Contro la Spagna "anti fascista" e reazionaria di Franco
Maurizio Barozzi (4 luglio 2015)
«Un grande equivoco storico, scaturito da esigenze geopolitiche, costato caro al fascismo e all’Italia e chiarito definitivamente negli anni '60 dai fascisti della FNCRSI»
M. B.
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«In Spagna abbiamo aiutato il "porco" sbagliato: Francisco Franco».
Con questa autocritica il Fuhrer non espresse solo il suo disprezza verso un miserabile che era andato al potere grazie all’apporto italo tedesco e poi, nel momento della lotta epocale e mortale, del sangue contro l’oro, si era tirato indietro, ma pronunciò anche tutta una serie di sacrosante considerazioni:
«Quello di Franco è un regime per il quale io ho ora, se possibile, meno simpatia che mai, un regime di profittatori capitalisti, fantocci della cricca clericale! Non perdonerò mai a Franco di non aver riconciliato gli spagnoli una volta terminata la guerra civile, di aver dato l'ostracismo ai Falangisti, a cui la Spagna deve riconoscenza anche per l'aiuto da noi dato, e di aver trattato come banditi gli ex-avversari i quali erano ben lungi dall'essere tutti Rossi. Porre la metà di un Paese fuorilegge mentre una minoranza di saccheggiatori si arricchisce con la benedizione del clero, a spese degli altri, non è affatto una soluzione.
Io sono certissimo che ben pochi dei cosiddetti Rossi, in Spagna, erano davvero comunisti. Fummo gravemente tratti in inganno, poiché se io 'avessi saputo qual era la vera situazione, non avrei mai consentito ai nostri aerei di bombardare e distruggere una popolazione affamata, reinsediando al contempo il clero spagnolo in tutti i suoi orribili privilegi. un regime per il quale io ho ora, se possibile, meno simpatia che mai, un regime di profittatori capitalisti, fantocci della cricca clericale! ».
Purtroppo la partecipazione dell’Italia Fascista alla guerra civile spagnola, dalla parte di Franco, fu un tragico scherzo del destino, o meglio delle necessità geopolitiche, degli schieramenti internazionali che verso la fine degli anni trenta obbligavano a certe posizioni.
Gli interessi dello Stato, della Nazione, quelli per i quali i romani dicevano: «il bene supremo è la salvezza della patria», non sempre si accordano con gli ideali, con il desiderio di molti fascisti, soprattutto quelli cosiddetti di "sinistra" che sperarono fino all’all’ultimo che ci saremmo schierati con la Repubblica.
Il nostro intervento in Spagna avvenne per ragioni geopolitiche, sfruttate poi anche propagandisticamente nell’ottica, mal ripagata, della difesa della cristianità (Concordato), ma questa era propaganda. Ma ci furono anche forti opposizioni specialmente dai reduci del dannunzianesimo fiumano ed anche qualche fascista che andò e combatterono per la Repubblica.
Scrive Francesco Lamendola:
"Quando i fascisti di sinistra sognavano di fare la guerra di Spagna contro Franco",(http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=38846):
«La loro illusione durò sino alla guerra di Spagna, quando invano sperarono che il fascismo intervenisse contro Franco, a fianco dei repubblicani. Delusi, alcuni di loro (Vittorini, Bilenchi, Pratolini) si avvicinarono fra il 1939 e il 1940 al partito comunista clandestino, e parteciparono poi alla Resistenza. In un primo tempo, però, fra il 1936 e il 1939, i fascisti di sinistra, sconfitti e amareggiati, ripiegarono sulla letteratura, avvicinandosi ai "letterati-letterati". La rivista che dette voce a tale confluenza fu la fiorentina "Campo di Marte", diretta nel 1938-39 da Vasco Pratolini e Alfonso Gatto. Qui si incontrarono ermetici e populisti, unificati dalla tensione verso un’essenza universale dell’Uomo che solo l‘arte sarebbe in grado di cogliere. Valore assoluto dell’arte e credo umanitario potevano così saldarsi. Berto Ricci, da giovane, aveva simpatizzato per l’anarchia, prima di aderire con convinzione al fascismo: non quello dei gerarchi, ma quello dei lavoratori; nulla di straordinario in ciò: era stato lo stesso percorso di uomini come il filosofo Giovanni Papini, come il pittore Lorenzo Viani o come lo scrittore Marcello Gallian; ed era stato, non si deve dimenticarlo, un percorso abbastanza simile a quello dello stesso Mussolini. Non si vuol dire, con ciò, che la maggior pare degli anarchici sia confluita nel fascismo; ma che non si trattò di casi isolati e scandalosi. Anche il sindacalista Cianetti era uno che deprecava come le esigenze della politica estera avessero reso necessario un intervento italiano a sostegno della Spagna clericale e conservatrice di Francisco Franco, invece che al fianco del governo repubblicano; ma il cuore dei fascisti di sinistra aveva continuato a battere per la causa repubblicana, non per quella franchista».
Ma gli interessi geopolitici presero i sopravvento e così finimmo per combattere a favore di Franco. Mussolini, sotto banco, aveva avuto il consenso inglese, e sperava di erigersi a pilastro antisovietico nel continente, conferendo cos’ alla nazione un ruolo di media potenza. I tedeschi invece sfruttarono il diversivo spagnolo, come avevano sfruttato quello Ethiopico (appoggiavano l’Italia, ma la contempo fornivano armi al Negus, e non per commercio, ma per far perdurare la guerra in Abissinia), per perseguire le loro rivendicazioni e al contempo sperimentare armi ed aerei.
Ci guadagnò quel farabutto di Franco.
Comunque sia il franchismo non è neppure lontanamente paragonabile al fascismo, neppure con quello pur conservatore del ventennio, con buona pace di avvoltoi missisti, che belavano verso il Caudillo e ne raccattavano qualche spicciolo.
Del resto il neofascismo in genere, che nulla ha a che fare con il fascismo e tanto meno con il fascismo repubblicano e socialista, è sempre stato dalla parte della conservazione, della reazione, dei regimi fantoccio messi in piedi per servire gli interessi statunitensi. Così erano state le simpatie e le assimilazioni con i Colonnelli greci e con Pinochet, le tante amicizie che esponenti missisti vantavo con quella ributtante figura di Fulgenzio Batista, il ladrone che sconfitto da Castro e Guevara fuggi all’estero portandosi dietro le casse dello Stato.
