblica il suo primo libro, Giro d’Italia, facendo sbarcare sul panorama letterario il tema dello Sport il quale, sebbene sia molto popolare all’estero, fa arricciare il naso in Italia alle “persone perbene”. Due anni dopo c’è un altro salto di qualità per Pavolini: diventa federale e sposa Teresa Tanzi. Ed è proprio da federale che il neoeletto mette tutto il suo lato culturale a disposizione della città: eventi come il Maggio Musicale, l’annuale partita di calcio in costume, la mostra dell’artigianato a Ponte Vecchio e il circuito automobilistico del Mugello sono tutte manifestazioni culturali e sportive da lui stesso inventate e che ancora oggi sopravvivono. Ma il contributo più grande che dà Pavolini alla cultura italiana è la ristrutturazione dei GUF e la creazione del Littorio della cultura che, secondo l’idea del creatore, si doveva estendere all’Italia intera.
Il problema dei GUF, i Gruppi universitari fascisti, e che il loro segretario generale Carlo Scorza, dopo aver fatto un analisi realistica dell’ambiente universitario in quegli anni, non proponeva alcun che di nuovo e se la cavava con la solita frase fatta (“inutile parlare di rimedi poiché nessuno li conosce meglio del Duce”). Pavolini intervenne su tale argomento avanzando delle proposte precise: la creazione della nuova classe dirigente deve passare attraverso le organizzazioni giovanili del partito, tutto entro i GUF, niente al di fuori dei GUF. Inoltre, sebbene i Littoriali fossero già presenti all’interno di essi, riguardavano però unicamente le attività sportive (sci, atletica, nuovo, scherma …) ed erano riservate unicamente agli universitari. L’idea di Pavolini consisteva nell’estendere tali discipline alla cultura, concedendo quel tanto di libertà da consentire ai partecipanti di muoversi, discute e sentirsi “non fascisti”, restando tuttavia all’interno delle istituzioni del regime. La prima edizione dei Littoriali, auspice Pavolini, si svolge a Firenze nel 1934 concludendosi abbastanza bene sebbene ci furono degli imprevisti (lo spettacolo 18BL, dedicato alla camionetta che portò i fanti al di là del Piave, fu un mezzo fiasco dovuto a problemi tecnici degli altoparlanti che non riuscirono a portare effetti e parole verso gli spettatori, uniti alla diffidenza del pubblico) e, nonostante poi alla fine si otterrà un effetto boomerang (una parte dei partecipanti diventerà la nuova classe dirigente della neonata Repubblica Italiana nel dopoguerra) i Littori diventeranno le olimpiadi della cultura da quel momento in poi.
Ora, sebbene arrivati a questo punto una persona potrebbe già essere soddisfatta di aver trovato l’apice della propria vita, per una persona colta e preparata come Pavolini ciò non è sufficiente: indubbiamente, è molto ambizioso, ma allo stesso tempo timido, svagato ed incerto sulla sua vita, divisa fra la poesia e l’azione. Tutto cambia nel 1934 quando viene eletto alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni e si trasferisce a Roma con la moglie ed i figli. Qui, così come era successo a Firenze, i salotti della Roma borghese gli si spalancano davanti ai piedi, ed è proprio nei primi salotti frequentati da Pavolini che egli incontra Marcantonio Colonna la cui amica, Isabella, è molto amica di Galeazzo Ciano. Sebbene l’amicizia tra i due fu fatta ad hoc dal gerarca toscano Zenone Benini (allo scopo di assegnare a Firenze, come santo protettore, l’emergente uomo politico livornese) essa si salderà nel corso degli anni e rimarrà duratura fino al fatidico 1943: entrambi nati nello stesso anno, 1903, si considerano aristocratici ed amano frequentare i salotti “in” della capitale, la letteratura, la passione per il teatro, provando una profonda disistima per Achille Starace il quale imperversava con direttive piuttosto comiche nel fascismo (basti ricordare i famosi salti nel cerchio di fuoco).
