domenica 23 agosto 2015

IL GENOCIDIO FISICO E CULTURALE DEGLI INDIGENI AMERICANI



Da Cristoforo Colombo al Generale Sherman, da Cape Cod all’Oceano Pacifico, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, nessuno poté impedire che si compisse la volontà di conquista degli uomini bianchi. Chiunque si trovasse sul loro cammino avrebbe dovuto trasferirsi altrove. Chiunque si fosse opposto sarebbe stato eliminato, con ogni mezzo. E così fu. Così è ancora. Il genocidio dei popoli indigeni delle Americhe, iniziato nel 1492, non è cessato. Le malattie ancora minacciano i pochi piccoli popoli “incontattati” che, con sempre maggiore difficoltà, si nascondono dai bianchi nelle foreste amazzoniche. Lo sfruttamento minerario, la costruzione di grandi dighe, la deforestazione e il depauperamento delle risorse idriche distruggono gli ultimi territori tribali e gli stili di vita dei popoli indigeni, sopravvissuti a cinquecentoventi anni di conquista. E’ in atto un genocidio culturale che, se non fermato, annienterà la diversità culturale dell’umanità e farà scomparire conoscenze, saperi e lingue millenarie. La tragedia degli indigeni americani è trattata in questo capitolo da Massimiliano Galanti, ravennate. Da circa trent’anni si occupa di diritti dei popoli indigeni. Dal 1995 è membro del Comitato Direttivo dell’Associazione IL CERCHIO – Coordinamento Nazionale di Sostegno ai Nativi Americani. Essa collabora con organizzazioni e persone indigene nella difesa dei diritti dell’uomo e dei popoli indigeni ed ha fondato, insieme ad altre associazioni, il Comitato 11 ottobre (la scelta di questa data vuole ricordare, in modo simbolico, l’ultimo giorno di libertà dei popoli indigeni americani, nella speranza che il cerchio spezzato si possa ricomporre per le generazioni future), che ha in corso una campagna per l’istituzione di una Giornata della Memoria del Genocidio dei Popoli Indigeni e per chiedere al Parlamento italiano di ratificare la Convenzione ILO 169
(P. Totaro)


Quando le tre caravelle di Cristoforo Colombo salparono da Palos, la Spagna che si lasciavano alle spalle era una terra violenta, sotto il tallone dell’Inquisizione, percorsa da epidemie di peste e vaiolo, soggetta a ripetuti attacchi di morbillo, influenza, tifo ed altre malattie che, quando colpivano, uccidevano facilmente fra il dieci ed il venti per cento della popolazione.
Il resto d’Europa non era molto diverso. Ogni venticinque o trent’anni, in pratica ogni generazione, le città erano sconvolte da un’epidemia.
Le carestie nelle campagne completavano l’opera.
Quando nelle campagne si cominciava a morire di fame, più spesso di quanto non si pensi, le persone cercavano rifugio e cibo nelle città dove, in un ciclo perverso, il sovraffollamento e le spaventose condizioni igieniche provocavano, a loro volta, nuove epidemie.
Le guerre facevano il resto.
Le persecuzioni e i roghi cui erano condannati i cosiddetti seguaci di Satana (presunte streghe e fattucchiere, oppositori politici e religiosi, ebrei ed eretici) erano parte del paesaggio europeo della fine del ‘400.
In Spagna, mentre Colombo si apprestava a salpare, almeno 120.000 ebrei furono deportati su ordine dei “cattolicissimi” sovrani del Regno.
La Spagna, da pochi mesi unificata con la cacciata dei mori dal Regno di Granada, era uno dei nuovi stati nazionali moderni, così come Francia, Inghilterra e Portogallo, dove il due per cento della popolazione possedeva il novantacinque per cento della terra.
Questo era il mondo che Cristoforo Colombo “esportò” nelle Americhe.
In ogni isola che visitò, Colombo piantò una croce “facendo le dichiarazioni necessarie” per proclamare il possesso di quelle terre in nome dei sovrani spagnoli.
Nel 1514, per premunirsi contro possibili contestazioni giuridiche delle potenze concorrenti, una Legge Reale ordinò che, prima che le ostilità potessero essere intraprese contro una popolazione autoctona, tutti gli spagnoli che incontravano gli indigeni dove- vano leggere loro una dichiarazione, il cosiddetto “requierimento”, che significa intimazione o richiesta.
