martedì 28 luglio 2015

La sinistra fascista



Filippo Ronchi

Dissidenti

Dopo la conquista del potere, il fascismo fu caratterizzato da un dissenso interno plateale, che si manifestò in una forte componente «movimentistica». Essa non riuscì ad affermarsi, ma si battè, tollerata (se non tacitamente appoggiata) dallo stesso Mussolini che in fondo non dimenticò mai le sue origini socialiste. La natura eterogenea dell'ideologia dei fasci, il valore strumentale e contingente attribuito ai «princìpi», la spregiudicata tattica politica erano stati, prima della marcia su Roma, i punti di forza del PNF. Successivamente si rivelarono elementi di debolezza. La «rivoluzione fascista» non ci fu. Allo scontro frontale con la liberaldemocrazia si sostituirono il compromesso governativo e il processo di inserimento nelle tradizionali strutture statali. Ma molti militanti che provenivano dalle esperienze del sindacalismo, dell'estrema sinistra, dell'arditismo, del legionarismo fiumano durarono fatica a rendersi conto ed a convincersi di quel che stava accadendo; alcuni anzi non accettarono mai l'involuzione. Fra questi il sardo Stanis Ruinas, al secolo Antonio de Rosas (1899-1984). Repubblicano, antiborghese e anticapitalista intransigente, egli rimase fedele alle sue idee durante il Ventennio, nel periodo della RSI ed anche nel secondo dopoguerra.



Nel Ventennio

Formatosi alla scuola del mazzinianesimo e del socialismo di Pisacane, Ruinas considerò Mussolini come colui che aveva inteso portare a compimento quella «rivoluzione nazionale» e popolare avviata dai democratici del Risorgimento, ma subito riassorbita dalla borghesia liberale e moderata post-unitaria. Così anche nel corso del Ventennio la borghesia che continua a condizionare pesantemente l'azione del fascismo originario, i gerarchi corrotti ed inetti, la monarchia e la Chiesa cattolica costituiranno -per Ruinas- nemici da battere, in nome della realizzazione del programma di San Sepolcro, espressione del «fascismo autentico» fautore di una rivoluzione antiborghese. Gli attacchi che Ruinas rivolge dai numerosi quotidiani di cui è collaboratore ("L'Impero", "Il Popolo d'Italia", "Il Resto del Carlino") o direttore ("Popolo Apuano", "Corriere Emiliano") all'establishment attirano i sospetti e le ire degli apparati del regime. Egli viene sospeso, reintegrato, radiato «per indisciplina e scarsa fede» dal PNF, sottoposto a vigilanza speciale, fino alla riconciliazione avvenuta alla vigilia della Seconda guerra mondiale grazie al libro "Viaggio per le città di Mussolini" (1939). E proprio aderendo alla guerra mussoliniana, Ruinas ritroverà le ragioni dello scontro supremo con le forze «plutocratiche» e «trustistiche» inglesi e statunitensi, nelle quali per lui si concretizza il sistema capitalistico, «che è il nemico numero uno del proletariato e della rivoluzione». La guerra fascista è interpretata, dunque, come strumento per sconfiggere prima le «demoplutocrazie occidentali» e poi, forti di quella vittoria, rovesciare il predominio del capitalismo interno e di quello internazionale.



Nella RSI

All'indomani dell'8 settembre, Stanis Ruinas si trasferisce a Venezia, per ricoprire l'incarico di capo ufficio stampa della segreteria del suo amico Vìncenzo Lai, nominato dal governo di Salò commissario della BNL. Nella RSI, Ruinas vede finalmente incarnarsi il fascismo delle origini e la possibilità di realizzare quella rivoluzione per la quale si era sempre battuto. La Socializzazione e la ricerca di un accordo con gli antifascisti per impedire la guerra civile diventano i cardini attorno ai quali ruota la sua azione. Ma anche a Salò prevarranno i vecchi gerarchi, appoggiati dai tedeschi. Uno stuolo di parenti, di profittatori irresponsabili e feroci lascerà il segno sulla breve avventura della RSI. Eppure Ruinas respingerà sempre l'accusa secondo cui il fascismo repubblicano sarebbe stato l'espressione estrema della reazione capitalista anzi ribalterà l'accusa sui comunisti italiani, colpevoli di collusione con la borghesia per aver scelto di partecipare al governo Bonomi e di aver accettato l'alleanza con l'Inghilterra di Churchill, «conservatore nel midollo, duca e ricco a starelli» e gli USA di Roosevelt, «portavoce dei miliardari americani».



