mercoledì 19 agosto 2015

I “crimini di guerra” in Etiopia: la verità oltre la faziosità anti-italiana


Prima parte

Roma, 17 ago – La pubblicazione di Gas in Etiopia, di Simone Belladonna (Neri Pozza) riapre l’annosa questione dei “crimini di guerra” italiani in Etiopia. Una vicenda su cui la propaganda anti-italiana fa leva per processare ancora una volta la storia nazionale. Pubblichiamo quindi a puntate questo studio dello storico Pierluigi Romeo di Colloredo che cerca di fare chiarezza (speriamo definitiva) sulla questione. [IPN]
Quando il 2 ottobre del 1935 le truppe italiane passarono il confine con l’Etiopia varcando il fiume Mareb, numerosi esperti militari europei si affrettarono a predire una nuova Adua, o, nel migliore dei casi, che le enormi difficoltà logistiche non avrebbero consentito agli italiani il conseguimento di risultati rapidi e brillanti ed era stato previsto che la guerra si sarebbe arenata allungandosi per anni, se non addirittura sarebbe finita con una disfatta italiana.
Allora come oggi ad ogni guerra le redazioni dei giornali richiamavano in servizio vecchi generali in pensione, presentati come esperti di strategia e tattica. E allora come oggi le loro previsioni si presentarono quasi sempre completamente sballate.
Riportiamo ad esempio alcune citazioni di corrispondenti militari stranieri: così il Völkischer Beobachter, organo del Partito nazionalsocialista il 14 luglio 1935 prevedeva che gli italiani avrebbero fatta la fine di Napoleone in Russia; gli aeroplani si sarebbero rivelati inutili poiché non c’è niente da bombardare (Deutsche Allgemeine Zeitung, 11 aprile ’35); il giornale svedese Dagens Nyeter del 5 settembre ’35 scrisse che
…Contro l’Abissinia nulla possono né i gas [dunque anche un mese prima dell’inizio della guerra c’era già chi parlava di gas!] né gli aeroplani né le armi moderne degli italiani….
etiopia
A guerra iniziata:
Dopo la stagione delle piogge tutto sarà consumato. Gli italiani hanno perduto, è inutile negarlo (Jouvenal, 25 gennaio 1936).
Tra i più scettici sul successo italiano furono i nazisti tedeschi: la volpe teutonica era ancora avvelenata per l’uva austriaca sottrattagli dall’intervento del Duce. Dopo la tensione tra Italia e Germania seguita all’omicidio di Dollfuss nel ’34, Mussolini era detestato in molti ambienti nazisti (si ricordi che oltre all’invio di un corpo d’Armata al Brennero nell’estate del 1934, le grandi manovre del 1935 vennero tenute in Alto Adige): il giornale delle SS Das Schwarze Korps era decisamente filoetiopico ed antifascista; il giornale nazista non si limitava a parteggiare apertamente per il Negus ma si burlava anche della crociata civilizzatrice del Duce e faceva dei pronostici velenosi sulle aleatorie probabilità degli italiani di sconfiggere rapidamente le armate del Negus, pronostici poi sconfessati dai fatti.
Naturalmente, allora come oggi, rivelatesi fallaci le previsioni catastrofiste, si disse poi che gli italiani avevano vinto grazie alla superiorità dei mezzi ed all’uso di armi proibite dalle leggi internazionali, e così via.
La batosta presa dagli abissini spinse gli inguaribili antifascisti ed anti-italiani a giustificare il bruciante insuccesso del Negus ricorrendo alla storiella dell’uso dei gas, che avrebbe messo in crisi gli eroici combattenti etiopi.
Premettiamolo subito: gli italiani usarono i gas, e li utilizzarono molto più spesso di quanto la pubblicistica post-bellica di destra abbia voluto ammettere. Errore grave quello del negare l’uso dell’iprite, tanto da dare credito ad una propaganda di segno opposto, sovente grottesca nel falsare la realtà ben più di quella di matrice neofascista.
Sull’argomento si è passati infatti da una totale negazione ad un’acritica adesione alle tesi della propaganda etiopica sull’uso indiscriminato dei gas.
guerraetiopiaDapprima i lavori dell’inviato del Giorno(spacciato usualmente per storico professionista, ciò che non è mai stato) il novarese Angelo Del Boca, poi di autori britannici quali Mockler(Haile Selassie’s War, I, The War of the Negus, tradotto non si sa perchè in italiano, ma che essendo uno dei pochi lavori in inglese sull’argomento è troppo spesso utilizzato da autori anglofoni come fonte) e l’indefinibileDenis Mack Smith nel suo pessimo Le guerre del duce fecero assurgere a verità di fatto le più strampalate leggende che la propaganda abissina, attendibile quanto un bollettino di guerra napoleonico, potesse concepire.