Anche nel dopoguerra la politica di destra di Franco, il suo regime conservatore non era neppure lontanamente paragonabile a quello del ventennio, dove Mussolini, pur governando in regime sostanzialmente conservatore, trovò il modo di varare immense riforme sociali e grandi opere a vantaggio del popolo.
Ma fu la Repubblica Sociale Italiana, lo spartiacque epocale del fascismo, laddove, nulla del passato si rinnegava, ma si andava oltre e il fascismo trovava la sua espressione ideologica nella Repubblica e nel Socialismo.
Fu così che nel dopoguerra i conti si fecero con tutti, con le componenti reazionarie filo monarchiche e filo liberali che avevano gironzolato nel fascismo ed anche con la Spagna di Franco. Questa infatti finì oltretutto per fare da ruota di scorta per l’Alleanza Atlantica, proponendosi subito, dopo l’uscita di De Gaulle dal comando integrato Nato, come rincalzo, a conferma della natura filo Occidentale e servile di tutti i regimi di destra. Regimi di destra, militari, dittatoriali, come quelli dei Colonnelli greci e di Pinochet, che gli americani hanno utilizzato come servi per risolvere momenti di difficoltà strategica, ma poi hanno sempre buttato a mare, perché per le strategie mondialiste sono molto più confacenti i regimi progressisti e democratici, che questi fantocci.
Cosicchè nel 1966 la FNCRSI, ex combattenti della RSI, quindi I FASCISTI, non i neofascisti, tennero a Roma in un teatro una memorabile conferenza dove appunto si denunciò il Franchismo e l’operato di Franco che, di fatto, aveva anche appositamente negato la possibilità di salvezza per Josè Primo De Rivera e lo lasciò fucilare, eliminando così, deliberatamente, la pericolosa componente socialista nella Falange.
Una Falange infatti che venne dopo, e fu una squallida associazione di comodo, funzionale al regime franchista.
Quella conferenza a cui seguirono 4 articoli saggistici, sul periodico della FNCRSI "Corrispondenza Repubblicana" ("Spagna: dalla falange all’opus Dei") suggellò finalmente la presa di posizione storica dei fascisti repubblicani, con grande rabbia e scorno del MSI.
Da notare che pochi anni prima l’amico dei "camerati in divisa", l’uomo salvato dagli angloamericani nel 1945, ovvero Giorgio Pisanò, filo atlantico e filo sionista doc, che oggi sappiamo era colluso con il "noto servizio", il criminale servizio segreto anomalo "l’Anello", assieme al suo amico ed ex commilitone Tom Ponzi (vedesi le documentazioni fornite da A. Giannuli: "Il noto servizio" Castelvecchi, 2013 e S. Limiti, "L’anello della repubblica", Chiarelettere 2014), aveva sparato dalle pagine della sua nuova rivista "Secolo XX", fin dal primo numero, una faziosa rievocazione a puntate della guerra civile di Spagna, in linea con i dettami reazionari e i più vieti luoghi comuni.
Quella rivista infatti, finanziata anche da Cefis, doveva servire per criticare i primi governi di centro sinistra, presentando l’apertura a sinistra nel 1963 di Moro, come un cavallo di troia per portare al governo il PCI. Vi si faceva appunto il paragone con i precedenti governi spagnoli che portarono alla guerra civile, per aver sottovalutato il partito comunista. Erano gli stessi temi che poi il desso, andò a illustrare al convegno, sponsorizzato dal SIFAR, all’Hotel Parco dei Principi per le orecchie dei ratti reazionari italiani (quasi tutti collusi con i Servizi), e la gioia della intelligence americana, che appunto, di lì a poco utilizzò il neofascismo per la sua strategia della tensione.
In questo sito (http://fncrsi.altervista.org/), sulla sinistra nella home page, la Sezione PERIODICI. Consente di accedere all’archivio della stampa e su Corrispondenza Repubblicana.
Ci sono le annate. In quella del 1966 e un numero di gennaio del 1967 ci sono gli articoli a puntate "SPAGNA: DALLA FALANGE ALL’OPUS DEI". Sono nei numeri 6, 7, 8, e 9 di settembre 1966 / gennaio 1967.
Articoli che, comunque, per la loro importanza, riportiamo qui sotto integralmente
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SAGGISTICA Settembre / gennaio 1966 /’67
1 - SPAGNA: DALLA FALANGE ALL'OPUS DEI - 30 ANNI DOPO
Alle elezioni del 16 febbraio 1936, le ultime prima del pronunciamento militare di luglio, la Falange non aveva ottenuto in parlamento nessun seggio; i comunisti, che in precedenza ne avevano uno solo, riuscirono a conquistarne 14 su 467. La Falange non contava più di 8.000 iscritti e il PC spagnolo arrivava appena a 12.000. Tuttavia la Falange fu messa fuori legge, le sue sedi chiuse, i suoi capi arrestati. Ciononostante fin dai primi giorni della rivolta nazionalista le formazioni falangiste sono a fianco dei soldati, delle guardie civili, dei «requetés» nelle caserme assediate e sulle sierre. Esse giocheranno un ruolo di primo piano nel corso di tutta la guerra civile. Dall'altra parte, il 5° reggimento, organizzato dal partito comunista, si rivelò fin dalle prime settimane come l'unico reparto efficiente al servizio della Repubblica.
È certo che la «Repubblica dei professori» -come la chiamavano con disprezzo gli anarchici- non sarebbe sopravvissuta per tre anni senza l'appassionato appoggio dei comunisti.
Così i due partiti che avevano meno rilievo sul piano parlamentare e minore influenza sulla politica governativa e sull'opinione pubblica furono quelli che dettero alle due parti in lotta un contenuto ideologico ed una fede politica per cui combattere.
I ventisei gabinetti che si succedettero dalla proclamazione della Repubblica, nell'aprile 1931, al luglio del 1936, furono tutti retti da coalizioni guidate da radicali. Un primo periodo, dall'aprile 1931 al novembre del '33, vide il governo di Manuel Azaria, di tendenze più progressiste, al quale, oltre che i radicali, collaboravano i progressisti di Alcalà Zamora ed i socialisti di Largo Caballero e di Iudalecio Prieto e che era appoggiato esternamente dai sindacati di sinistra e dagli anarchici. Una coalizione analoga si riprodusse, sempre sotto la guida di Azaria, dopo le elezioni del febbraio '36.