Nel frattempo la sua carriera continua a salire sempre più in su: viaggia nei Paesi del nord ed in Finlandia come inviato del Corriere, dove raccoglierà le sue corrispondenze nel libro “Nuovo Baltico”, viene nominato sempre nello stesso anno presidente della Confederazione fascista artista e professionisti, divenendo il costruttore della nuova cultura italiana ed, allo stesso tempo, il controllore. Ma è soltanto nel settembre del 1935 che Pavolini darà un assaggio del suo comportamento intransigente ed avventuroso che si vedrà più tardi durante la guerra civile: la guerra d’Abissinia è ormai alle porte e poiché Orio Vergani, che avrebbe dovuto accompagnare Ciano, ha paura di volare, viene scelto come aedo proprio Pavolini. Ed è proprio dal fronte che Alessandro, come corrispondente di guerra, invierà ottime corrispondenze che a conflitto finito verranno raccolte in un volume dal titolo “Disperata”, registrando un grosso successo editoriale. Un nome, quello del libro, che non è stato scelto a caso: la “Disperata” è infatti il nome assegnato alla squadriglia di Galeazzo Ciano, un “nome fiero e amoroso che si conviene alla squadra di un Ardito, e anche alla donna di lui quando aspetta”. La guerra di Etiopia, sebbene faccia nascere tra i due un forte spirito cameratesco, segnerà anche i primi distacchi fra i due dovuto ai temperamenti diversi: il primo, Pavolini, più incline all’azione ed agli atti eroici (Nel gennaio del 1936 proporrà all’amico di impadronirsi dell’isola Delz, sul Tana, per installarci una base provvisoria di atterraggio, rimanendo fortificati per sette, otto mesi) il secondo, invece, più prudente e disposto ad atti rischiosi solo con il minimo pericolo (sua è l’idea della “Beffa di Addis Abeba”, nella quale non parteciperà Pavolini, sostituito da Mutti, che però si risolverà con un mezzo fallimento).
Il periodo che va dalla fine della guerra Etiope fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale sono anni di grande attesa per Pavolini, passati tra il circolo del golf, i convegni culturali e l’impegno alternato tra inviato speciale del “Corriere della Sera” e quello di presidente della Confederazione professionisti ed artisti. Il 1 settembre del 1939 i tedeschi, assieme all’Unione Sovietica, si spartiscono la Polonia. Due giorni dopo Francia ed Inghilterra dichiarano guerra alla Germania. L’Italia prende tempo ed annuncia la propria “non belligeranza”. Poco più di un mese dopo Mussolini rimpasta i ministri del governo scegliendone buona parte dal cosiddetto “circolo Ciano”: in esso Pavolini ottiene il dicastero della Cultura Popolare. Sebbene abbia finalmente raggiunto l’apice della sua carriera, ottenendo nelle sue mani una macchina che consente al regime di controllare uno dei settori più delicati della nazione, dall’altro è costretto ben presto a raffreddare i bollenti spiriti: nonostante, secondo le testimonianza di chi gli era vicino in quel periodo, volesse ripetere sul campo nazionale quello che gli era così ben riuscito quando operava a Firenze alla fine, a causa di forze maggiori dovute allo scoppio del conflitto bellico, venne costretto a svolgere un compito di routine: una via di mezzo fra il capo ufficio stampa del regime e l’addetto alle pubbliche relazioni. Tuttavia, nonostante il compito che a volte si abbasserà a livelli umilianti, riuscirà a portare avanti alcune sue iniziative come la rubrica radiofonica di guerra “Commenti ai fatti del giorno” la quale, assegnata a vari giornalisti di regime, deve impostare i propri commenti secondo la seguente precisa disposizione del Ministero: “Tono virile e fede nella vittoria”.