Scopo del requierimento era informare gli indigeni sulla verità della religione cristiana e della necessità di dichiarare la loro sottomissione alla Corona di Spagna e fedeltà al Papa.
Se, per qualsiasi motivo, gli indigeni rifiutavano o indugiavano a rispondere, cioè sempre, poiché non comprendevano quanto era loro detto in spagnolo o in latino, l’intimazione continuava con questa formula:
“Dichiaro che, con l’aiuto di Dio, entreremo con tutte le forze nel vostro paese, combatteremo contro di voi in tutti i modi e vi sottometteremo al giogo ed all’obbedienza dovuti alla Chiesa e alla Corona. Prenderemo voi, le vostre mogli e i vostri bambini e vi renderemo schiavi e, in quanto tali, vi venderemo e disporremo di voi secondo il volere della Corona. E prenderemo ciò che possedete, vi arrecheremo ogni offesa e danno possibile come ai servi che non obbediscono, rifiutano di ricevere gli ordini del loro signore, gli oppongono resistenza e lo contraddicono”. Niente di quanto era minacciato era più facile a farsi per gli spagnoli che, avvezzi a queste pratiche a casa propria, non si posero alcun limite con i “selvaggi”.
Del resto, ben prima che il requierimento entrasse in vigore, Colombo stesso aveva catturato e rapito uomini e donne indigene, riempiendo le sue navi di esemplari umani da mostrare nelle città spagnole come fossero animali esotici.
Più che sulla spietata brutalità e sulle armi, tuttavia, i conquistatori poterono contare su un alleato ben più terribile.
Nel suo secondo viaggio Colombo arrivò nelle Americhe con diciassette navi su cui erano state caricate circa milleduecento persone oltre a capre, pecore e maiali.
Poco dopo lo sbarco su Hispaniola, l’equipaggio cominciò ad ammalarsi e i nativi a morire a migliaia.
Le ipotesi più recenti indicano nell’influenza suina la causa della strage d’indigeni. Il grande genocidio era iniziato.
Gli indiani del centro e sud America ebbero una diminuzione del 90% mentre la popolazione indigena del nord subì una riduzione del 97,5%. Ciò significa che, in poco meno di quattrocento anni, circa il 15% della popolazione mondiale fu sterminata. Da Hispaniola l’epidemia passò poi nel Messico e attraversò tutti i territori indigeni provocando analoghe devastazioni. Il vaiolo arrivò in nord America nel 1520 dove divenne il principale agente di morte per gli indiani e avrebbe continuato per tre secoli a flagellare tutte le tribù dell’area. Gli indiani nord-americani coinvolti nelle prime epidemie di vaiolo ebbero un tasso mortalità del 75%.
Spesso le epidemie erano trasmesse da indiani a indiani e passavano di tribù in tribù molto più velocemente di quanto potessero fare esploratori, missionari e cacciatori di schiavi.
Le malattie seguivano gli spagnoli che, gradualmente, estendevano le loro esplorazioni verso nord e colpirono anche il Texas, quando Alvaro Núnez Cabeza de Vaca naufragò sulle sue coste nel 1528. Hernando de Soto, uno dei primi spagnoli a investire nel nascente mercato degli schiavi indiani, sbarcò con il suo esercito privato vicino a Tampa Bay, in Florida, il 30 maggio 1539.
Aveva con se duecento uomini a cavallo, seicento soldati e un branco di maiali.
Per quattro anni, cercando l’oro, de Soto vagò attraverso i territori che ora sono conosciuti come Florida, Georgia, Nord e Sud Carolina, Tennessee, Alabama, Mississippi, Arkansas e Texas, distruggendo tutto ciò che incontrava.
De Soto attraversò: “un paesaggio di boschi e vallate fluviali intensamente coltivate ... con vasti campi di mais che talvolta si susseguivano per miglia e miglia lungo la strada e grandi città governate da sovrani che si muovevano in portantina ...
