La storia spesso simboleggia la produzione di eventi che hanno potenziali di trasformazione e che introducono nel futuro: ciò è come uno schema temporale, evidenziato dal significante di storia, che connette il passato, il presente e il futuro.
E così come fanno le superpotenze di oggi anche ieri era
lo stesso: il “contegno non servile” (come lo definirà Benedetto Croce) di
Ferdinando II nella Questione degli Zolfi del 1840 divenne una minaccia
tangibile per gli interessi commerciali britannici ed il pacifico Regno delle
Due Sicilie divenne uno Stato Canaglia! Così dalla Sicilia, partì la strategia
destabilizzatrice di Londra ai danni di Ferdinando II e del suo regno.
L’isola
era un avamposto militare strategico a presidio delle rotte commerciali
inglesi, già sede di numerose attività commerciali britanniche, infatti diverse
le famiglie inglesi vi si erano trasferite durante il protettorato britannico
(che durò dal 1811 al 1815), costruendo in loco una rete imprenditoriale che
smistava quantità di denaro significative. È il caso dei Whitaker, che facevano
girare dai 4 ai 5 milioni di lire annue, ma anche dei Woodhouse e degli Ingham.
In vista della realizzazione del Canale di Suez, i porti dell’Italia
meridionale sarebbero stati indispensabili per il commercio delle materie prime
e non avrebbero di certo potuto rimanere nelle mani di un governo ostile.
Era
necessario mettere la Sicilia contro il governo di Napoli, approfittando
dell’odio popolare contro i baroni latifondisti, vicini al Re, creando delle
‘rivoluzioni guidate’ nell’isola che portassero alla destituzione delle
autorità borboniche: ne sarebbe nato uno stato-satellite, che avrebbe mostrato
fedeltà alle direttive di Londra e indebolito il governo di Napoli. (Un
procedimento simile a quello usato di recente in Libia, alimentando la
contrapposizione tra Tripoli e Bengasi).
In quest’ottica si può spiegare la
‘rivoluzione costituzionale’ di Palermo del 1848, impossibile senza i carichi
di armi inviate ai rivoltosi dall’esercito inglese, come testimoniato anche
dalla lettera scritta a Palmerston dal Governatore di Malta. Il 13 aprile 1848,
infatti, il nuovo General Parlamento creato dagli insorti dichiarò decaduta la
monarchia borbonica.
Il colpo di stato del 1848 fu sostanzialmente organizzato
e centrato a Palermo. La natura nobiliare della rivolta, appoggiata dalla
Francia e dall'Inghilterra, era evidente nell'organizzazione, infatti manifesti
e volantini vennero distribuiti tre giorni prima degli atti rivoluzionari veri
e propri. Essa prese inizio il 12 gennaio sotto la guida di Rosolino Pilo e
Giuseppe La Masa. Il tempo d'inizio fu deliberatamente scelto affinché coincidesse
con il compleanno di Ferdinando II delle Due Sicilie, essendo egli stesso nato
a Palermo nel 1810 durante il periodo di occupazione napoleonica del Regno di
Napoli.
L’appoggio di Londra ai ‘rivoluzionari’ siculi, sebbene noto agli
ambienti diplomatici, non era però ufficiale e così Palmerston pensò bene di
ricattare il neonato governo costituzionale di Palermo, in cerca di un principe
italiano disposto a prendere lo scettro dell’isola.
L’avvallo ‘ufficiale’
d’oltremanica al cambio di regime sarebbe giunto solo previo affidamento della
carica regia ad un membro di casa Savoia. Una famiglia dinastica ben lontana
dalle vicende sicule, che non conosceva l’isola, radicata in una regione di
confine tra la Francia e il Piemonte, ma che aveva acquisito la corona della
vicina Sardegna nel 1720. Ma il 27 agosto, 3 mesi dopo il colpo di stato,
Ferdinando riuscirà a riprendere la città.