Il biennio novembre 1933 - dicembre 1935 fu invece caratterizzato da un governo più moderato di centro-destra, guidato dai radicali di Lerroux ed apppoggiato dalla CEDA (Confederación Espanõla Derechas Autonomas) che raggruppava le correnti cattoliche liberal-conservatrici e che fu aspramente combattuto sia dalle destre monarchiche e tradizionaliste sia dalle sinistre.
Se si possono comprendere certe tendenze reazionarie del governo Lerroux, assai meno comprensibile appare ad un osservatore non preparato la timidezza riformistica dei governi progressisti di Azaria. A parte qualche intervento legislativo spicciolo nella disciplina dei contratti collettivi e dei minimi salariali, unica questione di fondo che i governi progressisti cercavano di affrontare fu quella agraria, ma anche qui, malgrado l'opposizione delle destre economiche si dimostrasse assai debole, ci si limitò ad una riforma parziale circoscritta ad alcune regioni del Sud e del Sud-Ovest e che, per i larghi indennizzi assicurati ai proprietari -data la disastrosa situazione delle finanze repubblicane- ebbe scarse possibilità di realizzazione. Nessun intervento statale fu tentato in campo industriale ed il settore creditizio restò il più sacro tabù dei governi repubblicani, anche negli anni roventi della guerra civile.
I radicali e la Repubblica
In realtà gli uomini che ressero la Repubblica* gli Azaria, i Lerroux, i Portela Valladorès, i Martinez Barrio, i Casares Quiroga, altro non erano che intellettuali neo-illuministi, provenienti dalla borghesia colta delle grandi città e strettamente legati agli ambienti economici e finanziari della borghesia internazionale.
La maggior parte del capitale investito nelle miniere e nelle industrie spagnole era capitale straniero. La rete telefonica spagnola era di proprietà di una compagnia americana. La società inglese del Rio Tinto possedeva i maggiori giacimenti di pirite e la società del Tarsis, con sede a Glasgow, i grandi giacimenti andalusi di rame. La compagnia Armstrong controllava un terzo della produzione del sughero. I francesi avevano in mano le miniere d'argento di Penarroja e quelle di rame di San Plato; i belgi buona parte della produzione del legname, il settore ferroviario e tranviario, nonché le miniere delle Asturie. Una società canadese controllava l'elettricità della regione catalana.
Non per nulla i modelli ideali cui questi uomini si ispiravano erano la democrazia inglese (nel 1935 la Gran Bretagna assorbiva da sola il 50% delle esportazioni spagnole e destinava alla Spagna il 17% delle sue), ma soprattutto la Francia laicista di Leon Blum e l'America di Roosevelt. Essi rinnegavano il passato del proprio paese («metteremo un lucchetto alla tomba del Cid» - dicevano) e intimamente disprezzavano il popolo che si erano trovati a governare come una massa di ignoranti, fanatici, indisciplinati e superstiziosi.
L'unico contatto che essi avevano con la realtà spagnola era la forzata alleanza, con le masse marxiste ed anarchiche, che essi non comprendevano e da cui non erano compresi, forti soprattutto nelle zone industriali (Catalogna, Asturia, Valenza) e tra il misero proletariato agricolo dell'Andalusia. Ma era un contatto privo di ogni calore umano, una gelida e ipocrita complicità cui sottostavano soltanto perché rappresentava il malfermo piedistallo del loro potere. Di fronte all'intellettuale, illanguidito nelle biblioteche francesi ed a stento abbronzato una volta l'anno dal sole di Biarritz, il proletario spagnolo amava e stimava assai più nel suo cuore il giovane aristocratico con cui aveva militato nelle guerre marocchine: ascetico nei gusti, arrogante nei modi, generoso con gli amici, con i nemici spietato, spagnolo insomma, dalla testa ai piedi.
Più che nei dirigenti sindacali di estrema sinistra era naturale, dunque, che questa classe dirigente trovasse i suoi più sicuri collaboratori in quella parte, invero piuttosto esigua, della casta militare e burocratica che fin dall'800 era stata affiliata alle logge massoniche (non è un mistero che quasi tutti gli ufficiali superiori e gli alti funzionari che rimasero fedeli alla Repubblica nel 1936 erano massoni), come del resto lo era la maggior parte degli esponenti politici del regime.
Invero una delle costanti dei governi radicali prima del '36 fu la politica di «appeasement» verso la casta militare. Nelle sommosse anarchiche e separatiste nelle Asturie, in Andalusia, in Catalogna, fra il '32 e il '34, i governi repubblicani non esitarono a dar via libera ai generali nelle repressioni, erigendosi a gelosi garanti dell'ordine e della legalità, contro le violenze di piazza, salvo poi ad avvalersi di queste per allontanare dai posti-chiave dell'esercito e della marina gli ufficiali più pericolosi. Essi volevano mostrarsi alla borghesia conservatrice come l'unico baluardo valido, appunto per la loro elasticità ed il loro progressismo, contro gli estremisti di sinistra, così da non perderne interamente l'appoggio e potersene servire ad ogni occasione -come in effetti si servirono finché fu possibile- per controbilanciare la pressione delle masse «sovversive». Anello di congiunzione erano quegli strati borghesi legati alla massoneria o comunque permeati dal pensiero laicista.
La politica antireligiosa
Coerenti alla loro matrice filosofica, l'unico campo in cui i radicali spagnoli misero tutto il loro impegno e mantennero ancor più di quanto avessero promesso fu nella lotta contro la Chiesa e contro la religione cattolica.
L'art. 3 della Costituzione, promulgata il 9 dicembre 1931, dichiarava: «Lo Stato spagnolo non ha nessuna religione ufficiale» e Manuel Azaria, all'atto di assumere la prima volta la carica di presidente del consiglio, dichiarò con soddisfazione: «La Spagna ha cessato di essere cattolica».
A modello della nuova carta costituzionale era stata presa la costituzione di Weimar, senza alcuna elaborazione dottrinaria e giuridica che ne adattasse i princìpi non solo ai caratteri peculiari della società civile spagnola, ma anche alle più recenti esperienze politiche degli altri paesi. Tale era l'astrattezza formale della nuova carta che lo stesso Lerroux ebbe a dire più tardi che ne era derivata «una repubblica spagnola che tutto era meno che spagnola».
Come conseguenza del dichiarato agnosticismo di Stato e dell'ateismo dichiarato dei principali dirigenti politici, fu abolita l'istruzione religiosa, furono negate le congrue ai parroci (benché queste rappresentassero una forma di indennizzo per l'espropriazione dei beni ecclesiastici del 1873), fu introdotto il divorzio, furono soppressi alcuni ordini religiosi e tutti furono sottoposti sotto un rigoroso controllo di polizia; furono vietate le processioni e le funzioni religiose senza uno speciale permesso dell'autorità governativa, ecc.