Gli anni della guerra sono anche quelli in cui Pavolini conoscerà l’altro suo amore fino alla fine dei suoi giorni: l’attrice Doris Duranti. L’incontro è tanto tragico quanto casuale: alla fine del 1941 la città di Livorno, dove Pavolini è ospite di Ciano nella sua villa di Antignano, è colpita da un terribile bombardamento aereo. Mentre i due vagano in mezzo alle macerie dei quartieri colpiti, si incontrano e cominciano a parlare tra di loro. All’inizio la Duranti non sa chi è quest’uomo, scuro di carnagione, con gli occhi arrossati ed il volto triste che le è venuto incontro e le ha chiesto di trovarla agli studi di Tirrenia: lo verrà a sapere più tardi da suo cugino e produttore Eugenio Fontana. Sta di fatto che, una visita agli studi, poi un invito ai salotti frequentati da Pavolini fanno sicché la Duranti finisca tra le sue braccia, e che si vedano nella casa di lei, in viale Parioli 101, che Doris fa arredare in fretta, a proprie spese, per renderla più accogliente.
La relazione della Duranti con il ministro non è del tutto disinteressata. L’attrice, soprattutto il suo produttore Fontana, ne traggono notevoli vantaggi: a Cinecittà infatti il loro potere contrattuale è aumentato, lasciando ampia libertà all’attrice su quali film scegliere per i suoi ruoli. Ciò, ovviamente, crea delle invidie verso i suoi colleghi e ben presto da tale luogo partono le prime lettere anonime contro il Ministro della Cultura Popolare, Il quale alla fine riesce a zittire tutta la faccenda con il benestare di Mussolini.

La bellezza è nell’azione…

Il 1943 è l’anno in cui, per Pavolini, crolla tutto un mondo: a gennaio di quell’anno l’ottava armata di Montgomery è entrata a Tripoli e le truppe dell’asse continuano a ritirarsi sconfinando in Tunisia. I bombardamenti continuano, in tutto il territorio nazionale, a susseguirsi incontrando la minima resistenza. Proprio per cercare di respirare un po’ d’aria cercando di contenere il pessimismo degli italiani Mussolini chiama a governo uomini nuovi. Il 6 febbraio, infatti, cadono tutte le teste del circolo Ciano, Pavolini incluso. Trovatosi improvvisamente disoccupato, gli lasciano come contentino la direzione del Messaggero. Passare da ministro a direttore di un giornale, sotto un regime, può sembrare una punizione, considerando anche che dentro le sale del Gran Consiglio del Fascismo si sta respirando un aria tutt’altro che buona. Tuttavia, anche come direttore, Pavolini lascia uscire fuori tutta la sua intransigenza, scrivendo articoli in difesa del regime. Nel pomeriggio di domenica 25, il direttore del “Messaggero”, dopo aver telefonato la sera prima all’attrice Duranti per farle sapere cosa sta accadendo nel Gran Consiglio, torna in redazione. Nella tarda serata, quando ancora non è stata diffusa la notizia dell’arresto di Mussolini, Pavolini incontra Zenone Bernini, che lo informa su ciò che sta accadendo. La reazione di Pavolini è violenta tanto improvvisa: “Mitra! Mitra!“ urla, “Alla macchia!” e scompare nella notte.
Quando, alle 22,45, la radio annuncia le dimissioni di Mussolini e la costituzione del governo Badoglio la città si riversa sulle strade distruggendo le sedi del Partito Fascista e prendendosela con quelli che ancora hanno il distintivo all’occhiello. Perfino la sede del Messaggero rischia di essere devastata, a causa di un assalto da un folto gruppo di persone alla ricerca di Pavolini: si calmeranno soltanto quando alcuni scrittori e giornalisti li assicurano che i fascisti sono già scappati. Ma Pavolini dov’è? Dopo essere tornato a casa dalla moglie ed essersi spostato a casa di uno zio di lei, a via Aldrovandi, ha fatto un paio di chiamate alle quattro del mattino agli amici Gomez e Augusto Fantechi, che lo accompagnano in casa di Pierfrancesco Nistri, a via Tre Madonne 12. Qui, dopo essersi tagliato i baffi per rendersi meno riconoscibile, decide di prendere contatto con l’ambasciata tedesca nonostante gli amici lo desistano dal farlo. Arrivato all’ambasciata la sera del 27, il giorno dopo lascerà Roma con un aereo tedesco che decolla da Ciampino.