Ma il ritorno del sovrano diede
nuova linfa alla campagna di stampa anti-borbonica, che passò alla fase
successiva: la demonizzazione del nemico. “Mostro coronato”, “Nerone del
Sebeto”,“Tigre borbonica”, “Caligola di Napoli”, furono gli appellativi
denigratori usati contro Ferdinando II, ma soprattutto “Re Bomba”con
riferimento al presunto bombardamento di Messina nel settembre del 1848, e le
conseguenti ovvie proteste di Francia, Russia, Stati Uniti d'America e altri
paesi. In realtà, l'appellativo gli fu cucito addosso già prima, quando, nel
febbraio dello stesso anno, l’esercito borbonico sparò diversi colpi per
spaventare gli insorti palermitani e costringerli ad arrendersi, come
registrava lo storico Harold Acton. In quell’occasione non vi fu nessuna strage
e i civili stessi furono messi al sicuro a Palazzo Normanno dal settimo
reggimento borbonico, prima dell’operazione. Sempre Acton ci fornisce una
descrizione dei fatti di Messina: i rivoltosi, durante l’assedio del 3
settembre, avrebbero aperto il fuoco contro un vapore napoletano in mare,
scatenandone la risposta. Alcuni colpi finirono nei pressi del centro abitato,
ma non si trattò affatto di “bombardamento borbonico”. Diverso sarebbe stato,
invece, il trattamento mediatico riservato l’anno successivo a Vittorio
Emanuele II durante la rivolta di Genova. Il 3 marzo del ’49, la ribellione dei
genovesi al governo sabaudo sarebbe costata 500 vittime civili, ma l’evento non
intaccherà l’appellativo di “Re galantuomo” gratuitamente concessogli dalla
stampa europea.
Una diversità di trattamento, quella riservata ai due sovrani,
che, unita alla richiesta di Palmerston di cedere ai Savoia lo scettro della
Sicilia, è una spia evidente delle preferenze di Londra per la monarchia
sabauda. Preferenze che peseranno non poco nella storia d’Italia.
Lo stato
sabaudo era la “personificazione dello stato liberale” per Palmerston, che il
21 maggio 1852 ricorda i “grandi interessi politici e commerciali che ha
l’Inghilterra per la conservazione dell’indipendenza della Monarchia sarda e
della sua prosperità”. Il Regno di Sardegna è lo Stato perfetto per la Corona
britannica: monarchia costituzionale e governo liberale, con una politica
economica liberista ed una politica estera filo-britannica.
Ma anche
filo-francese. Il 15 agosto 1853, infatti, il duca di Guiche, inviato francese
a Torino, scrive al suo Ministro degli Esteri Thouvenel che in Piemonte “il
governo è parlamentare e costituzionale solo in apparenza, in realtà è una
macchina difficile a definire ma i cui ingranaggi obbediranno sempre al
ministro di Francia se questi vuole darsene la pena e fare uso delle forme”.
Per i governi di Londra e Parigi, dunque, un modello da esportare in tutta la
penisola italiana. Così le ostilità tra Napoli e Londra crescono al punto che
il Times chiede a gran voce al governo britannico di intraprendere un’azione
mirata contro il Regno delle Due Sicilie, definito “un Giappone mediterraneo
posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia”, la
cui politica non era più tollerabile dal governo britannico. (Toni che
ricordano quelli dei giornali occidentali contro gli ‘stati canaglia’ di oggi:
Iraq, Afghanistan, Libia, Iran, Venezuela, Russia, Siria).
Palmerston prese
immediatamente la palla al balzo e si fece carico di tradurre in azione le
richieste del Times, che rispecchiavano, a suo avviso, la volontà dell’opinione
pubblica. Se la spedizione non ebbe luogo, fu solo per la contrarietà della
Regina Vittoria, ma la sintonia e la collaborazione tra la stampa e il governo
di Londra la dice lunga sulla funzionalità al potere dei mezzi di
comunicazione.
Ma contemporaneamente anche nei vari stati peninsulari il
giornalismo salariato tesseva le lodi dell’unica monarchia costituzionale
d’Italia, contrapposta all’assolutismo dei Borboni, dei Lorena, degli Asburgo e
alla teocrazia pontificia.
Così la Gazzetta del Popolo del 1° gennaio 1853:
“L’Inghilterra riconosce di dovere la sua grande felicità, cioè la sua
ricchezza, la sua potenza, la sua moralità alle istituzioni costituzionali;
resta sottinteso per contro che i paesi dispotici così miserabili, come gli
stati papeschi p. es., devono al despotismo la vergognosa loro inferiorità.”