” Gli indiani non riuscirono a fermare la spedizione, che lasciò dietro di se una scia di templi profanati, magazzini saccheggiati e città rase al suolo. Secondo alcuni ricercatori, la cosa peggiore che gli spagnoli fecero, seppure senza volere, fu provocata dalle malattie che i maiali avevano portato con loro. La calamità portata da de Soto colpì tutti i territori del sud-est. Le città stato del popolo Coosa, in Georgia occidentale, e la civiltà Caddo, stanziate sul confine fra Texas e Arkansas, finirono disintegrate poco dopo l’apparizione di de Soto sulle loro terre.
I Caddo vivevano in città con architetture monumentali: piazze pubbliche, piattaforme cerimoniali, mausolei.
Le 22 23 ricerche archeologiche dimostrano che, dopo che l’esercito di de Soto se ne andò, i Caddo interruppero la costruzione degli edifici comunitari e cominciarono a seppellire i morti in fosse comuni.
Ai primi del 1682, una spedizione esplorativa francese attraversò l’area dove de Soto era passato un secolo e mezzo prima, ma non vide villaggi indiani in un raggio di trecentocinquanta chilometri. La popolazione Caddo era diminuita del 96%, da più di 200.000 a meno di 8.500 persone, per ridursi a meno 1.400 individui nel XVIII secolo.
Tutte le popolazioni urbanizzate erano fuggite dai centri abitati e ciò contribuì a diffondere il mito che gli indiani fossero essenzialmente popolazioni nomadi.
In California, Nuovo Messico e Arizona, in soli sessantacinque anni dalla fondazione delle prime missioni, si ebbero effetti altrettanto disastrosi sugli indiani locali.
Durante la loro occupazione, gli spagnoli costrinsero in schiavitù interi villaggi e provocarono la diminuzione del 50% della popolazione indigena.
Nelle missioni era molto estesa la pratica del concubinaggio obbligato delle donne indiane da parte dei preti e dei soldati.
A queste prestazioni sessuali forzate, le donne indiane rispondevano con la pratica dell’aborto e con l’infanticidio dei bambini che erano costrette a concepire.
Un missionario della missione di San Gabriel scrisse: “Necessariamente mi sono abituato a queste cose, ma il loro disgusto e aborrimento mai mi ha abbandonato per molti anni dopo che esse erano accadute. Infatti, ogni bambino bianco che nasceva fra loro fu per un lungo periodo segretamente strangolato e sepolto”.
Il vascello inglese Mayflower approdò a Cape Cod, il 9 novembre 1620, poche settimane prima dell’arrivo dell’inverno che, in quei luoghi, è particolarmente rigido. I nuovi venuti, affamati e infreddoliti, si fermarono in uno stanziamento indiano abbandonato di recente, dove, in cerca di mais, frugarono nelle abitazioni abbandonate e, perfino, dissotterrarono tombe.
I coloni, che chiamavano se stessi “Padri Pellegrini”, si stupirono del fatto che uno dei cadaveri esumati a Cape Cod avesse i capelli biondi. Essi non potevano sapere che, in quel luogo, pochi anni prima, una nave francese era stata attaccata e distrutta dagli indiani Patuxet.
Quegli indiani, con ogni probabilità, avevano imprigionato i sopravvissuti, i cui resti furono ritrovati dai Pellegrini. Quei francesi avevano però portato con sé una malattia, e l’avevano trasmessa ai loro carcerieri.
L’epidemia arrivò a uccidere il 90% degli indiani della costa della Nuova Inghilterra.
I Padri Pellegrini raccontarono di villaggi nei quali era sopravvissuto un solo abitante e altri dove non era sopravvissuto nessuno e poiché nessuno era rimasto per seppellire i corpi questi erano rimasti dov’erano.
I coloni trovarono una tale quantità di ossa e teschi che sembrava “... un nuovo Golgotha”.
Un mese più tardi, i coloni si trasferirono nel sito dell’attuale Plymouth, dove trovarono un altro villaggio indiano.
Anche questo villaggio era stato abbandonato da poco tempo e vi trovarono folti campi di sepoltura, capanne vuote, e alcuni scheletri insepolti.
Annotarono i Pellegrini: “Così la buona mano di Dio ha favorito i nostri inizi. Spazzando via grandi moltitudini di nativi poco prima che venissimo quaggiù, la sua potenza ha fatto posto per noi così che possiamo costruire le nostre case”.
