La storia dell’epoca dei Mille in Calabria è piena di episodi, tutt’ora sconosciuti, ma significativi di stati d’animo contrastanti che pervasero i singoli. L’episodio di Solano ne presenta un singolare aspetto attraverso un documento che l’illustre studioso di Veroli, prof. Rotundo, è andato a recuperare per i lettori di Calabria Sconosciuta in una biblioteca della Ciociara.
L’interessante testimonianza che sottoponiamo all’attenzione degli storici calabresi del Risorgimento è tratta dalle “Memorie” dell’ex soldato borbonico e poi “brigante” e soldato papalino Francesco Francesconi di Sora, scritte nel 1913 sotto forma di lettere su sollecitazione dello storico di Casamari, Don Mauro Cassoni.
Attualmente conservate nella Biblioteca dell’abazia verolana, le “Memorie” del Francesconi sono state pubblicate per la prima volta da Benedetto Fornari sul n. 3 della “Rivista Cistercense” (Casamari, 1984). Il Francesconi fu guardiano, all’inizio del secolo della grangia dell’Antera (dove Gioacchino da Fiore scrisse le sue opere principali), di proprietà dei monaci di Casamari, e fu conosciuto dall’attuale abate di Casamari Don Nivardo Buttarazzi (allora giovane seminarista), il quale ne ricorda l’onestà e la solerzia nel salvaguardare i raccolti e la proprietà dei monaci dai ladri. Il franco e sgrammaticato racconto dell’ex soldato borbonico di Sora, mentre ci fa conoscere qualche episodio inedito o dimenticato relativo ai combattimenti svoltisi in quel fatidico 1860 nei dintorni di Reggio (è il caso di un ignoto garibaldino di Solano che pagò con la vita il suo coraggio), non fa che confermare quanto tuttora è stato sottaciuto dalla storiografia ufficiale e cioè che la conquista del Sud (voluta per fini tutt’altro che nobili) fu possibile soprattutto grazie al tradimento e alla vigliaccheria degli alti comandi borbonici legati alla Massoneria (la semplice truppa era invece vogliosa di combattere), al generoso appoggio fornito ai conquistatori da gran parte della popolazioni meridionali, per natura idealiste, e alle illusioni di stampo massonico-progressista (quando non si trattò di meschini interessi) degli intellettuali e dei borghesi, in genere protervamente e stupidamente imbevuti di una cultura sostanzialmente estranea alla tradizione e alla vocazione naturale della loro terra (non si dimentichi che il Sud borbonico non solo andava progredendo a grandi passi in tutti i campi, ma in taluni di essi era addirittura all’avanguardi; dell’atroce beffa unitaria si accorgeranno ben presto le popolazioni meridionali le quali daranno vita al cosiddetto brigantaggio). Paradossalmente, dunque, gli Italiani del Sud sacrificarono il loro legittimo “particolare”, il loro grande Stato indipendente, al mito dell’Italia unita proprio mentre le condizioni sociali ed economiche del Regno subivano un sensibile miglioramento. In compenso, il Mezzogiorno d’Italia da “giardino delle Esperidi” è stato scientemente trasformato in “pattumiera d’Europa”, in terra ormai priva di futuro dove tutto è permesso a chi gode dei favori dei padroni del vapore.