Arrivato in Germania, l’ex direttore del Messaggero si trova, con suo disappunto, costretto ad un esilio in un albergo di Koenisberg, nella Prussia orientale, nel quale sono ospiti, oltre a lui, Vittorio Mussolini, Roberto Farinacci, Renato Ricci e Giovanni Preziosi: tutte persone che i tedeschi sono riusciti a racimolare nell’ultima ora con l’intenzione di formare un governo non appena si fosse liberato Mussolini. Il ritardo dovuto alla non facile localizzazione di Mussolini e l’armistizio dell’otto settembre creerà non poca impazienza tra i gerarchi temporaneamente esiliati, tant’è vero che la tensione sarà sempre a livelli alti poiché tutti aspirano a diventare il nuovo Quisling Italiano. Ed è proprio durante tale periodo che Pavolini farà nascere una sua idea personale di fascismo: quello del 1919 – 1921, sansepolcrista, di sinistra, legato più che mai alle tematiche sociali e corporative che sono state fatte solo in parte, a causa dell’ostruzione di coloro che hanno tradito il regime: gli industriali, i ricchi, i borghesi. Un azzeramento totale, insomma, che si può ben definire nel motto che dirà più avanti “camerati, si ricomincia. Siamo sempre quelli del 21”.
La liberazione del Duce da parte dei paracadutisti cappeggiati da Kurt Student ed Otto Skorzeny farà in modo che, dal punto di vista di Pavolini, tale idea possa diventare realtà: arrivato a Rastemburg la sera del 14, dopo un incontro titubante con i suoi gerarchi in cui apparve, con tutta evidenza, la stanchezza dovuta alla prigionia, il giorno dopo Mussolini annuncia l’intenzione di riassumere la direzione del fascismo, per poi rivolgersi a Pavolini: “Voi, sarete il segretario provvisorio del partito. Che si chiamerà partito fascista repubblicano”. Tornato a Roma con l’incarico di riaprire la sede del partito e di provvedere alla formazione del nuovo governo, una delle prime azioni che intraprende il neoeletto segretario è quello di piazzare delle mitragliatrici sul tetto di Palazzo Wedeking, a Piazza Colonna, affidando il servizio di vigilanza al gruppo dei ragazzi di Bir el Gobi, i giovanissimi volontari che avevano scritto una delle poche pagine di gloria della campagna in Africa settentrionale.
Da tale palazzo, con l’aiuto di Fernando Mezzasoma e di Francesco Barracu, comincia ad avviare le operazioni per dare vita al nuovo governo. Alla fine, dopo una settimana, la lista dei ministri è pronta il 23 settembre: oltre alle varie nomine, Pavolini aggiunge alla sua carica di segretario il rango di ministro, con la prerogativa che i decreti governativi prima di essere applicati dovranno ottenere la sua approvazione. Praticamente, tutti i poteri della neonata repubblica sono ora nelle sue mani. Alla fine di ottobre, nonostante non sia riuscito a formare un unico organismo militare, fortemente politicizzato, scontrandosi con l’idea di Graziani di un esercito apolitico, si stabilisce assieme agli altri membri del governo a Nord, mentre l’esercito, dopo il tesseramento al partito fascista repubblicano del mese successivo, comincia lentamente a ricostituirsi. Frattanto, anche il movimento partigiano comincia a farsi sentire, con i primi attacchi violenti a cui poi seguiranno rappresaglie da parte tedesca, e a cui reagisce anche Pavolini che dirama, il 5 novembre, la seguente ordinanza:
“Di fronte al ripetersi di atti proditori nei riguardi dei fascisti repubblicani per parte di elementi antinazionali al soldo del nemico, il segretario del P.F.R. ordina alle squadre del partito di procedere all’immediato arresto degli esecutori materiali o dei mandanti morali degli assassinii. Previo giudizio dei Tribunali speciali, detti esecutori o mandanti siano passati per le armi. Per mandanti morali intendo i nemici dell’Italia e del fascismo, responsabili dell’avvelenamento delle anime”.