Anche Plymouth, come molti dei primi insediamenti, sorse sulle rovine di una preesistente comunità indiana, una procedura che si sarebbe ripetuta man mano che la frontiera si spostava verso ovest. Come scrisse lo storico Francis Jennings: “La terra d’America più che vergine era vedova. Gli europei non vi trovarono una landa desolata: semmai, per quanto involontariamente, la resero tale”. Anche se fu una delle cause principali di morte, per gli indiani il vaiolo non fu la sola malattia portata dagli europei: tubercolosi, tifo, morbillo, scarlattina, pertosse, influenza e difterite non causarono meno danni.
Il crollo demografico fu così enorme che, dai primi del 1500 agli inizi del 1800, la popolazione indiana degli Stati Uniti si ridusse da diciotto milioni a meno di seicentomila persone.
Eliminando grande parte delle popolazioni indiane, le malattie del Vecchio Mondo prepararono la strada alla conquista militare europea e alla piena colonizzazione.
Molti popoli indiani erano già molto ridotti di numero quando cominciò la colonizzazione dei loro territori e spesso erano già impossibilitati a opporre qualsiasi resistenza.
La deportazione d’interi popoli o, per meglio dire, di ciò che ne restava, dalle terre ancestrali ad altre terre loro “riservate” contribuì al completamento del crollo sociale e demografico degli abitanti originari del continente nord americano.
Si potrebbe pensare che i coloni europei, tutti di religione cristiana, si fossero allarmati o si sentissero in colpa, dato che erano i responsabili di quella immane strage e tremenda distruzione che, fin dall’inizio, colpì gli indiani americani.
In realtà i coloni consideravano una benedizione del cielo le continue stragi della popolazione indiana per opera delle malattie.
Ai coloni piaceva pensare che la distruzione d’interi popoli fosse il volere del “loro” Dio ma, poiché la “mano di Dio” non sempre era tempestiva, pensarono bene di dargli un piccolo aiuto e così si ebbero i primi casi di epidemie procurate volontariamente dagli europei.
In Pennsylvania, nel 1763, Sir Jeffrey Amherst, comandante in capo delle forze britanniche, in corrispondenza con un suo sottoposto, tale signor Bouquet, suggeriva che sarebbe stata una fortuna se il vaiolo fosse arrivato fra le tribù ostili.
Al che Bouquet rispose: “… proverò a infettarli con alcune coperte che posso far cadere nelle loro mani, e starò attento a non prendermi la malattia”.
Il 24 giugno 1763, il Capitano Ecuyer dei Royal Americans scrisse nel suo diario: “A riprova del nostro riguardo per loro gli abbiamo dato due coperte e un fazzoletto presi da malati di vaiolo ricoverati in ospedale. Spero che abbiano il desiderato effetto”.
Partiti dalle loro basi sulle coste atlantiche i bianchi avanzarono sempre più in profondità all’interno del continente e sempre incontrarono focolai di resistenza. Molti furono facilmente travolti, per altri occorsero molti decenni, alcuni non furono mai spenti.
Neolin dei Delaware, Pontiac degli Ottawa, Tecumshe degli Shawnee, Osceola dei Seminole, Cavallo Pazzo dei Lakota, Lupo Solitario dei Kiowa, Toro Alto dei Cheyenne, Antonio Garra dei Cupeno, Cochise degli Apache, Tuono nelle Montagne dei Nasi Forati sono solo alcuni dei leaders indiani più noti che combatterono e morirono per la salvezza della propria gente, per impedire l’invasione delle terre ancestrali e per non essere assimilati dalla cultura dei bianchi.
Ce ne furono molti altri che, per cercare di raggiungere gli stessi risultati, tentarono la via della pace e dei trattati, ma anche loro furono schiacciati dalla volontà degli invasori di liberare l’America dalla presenza indigena.
La schiacciante superiorità tecnologica degli europei prima e degli Stati Uniti poi, con le armi da fuoco, i battelli a vapore, le ferrovie e il telegrafo, ebbe inesorabilmente ragione delle nazioni indigene, che erano già state decimate e sconfitte dalle malattie.
Vasti territori, resi disponibili dalla costante ritirata delle tribù indiane, furono occupati da sempre più massicce ondate di nuovi immigrati, finché tutto il continente fu colonizzato e le tribù confinate nelle riserve.