LA “MEMORIA” DI FRANCESCONI
Antera, 25 Agosto 1913
Riguardo al traditore generale Briganti, io vi ho scritto che dopo è accaduta la battaglia di Reggio Calabria, e noi siamo stati vincitori e siamo stati a Reggio alcuni giorni. Fra questo tempo è venuta una spia al nostro comandante, dicendogli che Solano stava pieno di Garibaldini. Una sera del mese di Settembre (1860), il nostro comandante il gen. Bosco, ci ha mandato a dare l’assalto a questo paese sotto il comando di un Colonnello, non so il suo nome. Eravamo diecimila soldati, ed abbiamo cominciato tutta la notte sempre in salita, perché il paese si trova sopra le montagne di Aspromonte. La mattina come siamo giunti, abbiamo circondato il paese, e i Garibaldini hanno incominciato a far fuoco contro di noi; ma non gli è giovato nulla: sono rimasti tutti massacrati, anche i paesani, perché anch’essi tiravano fucilate contro di noi. Ma male per loro! Dieci soldati di noi, siamo andati sopra una casa, e là abbiamo trovato una donna di 45 anni circa, era essa la padrona di casa. Stava vicino ad una finestra, e vicino ad essa un tavolino con sopra otto pacchi di cariche e tre fucili che allora erano stati sparati. Gli abbiamo dimandato: “ Chi è che ha fatto fuoco con questi fucili?” – “Non lo so” , ci ha risposto la donna, tutta alterata e senza paura. Intanto altri di noi guardavano per la casa ed hanno trovato un forno, si sono affacciati alla bocca del forno per vedere se dentro ci fosse del pane; ma la dentro ci stava un garibaldino nascosto, che aveva fatto fuoco con quei fucili e la donna lo aiutava. Alle risate dei miei compagni son corso anch’io là per vedere il Cristo di Fontana, dentro il forno. Lo abbiamo fatto uscire dal forno dicendogli: “ Tu hai fatto fuoco contro di noi?” Ci ha risposto che era poco. “Ebbene non ti faremo altro male che farti prigioniero; ma però tu devi dire tre volte – “ Viva Francesco II! “ – “Si, si, ci ha risposto, Viva Garibaldi quattro volte, non tre”. Un nostro compagno bersagliere aveva la daga messa al fucile, e gli ha dato un colpo alla pancia, e così è morto quel garibaldino. La donna è stata presa da quattro o cinque metri circa; si è fatta male, ma non è morta. Il bersagliere che aveva ucciso il garibaldino era Calabrese, proprio di quel paese e questi li conosceva bene: il fratello del morto stava sotto l’arme di Borbone ed il primo si era fatto Garibaldino per andare contro del fratello; ma il cielo lo ha punito, e queste cose le ha contate a noi il bersagliere calabrese nostro compagno, nativo di quel paese, cioè Solano, provincia di Reggio, nella sporca Calabria che al 1860 era tutta armata contro la truppa regia: da per tutte le parti, credo, ci ha passato Cristo di giorno; ma per la Calabria ci ha passato di notte, all’oscuro. Abbiamo fatto 200 prigionieri circa, ma i nostri Superiori gli hanno tutti rilasciati, dicendo che non vi era viveri per loro. Abbiamo lasciato il paese di Solano e abbiamo discesa la montagna d’Aspromonte e siamo andati a Scilla, un trenta miglia lontano, dove che prima eravamo a Villa S. Giovanni, ed ivi abbiamo lasciato tutti i nostri bagagli, fanteria e cavalleria. Tredicimila soldati stavano tutti sparpagliati intorno a la marina da Scilla a Reggio, sotto il comando del generale Briganti, perché il gen. Bosco si era ritirato colla sua divisione alle parti di Napoli per ordine del Re, e cinquemila ci ha lasciati sotto al comando di Briganti, tra fanteria e cavalleria, mentre noi prima appartenevamo alla divisione del gen. Bosco, e poi sotto il traditore gen. Briganti. Scilla sta situata vicino al mare, ed è lontana da Reggio un trenta miglia circa, come ho scritto di sopra e vi è un piccolo Forte con quasi sessanta cannoni, e là ci stavamo trecento soldati. Non erano che pochi giorni che stavamo là, quando si è presentato vicino al Forte il gen. Briganti, ma è stato di passaggio, senza darci nessun ordine. Alcuni giorni dopo il passaggio del gen. Da Scilla, sono incominciati a passare i soldati disarmati che ne venivano da Villa S. Giovanni ad Altafiumara per ritirarsi sbandati al loro patire, dicendo a noi, che il gen. Briganti, aveva venduta tutta la divisione di tredicimila soldati per quindici centesimi ogni soldato a Giuseppe Garibaldi; ed anche a noi trecento che stavamo al Forte di Scilla eravamo del pari stati venduti per quindici centesimi. Un