A Novembre si dà avvio al congresso di Verona dove, fra schiamazzi e battibecchi vari dovuti alle varie aree del fascismo repubblicano, viene approvato il manifesto politico dei 18 punti, che dovrebbero essere le linee maestre del nuovo Stato, che però interessano poco o nulla, e verranno approvati acriticamente. Ciò che esce fuori da quelle sale è il comune proposito di vendetta che si riassume in un vecchio slogan fascista “qualcheduno la pagherà”.
Si arriva così al gennaio del 1944: la maggior parte dei gerarchi che hanno votato a favore dell’ordine del giorno per sfiduciare il capo del fascismo o si sono rifugiati all’estero (come Grandi, che ha trovato rifugio in Spagna) o si trovano dall’altro lato del fronte, nell’Italia del Sud. Dei diciannove gerarchi i fascisti repubblicani riescono a mettere le mani solo su sei, incluso l’ex amico di Pavolini, Galeazzo Ciano. Dopo un processo capitanato da un Tribunale Speciale, i sei richiedono la domanda di grazia che, però, non viene mai non viene mai fatta pervenire dal Duce per opera di Pavolini. Alla fine, se escluso Tullio Ciannetti, condannato a trent’anni di galera, gli altri cinque (Ciano, De Bono, Marinelli, Gottardi e Pareschi) verranno condannati a morte per fucilazione. Sebbene la storiografia ufficiale abbia condannato il Processo di Verona, essa tuttavia tende a dimenticare due fatti importanti: che se la domanda di grazia fosse stata firmata da Mussolini i tedeschi sarebbero sicuramente intervenuti per sostituirsi al plotone d’esecuzione fascista o che, probabilmente, ci avrebbero pensato gli squadristi più intransigenti che già da tempo volevano la testa dei traditori e che avevano tentato anche di assaltare il carcere. D’altro canto, sarebbe potuto accadere che la domanda poteva arrivare sì a Mussolini, ma che, cosa meno improbabile, non l’avrebbe firmata condannando così il suocero ad essere ucciso due volte.
Se escludiamo il Processo di Verona, tutto il 1944 sarà un andirivieni quotidiano per Pavolini: alla guida di una decappottabile Alfa Romeo (per ridurre il pericolo dovuto ad agguati partigiani), assieme alla sua guardia del corpo “Enzino” De Benedictis, che non lo abbandona un’istante, egli si sposta su e giù per il fronte. Ai primi di giugno, poco prima della caduta di Roma da parte degli alleati, si sposta a Firenze chiedendo al Duce di trasferirsi in Toscana per organizzare la difesa e l’eventuale esodo al Nord dei fascisti e delle loro famiglie.
Ha anche un compito molto delicato: creare gruppi di resistenza, franchi tiratori e varie attività di propaganda e di sabotaggio per il dopo: ciò avverrà dopo la caduta di Firenze quando, i quattrocento volontari cecchini di Firenze, tutti giovanissimi volontari, continueranno a combattere e a ritardare l’ingresso in città degli alleati e della polizia partigiana.
Molti di loro finiranno poi davanti al plotone d’esecuzione come descritto da Curzio Malaparte ne “La pelle”…
…I ragazzi seduti sui gradini di S. Maria Novella, la piccola folla di curiosi raccolta intorno all’obelisco, l’ufficiale partigiano a cavalcioni dello sgabello ai piedi della scalinata della chiesa, coi gomiti appoggiati sul tavolino di ferro preso a qualche caffè della piazza,la squadra di giovani partigiani della divisione comunista “ Potente “, armati di mitra e allineati sul sagrato davanti ai cadaveri distesi alla rinfusa l’uno sull’altro, parevano dipinti da Masaccio nell’intonaco dell’aria grigia. Illuminati a picco dalla luce di gesso sporco che cadeva dal cielo nuvoloso, tutti tacevano, immoti, il viso rivolto tutti dalla stessa parte. Un filo di sangue colava giù per gli scalini di marmo. I fascisti seduti sulla gradinata della chiesa erano ragazzi di quindici o sedici anni, dai capelli liberi sulla fronte alta, gli occhi neri e vivi nel lungo volto pallido. Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti, che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino. C’era anche una ragazza fra loro: giovanissima, nera d’occhi, e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s’incontra spesso in Toscana fra le donne del popolo, sedeva col viso riverso, mirando le nuvole d’estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia, quel cielo pesante e gessoso, e qua e là screpolato, simile ai cieli del Masaccio negli affreschi del Carmine. Quando avemmo udito gli spari, eravamo a metà via della Scala, presso gli Orti Oricellari. Sboccati sulla piazza, eravamo andati a fermarci ai piedi della gradinata di Santa Maria Novella, alle spalle dell’ufficiale partigiano seduto davanti al tavolino di ferro.
