martedì 5 aprile 2016

Socializzazione: l’Italia ha ancora bisogno della “nobile impresa”



«La socializzazione, ardito progetto di un socialismo proiettato al futuro, presuppone una educazione profonda ed una coscienza saldissima delle classi sociali, le quali si rendono conto di agire e lavorare per lo stesso obiettivo: il miglioramento economico e sociale del popolo tutto e di rimando di ogni singolo cittadino»: semplici parole che descrivono la collaborazione di classe fulcro della socializzazione delle imprese. Questa teoria rivoluzionaria, messa in pratica nelle tragiche ore finali del fascismo, viene descritta con dovizia di particolari nell’opera La nobile impresa, di Gianluca Passera, libro che costituisce una perla rara nel panorama economico e culturale italiano.
L’autore, giovane studioso e sindacalista, ci accompagna in un lungo excursus storico nel cuore delle teorie partecipative e sociali che hanno caratterizzato la scena del nostro paese (e non solo). Partendo dalle encicliche cattoliche Rerum Novarum e Quadrigerismo annotutti i passaggi salienti dei primi del Novecento vengono richiamati: il sindacalismo rivoluzionario, la repubblica di Weimar, La Carta del Carnaro,
l’«occupazione produttiva» di Dalmine nel 1919. Una serie di istanze tese a fare del lavoro il soggetto dell’attività statale, che confluiscono in diversa misura nel fascismo, il quale inizia un’opera importante: «Dal 1922 al 1943 l’Italia fu trasformata in un vasto campo sperimentale umano, dove il Partito fascista cercò di attuare un progetto di società gerarchica, militarizzata, per integrare gli individui e le classi in uno stato nuovo totalitario con fini di potenza ed espansione», scrive Passera. Parole che colgono nel segno, dimostrando come il movimento mussoliniano riesca a costruire gradualmente una società sempre meno inquinata dall’individualismo e dal materialismo.

La legge sindacale n.563 del 1926, il contratto collettivo, la Carta del Lavoro, le corporazioni del 1934 sono alcuni passaggi salienti in questa direzione, volti a porre i datori e i lavoratori sullo stesso piano in nome dell’interesse nazionale. Non più classi sociali determinate su base economica ma classi basate sulle competenze tecniche, aiutate da uno Stato autoritario non facilmente ricattabile dalle leggi del mercato. Merito di Passera sostanziare le sue affermazioni forti con dei precisi riferimenti al dibattito storico e a documenti e riviste dell’epoca («Diritto del Lavoro» in primis), operando in più utili confronti con la situazione attuale, dove al contrario prevale l’interesse di lobby e i lavoratori e i sindacati sono esclusi da qualsiasi partecipazione attiva e consapevole alla vita della loro impresa e della nazione.

Di estremo interesse si rivela anche l’analisi del Codice Civile del 1942, che pone le basi per la «socializzazione economica del tessuto produttivo» italiano. Queste fondamenta saranno proprio quelle che, in stretta linea di continuità col ventennio, daranno vita alla socializzazione delle imprese della Repubblica Sociale Italiana, l’ultimo messaggio di civiltà dell’idea fascista. Lo spirito corporativo entra nell’impresa grazie ai Consigli di Gestione, come scrive l’autore: «la socializzazione è un momento stesso del corporativismo: l’idea basilare del corporativismo è quella di tenere uniti (anche se gerarchicamente subordinati) capitale e lavoro, facendoli collaborare, il passo successivo è materializzare il corporativismo nell’azienda, ponendo sullo stesso piano i due soggetti dell’economia e responsabilizzandoli entrambi nei confronti del tessuto sociale e industriale». Grandi industrie come la FIAT vengono socializzate, il capitale puramente speculativo viene estromesso dalla gestione delle aziende e non serve qui dilungarsi su quanto questo passaggio risulti ancora attuale.

Le “mine sociali” volute da Mussolini non scompaiono totalmente con la fine del fascismo: l’art. 46 della Costituzione, che parla di partecipazione, ne è il primo esempio. Anche i Consigli di Gestione sopravvivono per un breve periodo, finendo al centro di aspri dibattiti politici richiamati con dovizia di particolari da Passera. Ma il ritorno della vecchia mentalità “dualistica” e anticomunitaria rovina tutto: comunisti e democristiani guardano all’interesse di parte travisando il senso della legislazione sociale e previdenziale del fascismo. Non a caso, i primi provvedimenti dei “liberatori” furono proprio quelli volti a cancellare le istituzioni corporative e le riforme socializzatrici. Il libro entra nel dettaglio di tutti questi eventi, fino ad arrivare alla situazione odierna, passando per esperienze significative come l’Olivetti (in incredibile sintonia con lo spirito socializzatore) e “il modello tedesco”. L’analisi dedicata ai nostri giorni accompagna robuste considerazioni critiche a molte proposte degne di nota, in cui emerge la competenza di chi all’elaborazione teorica accompagna un concreto lavoro quotidiano. Passera ricorda che in alcune direttive europee e persino nella tanto vituperata Legge Fornero sono presenti degli spazi dedicati alla partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa o all’azionariato operaio, rimasti lettera morta anche per colpa nostra (cioè del popolo italiano). Se il capitale cerca solo il proprio interesse e reputa il lavoro una merce, dall’altra parte sindacati e lavoratori si sono troppo spesso arroccati nella sterile rivendicazione di classe e nell’incapacità di partecipare, approfondire, migliorare, rifuggendo ogni tipo di responsabilità e risultando quindi parimenti colpevoli dello sfacelo attuale. In definitiva, alla luce delle ardite quanto lucide interpretazioni dell’autore, la socializzazione emerge come una “nobile impresa” profondamente italiana ma soprattutto necessaria per uscire dall’attuale crisi del sistema.


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