Cominciamo a vedere quali sono i fatti.
Per quanto riguarda l’uso dei gas asfissianti, la richiesta del maresciallo Badoglio (che non va dimenticato, s’era formato in gran parte durante la guerra 1915- 18, in cui i gas furono utilizzati normalmente) di utilizzare aggressivi chimici allo scopo di accelerare le operazioni belliche, richiesta accolta dal Duce solo in casi eccezionali per supreme ragioni di difesa(DEPA, Tel. Mussolini A.O., segreto, n. 14551), è da ritenersi una decisione profondamente errata: sotto il profilo militare, perché non recò alcun effettivo vantaggio; sotto il profilo politico perché diede l’occasione di screditare le forze armate e, quindi l’Italia, a tutti coloro che all’estero avevano disapprovato il conflitto, come scrisse il generale Bovio già direttore dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito.
L’utilizzo di gas diventava addirittura una stupidaggine, e di quelle grosse, quando il loro impiego era così limitato da non produrre alcun sostanziale vantaggio militare: ma abbastanza diffuso da tirarci addosso tutte le conseguenze negative di un fatto che necessariamente prescindeva dalla “quantità”.
Spesso si è attribuito quasi un significato politico all’uso delle armi chimiche, tralasciando di notare come non si fece impiego dei gas nella prima fase della campagna, sotto il comando del fascista e quadrumviro della Rivoluzione De Bono, che pure, come comandante del IX Corpo d’Armata, nel 1918 usò i gas contro gli austriaci sul Grappa con la compagnia chimica X, ma a partire dal dicembre del 1936, sotto quello del tecnico Badoglio (e, in Somalia, di Graziani, che fascista non fu mai, neppure durante la R.S.I.). Mussolini diede sì l’autorizzazione all’uso delle armi chimiche, ma su richiesta di Badoglio in qualità di Comandante superiore e di Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, sul quale come s’è visto, faceva pieno affidamento per la parte operativa della campagna. Furono usate bombe all’iprite e, sul fronte sud, anche fosgene. (continua)
Pierluigi Romeo di Colloredo
Seconda parte
Roma, 18 ago – Si è affermato che vennero usati anche proiettili a gas sparati dai pezzi da 105/8, secondo il sistema in uso nella guerra del 1915- 18.
Va ricordato che all’epoca i gas non erano considerati una mostruosità, ma quasi come un’arma più umana e meno crudele di quelle convenzionali.
Per chi era uscito dalla prima guerra mondiale i gas erano un’arma come un’altra, ed addirittura preferibile ad altre, in quanto poteva fiaccare il morale avversario senza essere necessariamente sempre letale[1].
Il generale Fuller, uno dei maggiori innovatori britannici in campo strategico scriveva nel 1923 nel suo The Reformation of War:
…uccidere non è l’obbiettivo della guerra. Se quest’assunto è accettato, allora, dal momento che un bagno di sangue è antieconomico, un tentativo dev’essere certamente fatto per sviluppare quei mezzi che possano costringere un avversario a modificare la sua politica sconfiggendo il suo esercito senza spargimento di sangue. La guerra dei gas ci consente di farlo, in quanto non c’è nessuna ragione per cui i gas impiegati come armi debbano essere letali (…) Il gas… è per eccellenza l’arma della demoralizzazione, e poiché può terrorizzare senza necessariamente uccidere, più di ogni altra arma conosciuta può servire ad imporre in modo economico la volontà di una nazione ad un’altra.
Non furono solo gli italiani ad usare aggressivi chimici. Gli inglesi usarono i gas nel 1931 a Sulainam, in Irak, per sopprimere il capo curdo Karim bey, reo dell’uccisione di due funzionari britannici e ancora nel 1935 in Afghanistan, lungo la frontiera con l’India, contro tribù pathane ribelli.
Va poi ricordato che una nave statunitense piena di aggressivi chimici venne affondata nel porto di Bari nell’ottobre del 1943 dalla Luftwaffe. Per una migliore comprensione storica il comportamento degli italiani in Etiopia andrebbe quanto meno contestualizzato nel quadro della condotta coloniale dell’epoca.