Al cigolio dei freni delle due jeep, l’ufficiale non si mosse, non si voltò. Ma dopo un istante tese il dito verso uno di quei ragazzi, e disse:
– Tocca a te. Come ti chiami?
– Oggi tocca a me – disse il ragazzo alzandosi – ma un giorno o l’altro toccherà a lei.
– Come ti chiami?
– Mi chiamo come mi pare…
– O che gli rispondi a fare a quel muso di bischero, gli disse un suo compagno seduto accanto a lui.
– Gli rispondo per insegnargli l’educazione, a quel coso – rispose il ragazzo, asciugandosi col dorso della mano la fronte madida di sudore. Era pallido, e gli tremavano le labbra. Ma rideva, con aria spavalda guardando fisso l’ufficiale partigiano.
A un tratto i ragazzi presero a parlar fra loro ridendo.
Parlavano con l’accento popolano di San Frediano, di Santa Croce, di Palazzolo.
L’ufficiale partigiano alzò la testa e disse:
– Fa presto. Non mi far perdere tempo. Tocca a te.
– Se gli è per non farle perdere tempo – disse il ragazzo con voce di scherno – mi sbrigo subito –
E scavalcati i compagni andò a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra, accanto al mucchio di cadaveri, proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato.
– Bada di non sporcarti le scarpe! – gli gridò uno dei suoi compagni, e tutti si misero a ridere.
– Jack e io saltammo giù dalla jeep.
– Stop! – urlò Jack.
Ma in quell’istante il ragazzo gridò: – Viva Mussolini! – e cadde crivellato di colpi.

L’eroica epopea dei franchi tiratori fece venire in mente due progetti sulla carta a Pavolini: il primo, quello di militarizzare il partito, cosa che farà il 22 giugno quando armerà gli squadristi di Lucca creando così la sua prima Brigata nera, a cui darà il nome di “Mussolini”. La seconda, che rimarrà in maggior parte sul piano teorico, quella di costituire, quando oramai si giungerà alla fine, una zona nel Nord Italia dove ammassare i fascisti per l’ultima resistenza (quello che diventerà famoso come il Ridotto Alpino Repubblicano), nel quale progetta anche di trasferirvi le ceneri di Dante e che, pertanto, “accenda le fantasie degli uomini e resti impresso nella storia”. Tale progetto, però, se verrà ultimato negli ultimi mesi del conflitto, quando ormai sarà troppo tardi, dall’altro troverà il totale distacco del capo delle forze armate Graziani e lo scetticismo dei tedeschi.
A luglio, pochi giorni dopo l’attentato alla “tana del lupo” al quale Hitler è riuscito a sfuggire miracolosamente, ottiene da Mussolini la firma per il decreto che sancirà la costituzione delle Brigate nere: è fatta, il Partito finalmente è militarizzato. Le disposizioni per le Brigate nere sono le seguenti, secondo le parole dello stesso Pavolini: “Ciascuno iscritto di età fra i 18 ed i 60 anni che non fa parte delle forze armate deve costituire il corpo ausiliario delle squadre di azione. […] Le Federazioni si trasformano in Brigate del corpo ausiliario delle Camicie Nere. […] Non ci saranno gradi, ma soltanto funzioni di comando”.