soldato, un cavallo, ed armi vivande per tre soldi, ed una cipolla quanto costa? Oh i Generali Napoletani! Siamo dunque rimasti soli dentro il Forte senza viveri, abbandonati da tutti e senza soccorso, assediati dai Garibaldini di ogni parte d’Italia. I paesani sono fuggiti; eppure, noi con tanti disagi abbiamo sostenuto il forte ventuno giorni. Durante l’assedio tutti i giorni i nostri Ufficiali ci consigliavano di consegnare il forte ai nemici, e noi soldati fermi, sempre di no. Ma due di essi sono stati buttati a mare, morti, ed altri diciassette soldati morti per la fame, pure buttati a mare, e noi dovevamo campare con mezza galletta al giorno. Erano sedici giorni di assedio senza speranza d’aver soccorso, nel termine dei quali abbiamo visto in mare una grande corazzata venire verso il forte, e noi l’abbiamo guardata bene, camminava senza bandiera; ma quando è arrivata sotto il tiro di cannone, ha alzato bandiera, era una corazzata della marina Borbonica con quarantacinque pezzi di cannoni, è venuta quasi sotto il forte, e sembrava un monte. Un sergente è sceso dal forte ed è andato a parlamento col comandante del legno, si è tornato con buone notizie. Ci ha detto che la corazzata era guidata da sei marinai ed un pilota, che il capitano egli altri uomini, avevano disertato ed essa veniva da Salerno. E che le truppe Borboniche erano da noi lontane. “Noi ora viaggiamo per il forte di Messina a visitare i nostri fratelli là, e voi altri fate come potete, perché soccorso e viveri non ve ne viene”. La corazzata nel passare per lo stretto o canale, è stata assalita dalle cannonate dei Garibaldini che stavano per la marina a Torra (?) o Foro di Sicilia; ma non gli hanno fatto nulla di male, e si è fatto sotto foro e ci ha regalati più di cento colpi di cannone. Il canale era annebbiato di fumo, di modo che di Garibaldini ne sono morti un bel po’, e gli altri son fuggiti per i monti; il fabbricato e stato tutto malmenato, e poi la corazzata ha seguito la sua via e noi non l’abbiamo più riveduta. Il giorno 10 di settembre, è venuto sotto il forte un uomo a cavallo, con camicia rossa, ed ha chiamato il comandante del forte; ma là non c’era rimasto a comandare che un Sergente artigliere, che gli ha domandato cosa volesse: il cavaliero ha detto al sergente: “Vedete chi sono io?” – “Ebbene ? chi siete?” – “ sono l’ambasciatore di Giuseppe
Garibaldi, che dice o di consegnare il forte domattina o pure di attaccare il fuoco”. “Ebbene, rispose il Sergente, domani mattina vi darò la risposta”. E se n’è andato via. La sera noi tutti abbiamo fatto consiglio, dicendo: Noi non abbiamo spese (viveri) e neppure soccorso. Così la mattina abbiamo alzato la bandiera bianca, ed abbiamo abbassata la bandiera bianco-rossa con il giglio. Ecco che si è ripresentato l’ambasciatore del giorno prima, dicendoci che cosa si risultava (s’intendeva) del segno atto, cioè della bandiera alzata, ed il nostro Sergente gli ha detto: “Dirai al tuo Comandante che venga pure sicuramente a prendersi la consegna del forte”. L’ambasciatore è andato via: verso le dieci si è fatto sotto (accostata) la truppa che ci teneva assediati: abbiamo calato il ponte del Forte ed essi si sono schierati in due file, noi siamo usciti ed essi sono trasiti dentro. Al di fuori, alla metà delle file, ci stava un uomo a cavallo, vestito di rosso, che sembrava Marco Aurelio al Campidoglio di Roma, ha ordinato a noi di fermarci tutti ad un largo, e così ci ha parlato: – “Figlioli miei, io sono Giuseppe Garibaldi, e chi vuole restare sotto la mia bandiera, resta pure, e chi non resta, vada pure nella loro famiglia: non andate più ad armarvi con Franceschino, che fra poco sarà cacciato dal regno ed io sarò sempre vincitore “ – . “Ebbene, di quella maniera, dico io, avrebbe vinto il più babbeo “ -. Basta, noi tutti siamo andati via, nessuno di noi ha preso servizio con Garibaldi, e così ci siamo incamminati per le province Napoletane. Mi pare che il 24 settembre siamo giunti a Mileto poche miglia da Monteleone, ( vibo valentia) e a questo paese, Mileto, ci passa la strada rotabile in mezzo, ed il paese farà un duemila abitanti circa. Là siamo arrivati un trenta soldati sbandati; Gli altri chi ha fatto una strada, chi un’altra. A Mileto abbiamo trovato un’altra divisione armata, di circa dodicimila soldati Borbonici, che avevano formato