Angelo Del Boca si è spesso vantato d’esser stato il primo a portare a conoscenza del pubblico italiano l’impiego delle armi chimiche, ma ciò non risponde a verità.
Il Del Boca del resto può venire accusato di tante cose, dalla selettività nella scelta degli argomenti alla faziosità, ma certo non di falsa modestia: si pensi che giunse a scrivere, parlando del proprio libro del 1965, che avrebbe a suo dire suscitato ampi consensi da parte della stampa democratica [sic, per di sinistra e d’area comunista] e, di riscontro, la violentissima reazione degli ambienti nazionalfascisti (Del Boca 1984, p.432; subito dopo il giornalista piemontese cita opere di vari autori, quasi tutti di un solo orientamento). Si tratta di un passaggio autoreferenziale davvero inconsueto, per di più nel testo e non in una nota a piè di pagina, la cui lettura è assai istruttiva per comprendere il personaggio. Naturalmente Del Boca si guarda bene dal citare le critiche alla sua metodologia di ricerca ed alla selettività sulla scelta delle fonti e del loro utilizzo (si vedano le parole dedicate al giornalista da due storici professionisti, Luigi Goglia e Fabio Grassi nel loro Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Roma- Bari1981, p.425: e si tratta di autori certo non sospettabili di simpatie nazionalfasciste)
Che durante la guerra d’Etiopia si fossero usati i gas era invece noto già da prima dei lavori di Del Boca, malgrado le sue millanterie; basti citare la testimonianza di Paolo Caccia Dominioni sui bombardamenti sul Mai Tonquà del gennaio ’36. Intorno al giorno 22 gennaio sul Mai Tonquà, sotto l’Amba Tzellerè, l’aviazione aveva impiegato i gas asfissianti per la prima volta; testimonia Caccia Dominioni:
Gli aerei hanno avuto, se così si può dire l’ala pesante. E non soltanto con bombe e mitraglia. Numerosi cadaveri non portano tracce di ferite (…). Sono giunte, con gli ascari, anche squadre dette di disinfezione, specializzate. Hanno ordine di non perdere tempo questi seppellitori: debbono far scomparire subito le tracce di quanto è successo.
Giuseppe Bottai, tenente colonnello della divisione Sila, annota a sua volta nel proprio diario, alla data del 5 febbraio dello stesso anno:
(…) Precauzioni: non raccogliere le bombe inesplose dei nostri aeroplani, che si trovassero sul terreno e le schegge di bombe, che potrebbero essere ipritiche (…) [2] .
Circolavano inoltre fotografie scattate da soldati italiani di morti per i gas [3], che vennero sicuramente mostrate al ritorno dalla guerra ad amici e familiari in Italia.

Se realmente dunque gli aggressivi chimici fossero stati usati in maniera massiccia come preteso dagli etiopi e da certi storiografi se ne avrebbero molte più testimonianze, mentre molti soldati italiani poterono ignorarne l’uso in perfetta buona fede[4].
Ciò è ricordato anche da Luigi Goglia:
a questo proposito (il fatto che i combattenti ignorassero l’uso dei gas asfissianti) è stato notato da altri, ma anche chi scrive ne ha fatto diretta esperienza intervistando reduci di quella campagna, che l’uso dei gas era ignorato allora dai più (ancora oggi molti sono increduli)[5]
Basti dire che malgrado fotografie e filmati realizzati durante la campagna siano numerosissimi e ben noti, in nessuno è visibile un solo soldato italiano equipaggiato con portamaschere modello 1933 o 1935, cosa impensabile se davvero i gas fossero stati usati nelle quantità pretese dal giornalista novarese.
Anche il duca Luigi Pignatelli della Leonessa si era occupato dell’uso dei gas prima del giornalista novarese e con ben altra obiettività, scrivendo che:
Dobbiamo ritenere (e a Ginevra non lo smentimmo) che nel corso della campagna fu fatto talvolta uso, dai bombardieri italiani, di bombe all’iprite. L’impiego di questa terribile arma, che con altre simili e peggiori era stata largamente utilizzata da entrambe le parti belligeranti nella guerra 1914- 1918, fu limitato a particolari casi e se non mancò di avere effetto psicologico, fu ben lontano, come è ovvio, dall’agire risolutivamente sulle sorti della campagna. Sconsigliato a suo tempo dagli ufficiali esperti della guerra coloniale, fu, senza alcun dubbio, un inutile errore.