Così il 7 agosto 1855, di fronte alla Camera dei Comuni, Palmerston sferra un
attacco frontale al regno borbonico, che “aveva dimostrato sfrontatamente la
sua ostilità alla Francia e all’Inghilterra vietando l’esportazione di merci
che il suo stato di neutrale gli avrebbe consentito tranquillamente di
continuare a trafficare”. Una “palese violazione del diritto internazionale”,
tanto più grave perché “perpetrata da un governo che si era macchiato di atti
di crudeltà e di oppressione verso il suo popolo, assolutamente incompatibili
con i progressi della civiltà europea”. Non importa se gli “atti di crudeltà”
borbonici non siano mai stati confermati, anzi smentiti (come le lettere di
Gladstone), né se fosse stata proprio Londra ad armare i rivoluzionari
siciliani. (Come non importerà, centocinquant’anni dopo, se Gheddafi avesse
veramente bombardato manifestazioni pacifiche di suoi cittadini, fatto smentito
dalle rilevazioni satellitari russe; né creato fosse comuni, le foto mostrate erano
quelle del cimitero di Tripoli; né assoldato mercenari, come ammesso anche da
Amnesty International).
La Storia è scritta dai vincitori, con buona pace dei
Gheddafi e dei Francesco II.
Il Regno delle Due Sicilie era diventato
ufficialmente uno ‘stato-canaglia’ e aveva bisogno di una lezione, ma non l'
intervento ‘diretto’ di Londra, ma attraverso il Piemonte, debitore della City:
una nazione indebitata non è una nazione libera. Non potendo più privatizzare
nulla per ripagare parte del debito contratto, per il governo sabaudo era
necessario invadere stati sovrani dal Tesoro prospero, come le Due Sicilie, lo
Stato Pontificio, i granducati di Toscana, Modena, Parma. Se la sovranità della
moneta è nelle mani di banche private, che la emettono a debito, la produzione
di altro debito (e il conseguente moltiplicarsi degli interessi) è l’unico modo
che un governo possieda per rifinanziarsi.
Un circolo vizioso, che rende il
debito impagabile sin dalla sua contrazione iniziale, perché il suo pagamento
presuppone una quantità di denaro aggiuntiva (l’interesse) di cui lo stato non
dispone.
Così, come nel Mercante di Venezia di Shakespeare, il debitore che non
può pagare si trova nelle mani del creditore, che può disporne come vuole.
L’eliminazione di stati sovrani economicamente e politicamente indipendenti
dagli influssi d’oltremanica e oltralpe, significò non solo l’eliminazione di
potenziali nemici, ma l’estensione in tutta Italia del modello economico
piemontese.
Il Piemonte era, non solo l’unico stato completamente nelle mani
dei banchieri inglesi, ma anche l’unico ad essersi quasi privato del tallone
aureo per l’emissione della moneta.
La Banca Nazionale degli Stati Sardi,
creata nel 1848 e di proprietà privata, aveva una riserva aurea di 20 milioni
di lire, ma emetteva tre lire di carta ogni lira d’oro.
Già prima del 1861
l’oro non era più sufficiente: troppe le spese di guerra. Nel 1866 verrà quindi
introdotto il corso forzoso, ma sarà l’ufficializzazione di un’abitudine ormai
consolidata.
Se il Piemonte avesse rispettato la propria copertura aurea, certo
non avrebbe potuto disporre della liquidità necessaria per muovere guerra al
resto d’Italia e, nello stesso tempo, non avrebbe potuto espandere così tanto
il suo debito pubblico.
Una situazione simile a quella in cui si trovano oggi
gli Stati Uniti, che facendo stampare denaro-debito senza copertura aurea dalla
Federal Reserve (privata), si ritrovano con il più grande debito pubblico al
mondo e con un bilancio gravato dalle maggiori spese militari della storia. Un
ruolo, il loro, simile a quello del Piemonte di allora nella penisola italiana,
cioè di poliziotto internazionale per conto terzi.
(continua)
(continua)
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