Ma la resistenza non cessò mai. Verso la fine del XIX secolo risultò chiaro che gli indiani, oramai ridotti a meno di 300.000 individui, seppur costretti a sopportare umiliazioni continue, resistevano tenacemente all’assimilazione forzata.
Infatti, una volta abbandonata la via della resistenza armata, le tribù si aggrapparono alla tradizione e si rifugiarono nella spiritualità per poter sopravvivere e trasmettere alle nuove generazioni gli antichi insegnamenti e per restare indiani.
Il governo degli Stati Uniti reagì imponendo una riorganizzazione delle strutture tribali, nel chiaro tentativo di screditare i sistemi di governo tradizionali.
Decise poi di abolire la proprietà tribale della terra, suddividendo le riserve in lotti individuali.
Mise quindi in atto una delle soluzioni più ignobili mai inventate: strappò i bambini indiani alle famiglie e li rinchiuse in apposite scuole residenziali, dove fu loro impedito di parlare le propria lingua e dove gli furono inculcati a forza gli insegnamenti religiosi delle varie chiese cristiane che si erano accaparrate la gestione delle scuole.
Questi istituti, l’ultimo è stato chiuso nel 1979, sono stati anche tristemente noti per i numerosissimi e sistematici episodi di violenza psicologica, fisica e sessuale perpetrati ai danni dei fanciulli lì rinchiusi.
Nel 1958, in barba a tutti i trattati e alla legislazione indiana precedente, gli Stati Uniti decisero per legge l’estinzione delle tribù. Di colpo gli aiuti economici cui gli indiani avevano diritto, in forza dei trattati stipulati con gli Stati Uniti, cessarono di essere erogati.
Gli indiani si trovarono da un giorno all’altro privi di assistenza sanitaria, di scuole, di razioni alimentari.
E decisero di ribellarsi, di rialzare la testa e di rivendicare i loro diritti di fronte al mondo.
Molte furono le organizzazioni indiane fondate nei primi anni ’60, ma la più famosa, quella che con azioni eclatanti si fece conoscere in tutto il mondo, fu l’American Indian Movement - AIM.
Nel 1968 Dennis Banks, George Mitchell, Clyde Bellecourt e Russell Means fondarono questa organizzazione allo scopo di mobilitare gli attivisti di tutte le tribù degli Stati Uniti.
L’obiettivo era di ottenere la restituzione delle terre ingiustamente sottratte e negare la possibilità di sistemare le cose con risarcimenti in denaro.
Diverse sono le azioni rimaste famose portate a compimento dai militanti dell’AIM.
Una fu l’occupazione dell’isola di Alcatraz, l’ex penitenziario federale, ormai abbandonato, nella baia di San Francisco. Tutto il mondo seppe di questa riappropriazione di un lembo di terra americana da parte di un gruppo d’indiani.
L’occupazione durò dal 1969 al 1971, quando le autorità federali decisero che era durata abbastanza e fecero sgomberare l’isola con la forza.
Per stigmatizzare l’evento e richiamare l’attenzione del mondo sui problemi degli indiani, altri attivisti catturarono simbolicamente la riproduzione del vascello Mayflower, ancorato a Plymouth, nel Massachusetts; altri occuparono un edificio federale a Littleton, nel Colorado.
Occupazioni furono attuate a Fort Lawton, a Washington; al monte Rushmore, in Sud Dakota; a Ellis Island, all’interno della zona portuale di New York, il luogo dove sbarcavano gli emigranti europei prima di essere ammessi sulla terra ferma; ed alla Stazione della Guardia Costiera sul lago Michigan. Un’altra azione significativa dell’AIM fu l’organizzazione e l’effettuazione della “Trail of Broken Treaties”, la marcia per i trattati infranti, a sostegno di una serie di richieste in venti punti che furono presentate al Governo federale il 31 ottobre 1972 e che furono respinte in blocco.
In questi venti punti si chiedeva la restaurazione del diritto delle tribù a stipulare trattati e, soprattutto, la restituzione di 550.000 chilometri quadrati di territorio sottratto fraudolentemente alle tribù. L’anno successivo, il 28 febbraio 1973, alcuni membri dell’AIM, e molti membri della nazione Lakota, occuparono il sito del massacro di Wounded Knee del 1890, nella Riserva di Pine Ridge, in Sud Dakota.