Pensiero Nazionale

Concluso un breve periodo di detenzione a Venezia nel '45, Ruinas fu assolto in istruttoria da una Corte d'Assise Straordinaria. La rivista "Pensiero Nazionale" venne da lui fondata a Roma nel '47 ed uscì fino al '77, sostenuta dai finanziamenti del commerciante Oscar T'accetta, dopo l'aiuto iniziale fornito da Vincenzo Lai, rimasto successivamente al crollo della RSI alto funzionario della BNL. Altri finanziamenti di modesta entità giunsero nei primi anni Cinquanta anche dal PCI e successivamente perfino da Aldo Moro, nel periodo in cui il leader democristiano -con la strategia del «compromesso storico»- stava sviluppando il massimo di iniziativa politica autonoma dalle direttive statunitensi all'epoca possibile. Sostegni economici affluirono poi da alcuni paesi arabi: probabilmente dall'Egitto di Nasser e, negli anni Settanta, dalla Libia. "Pensiero Nazionale" non superò mai le 15.000 copie, ma riuscì ad essere presente in tutti i capoluoghi di provincia. Tra la fine del '51 e l'inizio del '52, i Gruppi di "Pensiero Nazionale", che facevano capo alla rivista, si costituirono in un movimento politico, il quale riuscì a raccogliere circa 20.000 iscritti. La formazione, benché di dimensioni modeste, svolse un ruolo non trascurabile nel '53, quando contribuì -in occasione delle elezioni politiche- ad impedire che scattasse il meccanismo della legge maggioritaria (la cosiddetta legge-truffa) confluendo nelle liste di Alleanza Democratica Nazionale e rivelandosi determinante per la sua affermazione.



Fascisti e comunisti

Venuta meno, nel clima della guerra fredda, l'unità dei partiti antifascisti con l'esclusione della sinistra dal governo, il PCI si ritrovò nettamente contrapposto -sul piano interno- alla DC e agli altri partiti moderati, così come -su quello internazionale- decisamente schierato con l'URSS stalinista contro gli USA. La situazione risultava propizia per attuare quell'avvicinamento di formazioni antagoniste al sistema capitalistico che Stanis Ruinas da tempo auspicava. Lo stalinismo gli si presentava appiattito sul materialismo e sull'internazionalismo marxisti, cioè su strumenti non in grado di realizzare la sintesi di socialismo e nazione da lui preconizzata. Tuttavia tra capitalismo e comunismo, fra USA-Inghilterra e URSS, i Gruppi di "Pensiero Nazionale" non avevano dubbi: il loro sovversivismo populistico e totalitario li portava a simpatizzare per Stalin. Contemporaneamente, una strategia di recupero nei loro confronti venne elaborata dal PCI. L'apertura verso coloro che erano stati i nemici di ieri, nell'ambito del quale si collocò nel periodo '47-'53 il rapporto tra il PCI e "Pensiero Nazionale", fu preparata, seppure dietro le quinte, dallo stesso Togliatti. L'operazione venne, poi, condotta da personalità di primo piano del partito, come Giancarlo Pajetta, Luigi Longo, Franco Rodano, Ambrogio Donini, Enrico Berlinguer, Ugo Pecchioli. Gli incontri con Ruinas e con altri collaboratori della sua rivista furono numerosi, ma non diedero risultati significativi, anche perché il PCI ostacolò la nascita di un partito indipendente della Sinistra Nazionale, seppure alleato e contiguo. Forse pesò su quest'evoluzione il graduale ammorbidimento dell'opposizione comunista nell'era della «coesistenza pacifica» seguita all'ascesa di Krusciov. I Gruppi di "Pensiero Nazionale" si orientarono, allora, verso la costituzione di una forza anti-sistema autonoma tanto dal PCI quanto dal MSI. Nel '56 venne effettuato il tentativo più consistente di costituire un Movimento di Sinistra Nazionale, area di aggregazione per uno schieramento antagonista. L'operazione si rivelò effimera, tuttavia nella seconda metà degli anni Cinquanta Ruinas riuscì a consolidare un rapporto con il presidente dell'ENI Enrico Mattei, il quale divenne un importante finanziatore di "Pensiero Nazionale", che a sua volta sostenne le scelte in materia di politica energetica compiute dall'intraprendente imprenditore pubblico, avvicinandosi alle posizioni sia dei paesi arabi produttori di petrolio, interlocutori direttì di Mattei, sia, più in generale, ai paesi non allineati e del Terzo Mondo, di cui denunciò lo sfruttamento capitalistico.