Se questi erano gli insegnamenti che giungevano dal vertice del regime, di che stupirsi se sempre più spesso folle di anarchici si davano ad incendiare chiese e ad uccidere preti? È troppo noto, del resto, come durante la guerra civile l'ostilità della Repubblica verso la Chiesa divenne, tranne che nelle province basche, aperta persecuzione.
Fu proprio sul terreno della violenza che il gioco radicale, consistente nello strumentalizzare le masse socialiste ed anarchiche per imporsi ai conservatori senza nel contempo perderli completamente, fallì.
Estranei per atteggiamento mentale alla psicologia del loro popolo, i professori del '31 non tennero nel conto dovuto di operare sul corpo vivo della Spagna, un paese che non ama i compromessi e le mezze tinte, dove i confini tra il si e il no sono netti e precisi come il filo di una lama, spietati come, l'ombra delle sierre sugli altopiani nei meriggi d'estate, un paese dove ciascuno ha il dovere in ogni istante di sapere da che parte si trova della barricata.
L'ora dell'estrema sinistra
Il gioco radicale per la conquista del potere è fatto in tutti i paesi di sfumature, di compromessi non dichiarati, di equilibri sottili, di alleanze tra correnti e controcorrenti all'interno dei partiti, di concessioni accordate oggi e revocate domani. Tutto ciò non funzionò in terra di Spagna e l'equilibrio si ruppe sul sagrato delle chiese incendiate, gettando in poche settimane i radicali spagnoli in braccio all'estrema sinistra. Quell'estrema sinistra che essi volevano manovrare e di cui divennero gli spauriti strumenti.
La politica antireligiosa offese milioni di spagnoli. La violenza mistica degli anarchici, questo fenomeno tipicamente spagnolo (solo in questo paese gli anarchici svolsero un ruolo di portata politica), trovò riscontro nella fiera reazione dei monarchici tradizionalisti, altro fenomeno caratteristico della storia iberica. Quando il 18 luglio 1936 i generali Franco, Queipo de Llano, Mola, Goded insorsero contro il governo, dai villaggi della Navarra, della Castiglia, del Leon masse di contadini accorsero nelle file dei «requetés», le antiche milizie dei Re, e si posero agli ordini dei generali ribelli. La Falange, che contava alcune migliaia di iscritti, i cui capi erano rinchiusi nelle prigioni, e che fino all'ultimo aveva rifiutato la propria adesione alla congiura dei militari, se questi non si fossero impegnati per un'energica rivoluzione sociale, aveva in campo alla fine di luglio 60.000 uomini, asserragliati nelle caserme di Madrid, di Toledo, di Oviedo, di Barcellona o allineati sulla Sierra de Guadarrama o in Estremadura, accanto ai regolari e ai legionari del Tercio.
Dall'altra parte gli operai di Madrid, di Bilbao, della Catalogna e delle Asturie, i contadini nomadi dell'Andalusia imbracciavano le armi, pronti a difendere l'onore della Repubblica e le speranze che in essa avevano riposto.
Fra i miliziani i reparti comunisti si distinsero subito per combattività e per disciplina. Di fronte alle responsabilità della guerra il controllo effettivo della Repubblica scivolò gradatamente dalle mani dei radicali a quelle dei socialisti di sinistra, dei comunisti.
Il ruolo dei comunisti
Formalmente il governo continuò ad essere composto in un primo momento di repubblicani progressisti e di radicali, più tardi anche di socialisti. I comunisti non volevano correre il rischio che una loro partecipazione diretta al governo potesse allarmare l'Inghilterra di Eden e gli altri Stati borghesi che, come la Francia, avevano promesso aiuti alla Repubblica. Ma l'influenza dei comunisti nella politica di Madrid e nella condotta della guerra si fece sempre più incisiva, specie quando dall'ottobre 1936, cominciarono a giungere nei porti repubblicani gli aiuti sovietici, costituiti da armi, aerei, carri armati, nonché dà piloti e istruttori dell'armata rossa.
L'atteggiamento di Mosca, tuttavia, nei riguardi della crisi spagnola fu quanto mai ambiguo e dominato soprattutto da considerazioni di politica estera. In quell'epoca Stalin stava per dare inizio all'interno ad una nuova purga di elementi trotzkisti; nella politica estera, nel mentre cercava l'amicizia delle democrazie occidentali francese e britannica, non voleva inimicarsi la nuova Germania hitleriana, verso cui aveva già mostrato le sue simpatie. L'orientamento nazionalistico della sua politica, d'altronde, faceva sì che la Spagna, così lontana dai confini russi, non costituisse di certo oggetto delle sue mire.
Non così era per i bolscevichi in esilio i quali intravedevano la possibilità di giocare nuovamente a Madrid la partita che avevano perduto in patria, trasformando la Spagna nella seconda potenza bolscevica e facendone la base della loro politica mondiale in antitesi con l'indirizzo staliniano.
Se Stalin, dopo molte esitazioni -dettate dal timore di spaventare Londra e Parigi e insieme di fare cosa sgradita a Hitler, che già aveva iniziato ad aiutare i nazionalisti- si indusse alla fine a disporre attraverso il Comintern l'invio di aiuti alla repubblica borghese di Azaria e di Girai, lo fece per rintuzzare le accuse che già i seguaci di Trotzkij gli muovevano di essere il «liquidatore e traditore della rivoluzione spagnola, istigatore di Hitler e di Mussolini» e per impedire agli stessi trotzkisti di impadronirsi delle organizzazioni comuniste spagnole facendo leva sulle brigate internazionali, che, per la loro composizione, in cui confluivano socialisti di diverse nazionalità e di diverse origini ideologiche, erano il terreno ideale per la loro propaganda. È singolare che tra gli uomini che Stalin inviò in Spagna a rappresentarlo nell'agosto 1936 fossero per lo più ebrei e di sospette tendenze trotzkiste, come l'ambasciatore Rosemberg, il console generale a Barcellona Antonóv Ovscenko, Kolkov, Straszeskij ed altri. Furono quasi tutti liquidati come revisionisti o prima ancora che si concludesse l'avventura spagnola o negli anni che seguirono il secondo conflitto mondiale. Nel 1949 nell'Unione Sovietica bastava il fatto di aver collaborato politicamente o militarmente con la repubblica spagnola per essere processati come sospetti di attività «anti-partito».