Sebbene finalmente sia riuscito a militarizzare il partito, la realtà e che le brigate nere saranno composte da un po’ di tutto: da soldati perfettamente disciplinati, a buonisti, fino a canaglie della peggiore specie tant’è vero che, a gennaio del 1945, Pavolini viene convocato al comando delle SS a Maderno dove il capo delle SS in Italia Wolff accusa le sue Brigate nere di eccessi inauditi, comportandosi come dei criminali e, pertanto chiudendo il rubinetto della benzina da parte tedesca. In realtà, Wolff aveva da qualche giorno iniziato in Svizzera le trattative segrete con gli alleati per preparare la resa delle truppe tedesche in Italia.
Tra la metà del 1944 e la fine dell’anno Pavolini ormai, è diventato un completo stakanovista. Partecipa ad un azione di guerra nelle alpi piemontesi, rimanendo ferito al fondoschiena e ottenendo la medaglia da ferito di guerra tedesco. Non ancora ristabilitosi, a metà ottobre partecipa in Valdossola alle operazioni combinate fra i vari reparti dell’esercito repubblicano e quello tedesco per smantellare la piccola repubblica che i partigiani vi avevano costituito nell’estate. A metà dicembre Mussolini torna a Milano per la prima volta dopo il 25 luglio, venendo accolta da una folla incredibilmente numerosa. I giorni 16, 17 e 18 dicembre sono per i fascisti una boccata d’aria, con il Duce che sembra aver ritrovato lo spirito di un tempo, immergendosi in questo salutare bagno di folla e facendo il suo famoso discorso al teatro lirico della città. Il 1945 inizia, tuttavia, nel peggiore dei modi: poiché Mussolini vuole inviare un messaggio di solidarietà nelle provincie orientali, annesse contro la volontà del governo repubblicano alla Germania, incarica di tale missione il comandante delle Brigate nere: il viaggio sarà pieno di rabbia ed umiliazioni, con le autorità germaniche che gli fanno chiaramente capire che non gradiscono la sua visita, impedendogli di entrare a Pola per motivi dovuti alla “sicurezza militare”, mentre invece a Fiume per poco i fascisti che lo scortano non aprono il fuoco contro i tedeschi. Inoltre, dopo il suo ritorno a Maderno, il capitano Wolff gli ha annunciato che avrebbe tagliato viveri e benzina alle sue brigate nere.
Si arriva, così, alle 19 del 25 aprile 1945: Mussolini, dopo non aver trovato alcun accordo con i capi partigiani nella dimora del cardinale Schuster, decide di avviarsi per il ridotto della Valtellina progettato da Pavolini. Per tutto il giorno è il caos generale tra i corridoi affollati della prefettura milanese di corso Monforte e la sede del partito di via Mozart, ad essa collegata. Solo in serata si decide sul da farsi: Mussolini partirà con pochi intimi per raggiungere Como, mentre invece Pavolini lascerà Milano poche ore dopo con più di quattromila militi per andare anch’egli alla stessa meta.
E la Duranti, l’amante di Pavolini? Che fine ha fatto? Dopo il trasferimento al Nord dei fascisti, l’attrice si era spostata all’Hotel Excelsior di Firenze. Qui, sebbene conducesse una vita tranquilla, si ritrovò un giorno presa da alcuni soldati delle SS, che la portarono con brutalità alla sede della Gestapo, e sebbene la Duranti nelle sue memorie non scenda nei particolari (si sa solo che venne costretta, con la forza, a spogliarsi), verrà dopo l’interrogatorio rinchiusa nel carcere di Santa Veridiana con altre venti persone, tutte destinate ai campi di concentramento. Solo dopo tre giorni Pavolini riuscirà, con non poche difficoltà, ad ottenere il suo rilascio. Dopo la liberazione di Firenze, Doris si trasferisce a Venezia, per poi spostarsi a villa Sucottina, fra Moltrasio e Cernobbio. La sera del 24 aprile lascia la villa assieme al cugino per attraversare il confine Svizzero. Qui verrà riconosciuta da un infermiere svizzero nella clinica in cui è ricoverato il suo parente stretto per un attacco di cuore. Presi dalla polizia svizzera, alla fine la Duranti sarà costretta a sposare il capitano che l’ha presa in custodia, Luciano Pagani, per poi scaricarlo anni dopo quando la Duranti se ne andrà in Brasile.