Un racconto anche sommario del conflitto italo etiopico, non può, in ogni modo, prescindere dal registrare obiettivamente il fatto, il quale non è destituito d’importanza[6] .
Come si vede, che i gas fossero usati non è certo una scoperta di Del Boca…
Il giornalista britannico Anthony Mockler, visto che non poteva attribuire ai gas italiani i massacri di cui si è favoleggiato, arrivò a scrivere nel suo Haile Selassie’s War, I, The War of the Negus, che
Il gas costituiva un grosso problema, ma causava più spavento che danni (…)Anche quando i gas arrivavano a contatto della pelle, le scottature potevano essere evitate.Ras Immirù aveva avvertito i suoi uomini di “lavarsi sempre”.
Addirittura nel suo pamphlet sulle guerre del Duce Denis Mack Smith (che il maggior storico del Risorgimento, Rosario Romeo, inserì nella categoria degli storici definiti Italy’s haters, lett.Odiatori dell’Italia) sulla base di due articoli di Del Boca, apparsi su Il Giorno del 12 e del 14 novembre 1968 arriva a scrivere di
…ordini espliciti di Mussolini che imponevano all’esercito di ricorrere se necessario, ad ogni mezzo, dal bombardamento degli ospedali all’impiego “anche su vasta scala di qualunque gas” e addirittura alla guerra batteriologica.
Va detto che Del Boca nelle sue opere ha avuto il buon senso di omettere accenni all’uso di armi batteriologiche, di cui l’Italia non disponeva. Programmi di ricerca in tal senso furono sviluppati dagli inglesi nel 1925 e dai giapponesi nel 1932; gli statunitensi iniziarono ad occuparsene nel 1941, e i tedeschi solo nel 1943[8].
Elementare buon senso che purtroppo è stato recentemente buttato nella spazzatura da giornalisti incompetenti in un pamphlet sulle armi non convenzionali usate dagli italiani.
Anche gli altri ordini citati dallo storico britannico non esistono: anzi, riguardo albombardamento degli ospedali in un telegramma del Duce a Badoglio del 1 gennaio ‘36 si fa esplicitamente divieto di bombardare la Croce Rossa :
[V.E.] dia ordini tassativi perché impianti croce rossa siano dovunque e diligentemente rispettati[9].
Mack Smith giunse a scrivere che Mussolini aveva deciso di attaccare l’Etiopia
riservandosi come obiettivi successivi l’Egitto e il Sudan e magari anche il Kenya.
Il che vuol dire credere che Mussolini fosse totalmente pazzo o non aver capito niente della visione sostanzialmente conservatrice della politica estera italiana sino alla guerra di Spagna; Mussolini temeva semmai che gli inglesi potessero attaccare dal Sudan le forze impegnate contro gli abissini, tanto che il 12 aprile del 1936 raccomandò a Badoglio di studiare eventuali misure difensive. Il Maresciallo incaricò di tale studio il gen. Babbini.
Si parlò dello studio delle possibilità di un’azione difensiva verso il Sudan come copertura per la missione di Badoglio e Lessona nell’ottobre del 1935, ma, come scrissero Indro Montanelli e Mario Cervi nel loro L’Italia littoria,
...De Bono (…) non era sciocco al punto di bere questa panzana.
Mack Smith evidentemente sì. (continua)
Pierluigi Romeo di Colloredo
NOTE
[1] Filippo Cappellano, Basilio di Martino, La Guerra dei gas, Valdagno 2006, p.7.
[2] G. Bottai, Diario 1935- 1944, Milano 1982, p.8 6; il corsivo è di Bottai.
[3] Mignemi Immagine coordinata per un impero, Novara 1984, fig.269, 305, con didascalia sul retro colpito dalla liprite [sic].
[4] I. Montanelli, M. Cervi L’Italia littoria, Milano 1979, p.295.
[5] L. Goglia Storia fotografica dell’Impero fascista, Roma- Bari 1985, p.18 n.20.
[6] :Pignatelli, La Guerra dei sette mesi, Milano 1965, p.238.
[7] Mockler, A., 1972, Haile Selassie’s War, I, The War of the Negus, Oxford (tr. it. Milano 1977)
[8] D. Tschanz “A Short History of Biological Warfare”, Strategy and Tactics 216 (May/ June 2003)., pp.17 segg.

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