L'azione di Togliatti
L'uomo di punta di Stalin in Spagna fu probabilmente Palmiro Togliatti, il più abile fra i comunisti spagnoli e stranieri sul suolo iberico. È a lui che devono essere state affidate le fila della politica sovietica nei riguardi della Spagna repubblicana.
Questa politica fu diretta in un primo periodo a fare del PC spagnolo l'arbitro della situazione interna, ispirando la politica governativa dei premiers socialisti Caballero e Negrin. Strumenti di questo disegno furono la direzione centralizzata dell'esèrcito -sottratto ai capi miliziani e sottoposto ad una rigida disciplina che non lesinava la pena capitale ai comandanti e la decimazione ai reparti che si sottraevano al fuoco- e lìeliminazione dell'opposizione anarchica e del POUM (Partito Obrero de Unificaciòn Marxista), di ispirazione trotzkista, nelle tragiche giornate barcellonesi del maggio 1937.
In una seconda fase, negli ultimi mesi di vita della Repubblica e dopo il ritiro delle brigate internazionali, si ha l'impressione che la politica di Togliatti, nonostante la volontà dei comandanti comunisti di resistere ad oltranza, fosse quella di liquidare al più presto l'affare spagnolo, spingendo il governo Negrin a rompere con i militari massoni e gettando nel caos i resti delle annate repubblicane. Così facendo, Togliatti, mentre faceva apparire i comunisti come gli ultimi eroi della Repubblica, ne affrettava l'agonia, rendendo un servizio prezioso a Stalin, ormai legato a Hitler dal patto Ribbentrop.
Nell'ottobre 1936, a garanzia degli aiuti che avrebbe prestato, Mosca si era fatta consegnare dal governo di Madrid le riserve auree della Banca di Spagna. Il carico giunse ad Odessa il 6 novembre e poco tempo dopo veniva annunciata la scoperta di nuovi giacimenti d'oro negli Urali. L'URSS era stata preferita all'Inghilterra e alla Francia come la più sicura amica della Repubblica Spagnola.
2 - SPAGNA TRENT'ANNI DOPO: DALLA FALANGE ALL'OPUS DEI
Nella primavera del 1937 la Spagna era spaccata in due, dai Pirenei alla Sierra Nevada. La linea del fronte attraversava la valle dell'Ebro e i monti di Temei; tagliava poi la Castiglia Nuova e l'Andalusia fino al mare: a nord ovest i nazionalisti, a sud-est e lungo la costa cantabrica i repubblicani.
Dopo la difesa di Madrid e l'insuccesso dell'offensiva nazionalista su Guadalajara, il conflitto aveva assunto chiaramente i caratteri di una lunga guerra di logoramento. Ciò imponeva, e al tempo stesso agevolava, estremizzando i contrasti, il consolidamento politico all'interno dei due campi avversari. La primavera del 1937 fu a questo riguardo decisiva.
Le discordie in campo repubblicano si conclusero con la conquista dell'egemonia da parte dei comunisti. Non meno drammatici furono gli avvenimenti che divisero il campo nazionalista. Il primo elemento di forza su cui avevano fatto leva i generali rivoltosi fu l'esercito. La debolezza dei governi che avevano guidato il Paese dall'inizio del secolo XIX avevano trasformato l'esercito in un fattore determinante della vita civile spagnola. Il pronunciamento militare era così diventato una carta abituale nel gioco politico.
* L'esercito e la massoneria
La forza dell'esercito consisteva, nel 1936 come nel passato, nei valori tradizionali del soldato spagnolo, che fondevano i quadri e la truppa in unità compatte, fedeli e di elevata capacità combattiva. Ciò non impedì talvolta ai militari di porre questa forza, rappresentata dalla fedeltà ai valori tradizionali, ali servizio di partiti o di concezioni con cui essi non avrebbero dovuto avere nulla in comune. Già nel 1934 essi avevano finito per appoggiare i liberali contro i monarchici carlisti. Non bisogna dimenticare che anche in Spagna, come altrove in Europa, la prima metà del secolo scorso fu l'epoca d'oro della massoneria, la cui influenza si faceva sentire anche negli alti comandi militari.
Uomini d'ordine, l'errore tipico che i militari compiono sul terreno politico è quello di ritenere che qualsiasi ordine meriti di essere difeso, senza curarsi di ciò che sta dietro ad esso e delle implicazioni politiche ed ideologiche del regime che essi contribuiscono ad instaurare. Quando si inducono a ribellarsi al potere legittimo è solo perchè questo si è dimostrato impotente ad assicurare l'ordine e la legalità. È questo il limite che porta così spesso i militari ad allinearsi sulle stesse posizioni della borghesia conservatrice.
* Francisco Franco, borghese conservatore
Il modo in cui Franco riuscì ad imporsi agli altri capi militari nei primi mesi della guerra civile, senza che alcuno lo avesse investito di questa autorità, indica la straordinaria abilità di questo giovane generale, accorto, paziente, deciso.
Privo di autentiche qualità geniali, sia sul piano militare che su quello politico, Francisco Franco aveva la rara dote di saper attendere e di saper afferrare il momento propizio senza mai porre avventure. Egli sapeva fare in modo che gli eventi maturassero creando condizioni favorevoli alle sue capacità personali di capo ed evitando invece quelle situazioni che era ben conscio di non saper dominare. Buon tattico, ma mediocre stratega, evitò che le campagne si risolvessero in scontri decisivi, preferendo frantumare la lotta in battaglie isolate che non impegnavano a fondo le sue forze e che, del resto, si guardava bene dal dirigere personalmente.
Più volte Hitler e Mussolini gli rimproverarono di menar le cose troppo per le lunghe, affermando che con gli aiuti che essi gli avevano inviato avrebbe potuto concludere la guerra in pochi mesi. Ma Franco preferiva logorare l'avversario di cui conosceva l'intrinseca debolezza, ed esaurirne nelle estenuanti battaglie sui fronti aragonesi il potenziale bellico di cui esso disponeva grazie agli aiuti militari stranieri.
Ma un'altra considerazione, oltre a quella di risparmiare i suoi reparti (a differenza dei repubblicani, i nazionalisti non erano ricorsi alla coscrizione obbligatoria), deve aver ispirato la tattica temporeggiatrice di Francisco Franco: la consapevolezza che il prolungamento della guerra rafforzava la sua posizione di «generalissimo» delle armate nazionaliste e gli dava modo di indebolire le opposizione interne.