Tornando ad Alessandro: dopo aver trovato, attraverso un’affannosa ricerca, automezzi, benzina, armi e viveri, all’alba del 26 aprile la “colonna Pavolini” è pronta a partire. Arrivati alla periferia di Como, verso le 8 di quel mattino, Pavolini e Costa vengono a sapere a Camerlata da Mario Bassi, capo della provincia di Milano, che il Duce quella stessa mattina era partito da Como verso la strada per Dongo. Dopo aver passato le consegne al suo vice, Pino Romualdi, egli assunse il comando di una colonna formata da due camion di Fiamme Bianche, tre autocarri con uomini della Brigata di Lucca, della Brigata nera “Mussolini” e di una gigantesca autoblindo nella quale si trovava il federale Idreno Utimpergher, comandante della formazione lucchese. Raggiunto Mussolini a Menaggio, Pavolini cerca inutilmente di indurlo a tornare indietro per riunirsi ai suoi fedeli che si erano riuniti a Como. Alla fine si arriva ad un compromesso: il segretario del partito fascista repubblicano avrebbe seguito la colonna del Duce e Mussolini, superato Dongo e Colico, avrebbe lasciato aperta la possibilità di dirottare verso la “ridotta” della Valtellina.
Arrivati all’altezza dell’abitato di Musso, la colonna, formata anche da sei camion della Flak con duecento tedeschi, venne fermata da partigiani della cinquantaduesima Brigata Garibaldi, comandanti dal conte Pier Luigi Bellini detto Pedro. Dopo una breve sparatoria tra le due parti, si cerca di arrivare ad una trattativa per passare e, verso le 13, il tenente Fallmeyer tornò dicendo che i partigiani erano disposti a consentire il transito ai tedeschi, ma non agli italiani. Sarà la fine per la colonna italiana: mentre Mussolini, su consiglio del tenente tedesco, si travestirà da soldato germanico nel tentativo di fuggire, Pavolini e gli altri gerarchi cercheranno di fare dietrofront dai loro veicoli per tentare di tornare sui loro passi. A causa di una maldestra manovra del guidatore dell’autoblindo dove si trova Pavolini, Chiavacci, che farà credere ai partigiani che i fascisti stanno attaccando, si aprirà un violento scontro a fuoco nel quale il poeta armato si butterà in mezzo alle acque del lago, per poi affiorare da un gruppo di scogli. Da questa specie di fortilizio, riprenderà a sparare, nonostante rimanga ferito da un colpo di fucile da caccia. Alla fine, per catturarlo, i partigiani aspettano il calare della sere, prendendolo con una barca e trovandolo con l’acqua alla cintola, semiassiderato dal freddo.
Trasportato a Dongo, Pavolini viene condotto nel municipio trasformato in prigione provvisoria ed affidato alla cure del farmacista Franco Mancini. Nonostante venga curato per le ferite riportate, soffre ancora per la lunga immersione nelle acque gelide. Per curarlo, lo riempiono di cognac. Il giorno dopo, nel pomeriggio tardi, verso le 17,30, i prigionieri vengono condannati a morte su ordine del comandante Valerio sopraggiunto da Milano, e portati in fila indiana verso il luogo fissato per l’esecuzione. Qui, ad eccezione di Bombacci, Pavolini e gli altri grideranno “Viva l’Italia” per poi essere colpiti mortalmente dalle raffiche di mitra del plotone di esecuzione. Secondo le testimonianze dei presenti, uno dei colpiti avvolto in un impermeabile insanguinato si rialzò lentamente pretendendo in avanti il braccio destro, per poi essere abbattuto nuovamente con una scarica di mitra. Trasportato con le altre salme a Milano, il cadavere di Pavolini rimarrà esposto a Piazzale Loreto assieme a quello degli altri gerarchi, della Petacci e di Mussolini.
Una fine tragica per un uomo che da poeta era diventato uno degli ultimi irriducibili del fascismo.

TRATTO DA:
https://www.facebook.com/fascismoimmensoerosso/photos/a.478309392371554.1073741827.478276162374877/596729140529578/?type=3&theater

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