Questa azione fu attuata con lo scopo di risvegliare negli Oglala-Lakota l’orgoglio di essere indiani e di far rispettare il trattato di Fort Laramie del 1868.
Il piano dell’AIM prevedeva di occupare solo per qualche giorno quel piccolo villaggio, ma l’FBI intervenne.
Ben presto l’occupazione di Wounded Knee si trasformò in un assedio, con i giovani attivisti dell’AIM asserragliati dietro vere e proprie trincee e con gli agenti federali degli Stati Uniti che avevano isolato la zona con blocchi stradali. Dopo pochi giorni, il 5 marzo, i Cheyenne settentrionali e poi anche i Crow, annullarono tutte le concessioni minerarie sulle loro terre.
La situazione stava assumendo contorni inaspettati.
La nazione più potente del mondo era sfidata in casa propria da un piccolo popolo che chiedeva il ripristino della propria sovranità.
Quasi tutte le notti, sfidando i blocchi dell’FBI, della Guardia nazionale e della polizia dello Stato, qualche giovane guerriero andava ad ingrossare le fila degli insorti. Le donne indiane, allo stesso modo, rifornivano di cibo i loro guerrieri.
La notizia dell’assedio fece rapidamente il giro del mondo.
Dai tempi di Cavallo Pazzo non era più accaduta una cosa simile e all’improvviso gli indiani facevano di nuovo parlare di se.
L’FBI, preoccupata per l’enorme impatto politico che quella situazione avrebbe avuto su tutte le tribù negli Stati Uniti, decise che occorreva stroncare sul nascere questa rivolta.
Più di 500 tradizionalisti Lakota furono incriminati e 185 di loro furono condannati con l’accusa di incendio doloso, furto ed aggressione.
Terminato l’assedio, l’FBI si dedicò al compito di sgominare definitivamente l’AIM che, con le sue efficacissime azioni di protesta, stava sempre di più ottenendo l’attenzione di larga parte dell’opinione pubblica e risvegliava i sentimenti nazionali e l’orgoglio delle tribù, ma 26 soprattutto aveva da tempo iniziato a scontrarsi con molti interessi consolidati.
In particolare, il potente complesso industrial-energetico era interessato ai vasti giacimenti minerari presenti nelle Colline Nere e all’interno di molte riserve e, proprio in quegli anni, la loro potente lobby stava manovrando per ottenere che anche il territorio Sioux diventasse “area di sacrificio nazionale” e quindi aperto allo sfruttamento minerario indiscriminato.
Fu per queste semplici ragioni che, nei mesi che seguirono, gli agenti federali organizzarono delle sistematiche cacce all’uomo in tutti gli Stati Uniti. Chiunque fosse minimamente coinvolto nelle attività o nell’organizzazione dell’AIM fu controllato, seguito e perseguito per ogni più piccola infrazione.
Diversi dei membri più attivi dell’AIM furono trovati uccisi, fra cui una giovane donna di nome Anna Mae Aquash.
Altri furono imprigionati per periodi più o meno lunghi.
Leonard Peltier, altro attivista dell’AIM, è in carcere dal 1976.
Fu incriminato e condannato con l’accusa di avere assassinato due agenti del FBI nel corso di una sparatoria nella riserva di Pine Ridge, in Sud Dakota.
Il 26 giugno 1975, due agenti del FBI entrarono nella proprietà di un indiano, dove un gruppo di militanti dell’AIM si era accampato qualche tempo prima, per controllare se fra loro ci fosse un attivista indiano ricercato per resistenza a pubblico ufficiale.
Furono accolti a fucilate e, dopo un violentissimo scambio di fuoco, restarono uccisi.
Furono eseguiti diversi arresti ma, tranne Peltier, accusato da una testimone, tutti furono assolti. Dopo alcuni anni questa donna ritrattò le proprie dichiarazioni e accusò l’FBI di averla minacciata e costretta a dichiarare il falso.
Le autorità americane si sono sempre rifiutate di riaprire il processo.
Amnesty International ha riconosciuto che Leonard Peltier è a tutti gli effetti un prigioniero politico. Peltier è incarcerato ingiustamente da trentasei anni.

Massimiliano Galanti

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