Ogni settimana che passava aumentava il prestigio del «Caudillo» e la sua sfera di potere, mentre riduceva lo spazio degli organismi rivali. Se la guerra si fosse conclusa troppo rapidamente, egli si sarebbe trovato di fronte ai suoi colleghi su un piede di quasi parità ed avrebbe avuto a che fare con due organizzazioni; i Requetés e la Falange, nel pieno del loro vigore.
L'obiettivo di Franco nel primo anno di guerra fu quello di liquidare questi due movimenti, privandoli della loro carica rivoluzionaria e trasformandoli in docili e innocui strumenti del suo regime. Intanto l'importante era vincere, e a tal fine era doppiamente vantaggioso tenere subito saldamente in pugno tutte le forze del campo nazionalista.
* Franco liquida i carlisti
Nell'inverno 1936-37 i carlisti commisero un errore fatale, offrendo a Franco l'occasione per colpirli. Per colmare i vuoti aperti nelle file dei Requetés dagli ufficiali caduti in combattimento, i carlisti decisero di istituire un'accademia militare. Ma non informarono il Caudillo del loro progetto. Fai Conde, capo e organizzatore del partito, ricevette l'ordine di lasciare la Spagna entro quarantotto ore sotto l'accusa di aver tentato un colpo di stato. Franco avrebbe voluto farlo fucilare, ma ebbe timore delle ripercussioni sul morale dei 30.000 Requetés impegnati sul fronte. I carlisti dovettero obbedire e fu un colpo dal quale non si ripresero più.
Più difficile si presentava il problema della Falange. Essa era scesa nella lotta con un programma preciso, cui intendeva restare fedele. Quando, durante la campagna elettorale che precedette la consultazione del febbraio 1936, si prospettò la possibilità di una adesione della Falange al Fronte Nazionale, che raggruppava la destra, dai monarchici ai cattolici di Gil Robles, José Antonio de Rivera, il giovane capo della Falange, condizionò l'alleanza all'accoglimento di due precise richieste:
1) una riforma del credito, comprendente la nazionalizzazione delle banche;
2) una riforma agraria da attuarsi in senso rivoluzionario, lasciando in seconda linea la questione dei risarcimenti.
Queste tesi -com'era naturale- non trovarono alcun consenso e la Falange si presentò sola alle elezioni, patetico Don Chisciotte fra i due grandi blocchi. La forza elettorale dei falangisti era inconsistente e le destre non avevano alcun bisogno dei loro voti. Ebbero però bisogno, sei mesi dopo, dei 60.000 volontari da schierare sui campi di battaglia.
* La posizione politica della Falange
La Falange aveva anche rifiutato di prender parte alla cospirazione dei militari. Dal 14 marzo del 1936 la maggior parte dei suoi capi erano rinchiusi nelle prigioni repubblicane, gli altri comunicavano tra loro clandestinamente. Il 24 giugno, José Antonio dal carcere di Alicante riuscì ad inviare una circolare clandestina ai dirigenti locali in cui raccomandava di non aderire agli inviti di collaborazione rivolti loro dai militari e di non lasciarsi strumentalizzare per fini che non erano quelli del Movimento.
Se la Falange -ammoniva- partecipasse ad una impresa incompleta e prematura, in veste di comparsa o di semplice truppa ausiliaria, ne deriverebbe, anche in caso di trionfo, la sua sconfitta e la sua estinzione. La Falange -continuava- voleva la creazione di uno Stato nazional-sindacalista in conformità con i 27 punti del suo programma e non «la restaurazione di una mediocrità borghese conservatrice», per la quale ora si voleva sfruttare il suo intervento. Per i conservatori le formazioni falangiste non sarebbero state altro che una specie di forza d'assalto, una milizia giovanile da far sfilare il giorno della vittoria davanti ai «fantasmones» impadronitisi del potere.
Se questa era la netta posizione assunta da José Antonio, non ci si può stupire che in seguito, in occasione di uno scambio di prigionieri, ci fosse in campo nazionalista chi si oppose a inserire nella lista il suo nome.
Ma le severe disposizioni impartite da José Antonio de Rivera si mostrarono inapplicabili di fronte all'incalzare degli avvenimenti. Davanti al sangue che scorreva per le strade, i dirigenti locali, isolati gli uni dagli altri e separati dalla direzione centrale, si lasciarono prendere la mano dalle esigenze dell'azione: scesero in campo rinunciando a condizionare il loro appoggio a garanzie precise o credendo che queste fossero già state concordate al vertice dell'organizzazione. A nulla servì quanto sancito con tanta decisione nel punto 27: «Sarà nostro ardente impegno di sostenere la lotta per la vittoria solamente con le forze sottoposte alla nostra disciplina. Non scenderemo a patteggiamenti; solamente nella fase conclusiva per la conquista dello Stato, la direzione farà trattative per una necessaria collaborazione. Ma in questa dovrà essere sempre assicurato il nostro predominio».
Gimenez Caballero, il teorico falangista, aveva detto qualche anno prima che in José Antonio si raccoglievano quasi tutte le possibilità di vittoria. Il suo augurio di amico era che egli ne sapesse fare uso con successo.
José Antonio fu fucilato nel carcere di Alicante il 20 novembre 1936. I repubblicani avevano liberato Franco del rivale più pericoloso.
Gli successe come capo provvisorio della Falange Manuel Hedilla, un meccanico di Santander. La sua posizione era fra le più difficili. In pochi mesi il Movimento aveva decuplicato i suoi effettivi. Se ciò aumentava il suo contributo sul piano militare, determinava anche uno stemperamento ideologico fra le file dei nuovi iscritti ed un conseguente indebolimento politico di tutto l'organismo, aggravato dalla perdita dei quadri dirigenti, caduti in combattimento, imprigionati, giustiziati.
* Franco contro la Falange
In questo quadro si muove la manovra politica di Franco. La capacità dei comandanti e l'eroismo dei soldati non bastavano da soli, occorreva dare al fronte nazionale un contenuto ideologico, un programma per la direzione del futuro Stato. Consigliato dal cognato, Serrano Sufier, ex-dirigente della CEDA ed ora ardente «camicia nuova», Franco fece suoi molti dei 27 punti del manifesto della Falange, ponendo accuratamente in ombra tutto ciò che potesse suonare allarme alle classi conservatrici (nazionalizzazione del credito e delle aziende di interesse pubblico, eliminazione dei grandi monopoli industriali, riforma fondiaria, ecc.).