fascio d’armi in mezzo al paese, e stavano a riposo. Ci siamo messi a discutere essi con noi, e noi con essi, a raccontare le nostre sventure, e il tradimento fattone dal Generale Briganti. Ma già questi l’avevano saputo prima da altri : nell’istante si è levato un grido: ecco il traditore nostro! E così ci siamo slanciati ai fucili ch’erano tutti carichi, e abbiamo fatto una scarica addosso del generale Briganti di circa sessanta fucili: così è morto lui e il suo cavallo. Povera bestia, non aveva colpa del suo padrone! Dopo morto il generale Briganti, allora abbiamo tutti corso a Monteleone per prendere l’altro traditore, Viallo ( gen. Vialle), comandante di quella divisione armata; ma non l’abbiamo trovato, era fuggito. Costui era pure generale, ed il comando di quella divisione è rimasto ad un colonnello. Io ho tirato innanzi per le province Napoletane, e la divisione armata è rimasta a Monteleone (Vibo Valentia); ma pochi giorni dopo sono stati sbandati anch’essi; ed io alle volte solo, alle volte accompagnato ho dovuto camminare sei province, sempre a piedi: le province sono queste, Reggio, Catanzaro, Cosenza, Basilicata, Salerno, Terra di Lavoro, con paura, pericoli e fame. Passando per Potenza, una sera verso il tramonto del sole, stavo per giungere ad un paese, non ricordo il nome, prima di trasire ho incontrato alcune donne che scendevano dalla montagna, con fasci di legna in capo e tiravano via al paese. Mi hanno domandato se io era soldato del Re, ho risposto di sì; da dove veniva e tante cose. Intanto siamo arrivati ad una fontana vicino al paese, ed esse si sono sposto (hanno deposto i fasci di legna che avevano in testa) ed hanno bevuto. “Bevi anche tu”, hanno detto a me; io ho risposto di non aver sete, piuttosto fame; ed esse mi hanno dato alcuni tozzi di pane, così ho mangiato e bevuto. Una di queste più anziane, che anch’essa aveva il figlio sotto l’armi, mi ha detto di non trasire dentro il paese, perché avanti ieri sono passati qui dentro al paese tre soldati del Re, e la guardia nazionale ed altri, gli hanno presi, maltrattati e messi in prigione. E come fo io, ho detto nel mio cuore, per passare di qui? Mi conviene di rifarmi indietro e di pigliare la montagna, così passerò senza pericoli. Intanto la buona donna anziana ha detto: “Ora ci penso io”. Ha ordinato alle altre donne quasi tutte giovinette di levarsi un fazzoletto, chi una veste, e così mi hanno vestito che sembrava una donna, ed io allora contava diciannove anni di età. Intanto è sonata l’Ave Maria ed esse mi hanno fatto il mio fascio di legna, io per mezzo ad esse, siamo entrati nel paese e siamo giunti alla casa della donna anziana: ho posate le legna e le altre donne ognuna è andata a casa sua. La donna anziana mi ha dato forse due chili di pane e mi ha detto: Vieni con me: essa avanti ed io appresso, mi ha fatto passare dove non c’era pericolo. Finalmente siamo usciti fuori del paese ed ella mi ha accompagnato un bel po’lontano dal paese dove non c’era più dubbio. Ci siamo fermati ed io mi sono levati quei panni femminili e gli ho restituiti alla mia benefattrice, mi sono inchinato e gli ho baciate le mani ed essa ha baciato me nel mio viso ed è scoppiata a piangere, dicendomi: “Va, che Iddio vi accompagni!”. Essa si è rifatta indietro, ed io ho tirato inanzi per Capua.
Garibaldi, che dice o di consegnare il forte domattina o pure di attaccare il fuoco”. “Ebbene, rispose il Sergente, domani mattina vi darò la risposta”. E se n’è andato via. La sera noi tutti abbiamo fatto consiglio, dicendo: Noi non abbiamo spese (viveri) e neppure soccorso. Così la mattina abbiamo alzato la bandiera bianca, ed abbiamo abbassata la bandiera bianco-rossa con il giglio. Ecco che si è ripresentato l’ambasciatore del giorno prima, dicendoci che cosa si risultava (s’intendeva) del segno atto, cioè della bandiera alzata, ed il nostro Sergente gli ha detto: “Dirai al tuo Comandante che venga pure sicuramente a prendersi la consegna del forte”. L’ambasciatore è andato via: verso le dieci si è fatto sotto (accostata) la truppa che ci teneva assediati: abbiamo calato il ponte del Forte ed essi si sono schierati in due file, noi siamo usciti ed essi sono trasiti dentro. Al di fuori, alla metà delle file, ci stava un uomo a cavallo, vestito di rosso, che sembrava Marco Aurelio al Campidoglio di Roma, ha ordinato a noi