Ciò che resta di Stanis

La vicenda dei «fascisti rossi» che attorno a "Pensiero Nazionale" si raccolsero, rappresenta un segmento pressoché ignoto della storia italiana del secondo dopoguerra, non tanto, a nostro avviso, per le modeste dimensioni numeriche del fenomeno, quanto perché la semplice presenza di un simile soggetto politico fa saltare letture troppo schematiche di determinati avvenimenti. Su temi quali il fascismo e l'antifascismo, la resistenza, la «destra» e la «sinistra», le analisi del periodico romano si situano, infatti, al di fuori di quei parametri interpretativi che proprio negli anni dell'immediato dopoguerra furono elaborati per segnare i caratteri dell'ideologia e della mitologia su cui a tutt'oggi si fonda la legittimazione della liberaldemocrazia italiana. Sul piano ideologico e politico l'elaborazione di Stanis Ruinas e dei suoi collaboratori, che provenivano in massima parte dalla RSI, li collocò fuori dall'orbita del parlamentarismo, in una dimensione assolutamente singolare. Considerato ormai chiuso e non riproponibile il passato del ventennio e di Salò, respinte con forza le posizioni nostalgiche del Movimento Sociale, erede del «fascismo borghese» con cui non intendevano essere confusi, Ruinas e i suoi diedero vita ad una linea fatta di ideali repubblicani e socialisti, di populismo nazionalistico ed anticapitalistico, di inequivocabile ostilità verso la NATO, gli USA, le «democrazie plutocratiche» occidentali che avevano colonizzato l'Italia dopo il '45. Di qui i durissimi attacchi nei confronti di De Gasperi, Scelba, della DC in genere e del Vaticano, nonché del MSI, che ormai si configurava come un partito pienamente conservatore. Al tempo stesso, i «fascisti rossi» lodavano i partigiani rivoluzionari, mentre condannavano la Resistenza borghese quale ennesima espressione trasformistica di quei settori sociali che, dopo essersi assestati con il regime fascista traendone cospicui vantaggi, lo avevano abbandonato nel momento in cui questo aveva lanciato la sua sfida mondiale al sistema capitalista. Alla contrapposizione tra fascismo e antifascismo, "Pensiero Nazionale" propose, dunque, di sostituire quella tra una sinistra composta dalle forze antiborghesi, anticapitalistiche, antiamericane e una destra «plutocratica», clericale, filo-atlantica. Venne delineata così, per la prima volta un'unità di intenti tra militanti marxisti e «sovversivi» che si richiamavano all'esperienza del primo e dell'ultimo fascismo (San Sepolcro e Manifesto di Verona). Un'impostazione di questo genere forniva, però, una lettura tanto del movimento dei fasci quanto della Repubblica di Salò assai diversa da quella divulgata dal PCI e dalla borghesia antifascista, che interpretavano l'uno e l'altra come il «braccio armato» del grande capitale industriale e agrario. Contro queste forze, i «fascisti rossi» ripetevano di essersi sempre scontrati, nel ventennio e nella RSI. Riconoscevano di esserne usciti nettamente sconfitti, ma aggiungevano che non era destino fin dal 1919 che gerarchi e borghesia prevalessero. E concludevano affermando di essere stati battuti da quelle stesse forze capitalistiche che, in sostanza, avevano finito con l'esercitare la loro egemonia anche nell'Italia postbellica, neutralizzando la carica rivoluzionaria delle formazioni partigiane legate al PCI, dopo aver soffocato gli analoghi sentimenti e propositi del «fascismo autentico».