Con il decreto di unificazione, emesso a Salamanca il 19 aprile 1937, la Falange e i Requetés venivano riuniti in una sola unità politica, che assumeva il nome alquanto eclettico di «Falange Espanda Tradicionalista y de la JONS» (le antiche squadra di offensiva nazional-sindacalista fondate da Ledesma Ramos e da Onésimo Redondo). Per non lasciar fuori nessuno, venivano fatti confluire nel nuovo partito unico anche i volontari cattolici e repubblicani di destra provenienti dalla Renovaciòn Espanola e dalla Acciòn Popular. Di li a qualche mese i ranghi vennero ulteriormente allargati, facendovi entrare d'ufficio i funzionari governativi e gli ufficiali delle forze armate. Il decreto di Salamanca significava per Franco assicurarsi non solo il controllo ideologico e politico di tutte le forze del fronte nazionale, ma significava soprattutto la neutralizzazione della vecchia Falange, privata di ogni dinamica interiore. Nei mesi successivi Franco consoliderà il suo trionfo, fino alla formazione del primo gabinetto nel gennaio 1938. Nel nuovo governo le «camicie vecchie» avranno un solo esponente, Fernandez Cuesta, ministro dell'agricoltura.
La Falange reagì al decreto di unificazione. Nei giorni che precedettero immediatamente la sua emanazione, reparti di falangisti si concentrarono intorno a Salamanca, sede del quartier generale di Franco. Si verificarono disordini, un falangista rimase ucciso, è da pensare che il Generalissimo, di fronte alla minaccia, abbia affrettato la pubblicazione del provvedimento per mettere i suoi avversari dinanzi al fatto compiuto.
La Falange era l'unica in campo nazionalista ad aver compreso il significato europeo del conflitto spagnolo. Ma i governi di Roma e di Berlino non mossero un dito per salvarla. Avranno occasione di ricordarsene nel 1940.
All'azione tempestiva di Franco le camicie azzurre non cedettero. Nei giorni successivi al 19 aprile, Hedilla si presentò al quartier generale per porre a Franco le condizioni per l'appoggio della Falange al nuovo partito unico. Fu arrestato e con lui furono arrestati, fra il 24 e il 25 aprile, altri venti falangisti. Deferiti al Tribunale di guerra, Manuel Hedilla e altri tre dirigenti del movimento vennero condannati a morte, i rimanenti a pene detentive. In seguito la pena capitale fu commutata nel carcere a vita. Alcuni riuscirono a fuggire; furono ricatturati e fucilati.
Nell'ottobre 1936 José Antonio aveva dichiarato a un giornalista inglese del "News Chronicle", durante un'intervista in cui aveva ricordato il programma rivoluzionario della Falange: «L'unica cosa che so è che se la rivolta di Franco dovesse servire unicamente alla reazione, la mia Falange ed io ci ritireremmo e, per quanto mi riguarda, probabilmente tornerei in questo carcere, o in un altro nel giro di pochi mesi».
Le sue più tristi previsioni si erano avverate nella persona del suo successore. Ai superstiti che si riunivano ora nella casa di Pilar Primo de Rivera, sorella di José Antonio, non restava altro che contare i nomi dei compagni che continuavano a morire sui fronti nelle armate di Franco.
Nessun partito, né da una parte né dall'altra della trincea, perse nella guerra civile tanti capi quanti ne perse la vecchia Falange. Si calcola che il 60% degli iscritti di prima della guerra siano caduti nel conflitto. Il punto 26 del loro programma diceva: «La vita è milizia; essa deve essere vissuta con un servizio irreprensibile e con un ardente spirito di sacrificio». Questi uomini seppero vivere le idee in cui credevano.
«Voglia Iddio che la loro ardente ingenuità non sia mai impiegata in altro servizio che non sia quello della grande Spagna sognata dalla Falange» (dal testamento di José Antonio redatto nella prigione di Alicante il 18-11-1936).
3 - SPAGNA TRENT'ANNI DOPO: DALLA FALANGE ALL'OPUS DEI
Con l'entrata delle truppe nazionaliste a Madrid la mattina del 28 marzo 1939 la guerra di Spagna era praticamente finita. Franco ne dava l'annuncio ufficiale il 1° aprile. Lo stesso giorno il suo governo veniva riconosciuto dagli Stati Uniti come unico governo legittimo. In quell'occasione Roosevelt si pentì di non aver aiutato a suo tempo la Repubblica con maggior decisione. Il riconoscimento da parte dell'Inghilterra e della Francia era già intervenuto in precedenza, fin dal 27 febbraio, quando l'esito della battaglia di Catalogna aveva annunciato chiaramente la prossima vittoria del generalissimo.
La Falange spagnola appariva ora come la trionfatrice e l'arbitra dei destini del Paese. Ma essa non aveva più in comune con la Falange, per cui erano morti José Antonio e i suoi, se non il nome. Era il nuovo partito unico, svuotato di ogni contenuto ideologico, privato di quella temperatura spirituale e morale che era il tratto più incisivo della prima Falange.
Sei mesi dopo la fine della guerra civile l'invasione tedesca della Polonia dava inizio al secondo conflitto mondiale.
L'atteggiamento di Franco nel corso di questo può aiutarci ad illuminare non solo la visuale politica dalla quale il capo dello Stato spagnolo guardava gli avvenimenti mondiali, ma il significato stesso che egli dava alla sua vittoria.
Il mancato intervento a fianco della Germania e dell'Italia -se giudicato a posteriori- costituisce un omaggio indiscusso alla sua prudenza di politico e di militare, grazie alla quale risparmiò al suo Paese i lutti che si abbatterono sulle due nazioni «amiche» e che si sarebbero aggiunti a quelli sofferti durante la guerra civile. Ma esso rivela soprattutto la carenza di autentiche idealità del regime franchista e con esso della nuova Falange, per cui sfuggiva ad essi il senso profondo della II guerra mondiale, che era lo scontro frontale tra due concezioni della vita, tra due civiltà; era la rivolta dell'Europa tradizionale, con la sua concezione metafisica dell'uomo e della realtà, contro l'immanentismo democratico dei bisogni economici, incarnato nell'America rooseveltiana e nei suoi alleati europei: l'Inghilterra, traviata dalla Riforma e dall'egoismo mercantilistico, e la Francia, stanca erede dell'illuminismo e rinnegatrice dei propri valori cristiani, per i quali erano vissuti ed erano morti S. Luigi e Giovanna d'Arco. Non erano questi gli stessi ideali per cui erano accorsi nei reggimenti franchisti i volontari spagnoli?