di fermarci tutti ad un largo, e così ci ha parlato: – “Figlioli miei, io sono Giuseppe Garibaldi, e chi vuole restare sotto la mia bandiera, resta pure, e chi non resta, vada pure nella loro famiglia: non andate più ad armarvi con Franceschino, che fra poco sarà cacciato dal regno ed io sarò sempre vincitore “ – . “Ebbene, di quella maniera, dico io, avrebbe vinto il più babbeo “ -. Basta, noi tutti siamo andati via, nessuno di noi ha preso servizio con Garibaldi, e così ci siamo incamminati per le province Napoletane. Mi pare che il 24 settembre siamo giunti a Mileto poche miglia da Monteleone, ( vibo valentia) e a questo paese, Mileto, ci passa la strada rotabile in mezzo, ed il paese farà un duemila abitanti circa. Là siamo arrivati un trenta soldati sbandati; Gli altri chi ha fatto una strada, chi un’altra. A Mileto abbiamo trovato un’altra divisione armata, di circa dodicimila soldati Borbonici, che avevano formato fascio d’armi in mezzo al paese, e stavano a riposo. Ci siamo messi a discutere essi con noi, e noi con essi, a raccontare le nostre sventure, e il tradimento fattone dal Generale Briganti. Ma già questi l’avevano saputo prima da altri : nell’istante si è levato un grido: ecco il traditore nostro! E così ci siamo slanciati ai fucili ch’erano tutti carichi, e abbiamo fatto una scarica addosso del generale Briganti di circa sessanta fucili: così è morto lui e il suo cavallo. Povera bestia, non aveva colpa del suo padrone! Dopo morto il generale Briganti, allora abbiamo tutti corso a Monteleone per prendere l’altro traditore, Viallo ( gen. Vialle), comandante di quella divisione armata; ma non l’abbiamo trovato, era fuggito. Costui era pure generale, ed il comando di quella divisione è rimasto ad un colonnello. Io ho tirato innanzi per le province Napoletane, e la divisione armata è rimasta a Monteleone (Vibo Valentia); ma pochi giorni dopo sono stati sbandati anch’essi; ed io alle volte solo, alle volte accompagnato ho dovuto camminare sei province, sempre a piedi: le province sono queste, Reggio, Catanzaro, Cosenza, Basilicata, Salerno, Terra di Lavoro, con paura, pericoli e fame. Passando per Potenza, una sera verso il tramonto del sole, stavo per giungere ad un paese, non ricordo il nome, prima di trasire ho incontrato alcune donne che scendevano dalla montagna, con fasci di legna in capo e tiravano via al paese. Mi hanno domandato se io era soldato del Re, ho risposto di sì; da dove veniva e tante cose. Intanto siamo arrivati ad una fontana vicino al paese, ed esse si sono sposto (hanno deposto i fasci di legna che avevano in testa) ed hanno bevuto. “Bevi anche tu”, hanno detto a me; io ho risposto di non aver sete, piuttosto fame; ed esse mi hanno dato alcuni tozzi di pane, così ho mangiato e bevuto. Una di queste più anziane, che anch’essa aveva il figlio sotto l’armi, mi ha detto di non trasire dentro il paese, perché avanti ieri sono passati qui dentro al paese tre soldati del Re, e la guardia nazionale ed altri, gli hanno presi, maltrattati e messi in prigione. E come fo io, ho detto nel mio cuore, per passare di qui? Mi conviene di rifarmi indietro e di pigliare la montagna, così passerò senza pericoli. Intanto la buona donna anziana ha detto: “Ora ci penso io”. Ha ordinato alle altre donne quasi tutte giovinette di levarsi un fazzoletto, chi una veste, e così mi hanno vestito che sembrava una donna, ed io allora contava diciannove anni di età. Intanto è sonata l’Ave Maria ed esse mi hanno fatto il mio fascio di legna, io per mezzo ad esse, siamo entrati nel paese e siamo giunti alla casa della donna anziana: ho posate le legna e le altre donne ognuna è andata a casa sua. La donna anziana mi ha dato forse due chili di pane e mi ha detto: Vieni con me: essa avanti ed io appresso, mi ha fatto passare dove non c’era pericolo. Finalmente siamo usciti fuori del paese ed ella mi ha accompagnato un bel po’lontano dal paese dove non c’era più dubbio. Ci siamo fermati ed io mi sono levati quei panni femminili e gli ho restituiti alla mia benefattrice, mi sono inchinato e gli ho baciate le mani ed essa ha baciato me nel mio viso ed è scoppiata a piangere, dicendomi: “Va, che Iddio vi accompagni!”. Essa si è rifatta indietro, ed io ho tirato inanzi per Capua.
Vi saluto.
Francesconi Francesco Vento di Calabria
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