Una lezione da ricordare

Le note fin qui sviluppate non hanno la pretesa di costituire un'indagine storica (per la quale si rimanda al particolareggiato e documentato saggio di Paolo Buchignani, "I «fascisti rossi» da Mussolini a Togliatti", apparso sul numero di gennaio-febbraio '98 della rivista "Nuova Storia Contemporanea"). Attraverso esse si voleva soltanto riepilogare rapidamente una vicenda che resta a tutt'oggi significativa, per giungere ad alcune brevi conclusioni collegate all'attualità. La fase storica è dominata da un Pensiero Unico che si trasmette democraticamente attraverso l'esaltazione del «mercato». Nell'ambito di questo contesto mondiale, anche in Italia la politica sembra essere diventata di plastica, con l'alternativa rappresentata dal confronto tra la «Cosa» di sinistra nata a Firenze auspice D' Alema e la «Cosa» di destra partorita a Verona da Fini. Entrambi gli schieramenti amano definirsi nazionali (ma, per carità, giammai nazionalisti), liberali e liberisti civilmente temperati, sociali sicuramente e tuttavia lontani da ogni statalismo assistenzialista, eccetera. Le loro frange estreme (Rifondazione Comunista o gli ultrà liberisti di Forza Italia all'Antonio Martino) non contano, contribuiscono soltanto a rendere più variegato il panorama interno al sistema capitalista. Se questa è la realtà, le forze antagoniste in quanto -prima di ogni altra considerazione- anticapitaliste non possono rimanere ancora inchiavardate alle due contrapposizioni frontali che hanno segnato un secolo ormai finito, comunismo-anticomunismo e fascismo-antifascismo. Al contrario, lasciarsele alle spalle è condizione necessaria, anche se di per sé non sufficiente, per restituire slancio e prospettiva all'opposizione non riconciliata e non disposta ad accettare le «oggettive ragioni» del modo di produzione capitalistico nell'epoca della globalizzazione. È in questo senso che la lezione di "Pensiero Nazionale" conferma tutta la sua validità. Appare evidente, infine come "Aurora" ed il Movimento Antagonista - Sinistra Nazionale possano considerarsi eredi di quell'esperienza, che con il passare del tempo non ha perso, ma al contrario ha sempre più acquistato interesse, rivelandosi per certi aspetti quasi profetica.



Oltre la barriera

Si tratta ancora oggi, insomma, di elaborare un'idea operativa nuova di opposizione in rapporto al nemico principale, la liberaldemocrazia capitalista, ricordando come anche i fascismi storici, nati all'interno delle società democratico-liberali, si contrapposero in primo luogo ad esse e costituirono, almeno inizialmente, un fenomeno radicalmente originale, animato da un profondo progetto innovatore. In questo senso, non possono essere ridotti ad una semplice risposta al bolscevismo, essendosi sviluppati da radici culturali proprie, con un processo anteriore e parallelo a quello della rivoluzione comunista, che svolse semmai il ruolo di catalizzatore della rivoluzione fascista e non quello di sua causa. Alla luce di tutto ciò, i riti della «religione dell'antifascismo» celebrati da forze di presunta opposizione antagonista quali Rifondazione Comunista, si mostrano per quello che sono: un armamentario che legittima «lo stato di cose presente». Il continuare a descrivere il fascismo come una sorta di metafisica espressone del Male (sopruso, dittatura, ignoranza, inefficienza); negare l'esistenza di filoni che mantennero all'interno di esso integra tutta la loro carica rivoluzionaria; ignorare l'attenzione posta dal PCI degli anni Cinquanta verso i reduci della RSI, insistere sempre e comunque in un atteggiamento di chiusura escludendo perfino l'ipotesi della possibilità di un superamento delle barriere artificialmente tenute in piedi che dividono le forze anti-sistema significa svolgere un ruolo di oggettivo supporto al modello di sviluppo liberista. Quel che oggi si può opporre a tale modello in fatto di alternativa economica, concezione statutaria, giustizia sociale ha i propri fondamenti storici, infatti, nel movimento rivoluzionario che soffiò forte nel bolscevismo e nel fascismo delle origini, portatori di istanze capaci di fronteggiare il modello demo-liberale capitalista. La pregiudiziale antifascista, alle soglie del XXI secolo, trasforma i sedicenti comunisti occidentali in oggettivi fiancheggiatori della globalizzazione. In Italia, la triste involuzione di Rifondazione Comunista sta a dimostrarlo.

Filippo Ronchi




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