Ma Franco era soltanto un rispettabile borghese, amante dell'ordine e della legalità, ed i suoi orizzonti non andavano al di là di un patriottismo conservatore, che lo induceva a non far scendere in campo i suoi uomini se non con l'assicurazione precisa di ingrandimenti territoriali a basso prezzo! Inoltre, in caso di disfatta, tutta la situazione interna spagnola sarebbe rimasta nuovamente sconvolta, con possibile danno di quella destra economica conservatrice che, a conti fatti, era la principale beneficiaria della vittoria franchista.
Il solo aspetto del conflitto che la mentalità del Caudillo riusciva ad afferrare -con il tipico errore di prospettiva degli uomini di destra- era l'anti-bolscevismo, che ne rappresentava, invece, soltanto un aspetto parziale. Come egli non aveva compreso nel 1936 che il vero nemico del popolo spagnolo non era il comunismo, ma l'anima laicista e radicale di quella squallida repubblica, così non comprese nel 1940 che il vero nemico dei popoli europei non era il bolscevismo staliniano, ma il democratismo occidentale, di cui il comunismo non era e non è che una filiazione spuria, che a tratti riesce -come nella Russia di Stalin e oggi nella Cina di Mao Tse-tung- a sfuggire alle lusinghe della sua matrice borghese.
Così l'unico contributo attivo dato dalla Spagna all'Asse fu l'invio di una divisione di volontari falangisti sul fronte russo.
Del resto sin dalla fine della guerra civile e mentre si stava profilando lo scoppio del secondo conflitto mondiale, il vittorioso Franco si era rivolto alla Gran Bretagna per ottenere un prestito per la ricostruzione, come consigliavano i solidi rapporti fra le banche spagnole e la finanza inglese, rimasti inalterati durante la guerra civile. Pochi mesi dopo l'Intelligence Service disponeva in Spagna di una rete di spionaggio che controllava tutta la penisola, tenendo in iscacco gli agenti tedeschi.
L'attendismo di Franco fino al 1942
Tuttavia nei primi anni di guerra la politica di Madrid fu, almeno nell'apparenza, favorevole all'Asse. È noto che Franco concesse alle squadre d'assalto della marina italiana ed ai sommergibili tedeschi l'uso dei porti spagnoli come basi di appoggio, sia pure con le cautele dovute per non comprometterlo sul piano diplomatico. In realtà i nazionalisti sentivano verso l'Italia e la Germania un debito di gratitudine e Franco -bisogna riconoscerlo- era uomo d'onore. Così permise anche ad una società tedesca la gestione delle miniere di ferro delle Asturie, né avrebbe potuto fare diversamente, dato che i tedeschi vi si erano già insediati nel 1936. Tale concessione controbilanciava, almeno in parte, i pesanti interessi inglesi sulle miniere di argento, di piombo, di rame.
Ma a chi guardi al di là di queste apparenze, che gli stessi governi italiano e tedesco erano costretti ad ingigantire davanti alle rispettive opinioni pubbliche, non sfugge che l'atteggiamento della Spagna franchista, sul terreno degli apporti concreti alla dinamica degli eventi, passò da una tolleranza forzata delle iniziative più o meno clandestine degli italo-tedeschi sul suolo iberico, fino ad uno sganciamento progressivo da Roma e da Berlino, mano a mano che le vicende militari prendevano per queste ultime una piega sfavorevole.
Se le campagne di Polonia e di Francia e l'entrata in guerra dell'Italia indussero Franco a passare dalla neutralità alla «non belligeranza» e ad occupare militarmente la zona internazionale di Tangeri (14 giugno 1940), tutto il seguito della sua politica non fu altro che uno sforzo tenace per tenersi ad ogni costo fuori della lotta. Il protrarsi della battaglia d'Inghilterra e lo sfumare di una rapida vittoria tedesca alimentarono la sua prudenza. Gli insuccessi italiani in Africa e in Grecia lo resero addirittura irremovibile.
Ben pochi conoscono, invece, quale apporto la Spagna avrebbe potuto recare e quanto il rifiuto del generalissimo abbia pesato sul seguito del conflitto.
Nell'estate del 1940 la presa di Gibilterra e l'occupazione dell'Africa settentrionale francese si ponevano come una necessità inderogabile, sia per precludere alla flotta inglese l'accesso al Mediterraneo da occidente, sia per impedire all'avversario di servirsi in un domani del Nord-Africa francese come base d'attacco contro la Libia e la penisola italiana. Dal Marocco alle Canarie si sarebbe potuto muovere -secondo i piani dell'Alto Comando germanico- su Dakar per minacciare gli Stati Uniti con attacchi aerei. Il realizzarsi di queste iniziative ossessionava Churchill e il Pentagono. La difesa di Gibilterra era inadeguata a sostenere un attacco combinato ispano-tedesco e più volte il governatore della rocca, sir Oliver Liddel, implorò l'ambasciatore inglese a Madrid di «procurargli tre mesi di pace per migliorarla». È probabile che il candido baronetto non sapesse di avere a Madrid un alleato ben più potente.
L'«amico dell'Asse»
L'«Operazione Felix» fu organizzata in tutti i particolari: materiale pesante d'artiglieria raggiunse le posizioni spagnole che dominavano lo stretto; un corpo di spedizione tedesco si addestrava in Francia, tenendosi pronto a partire. Il 23 ottobre 1940 Franco e Hitler si incontrarono a Hendaye. Fu fissata la data del 10 gennaio 1941 come giorno dell'attacco. Ma in nove ore di colloquio Franco riuscì ad eludere ogni impegno preciso. Poneva innanzi difficoltà annonarie, nel caso gli fossero precluse le importazioni di cereali dal continente americano; temeva per i piccoli possedimenti spagnoli nell'Africa equatoriale esposti a contromisure britanniche; chiedeva compensi territoriali in Marocco e in Algeria di tale ampiezza che avrebbero offeso irrimediabilmente l'orgoglio francese e che quindi sapeva bene Hitler gli avrebbe negato. A Hendaye si erano incontrati due uomini, dei quali l'uno concepiva la politica in termini di civiltà, l'altro nei limiti gretti del più vieto nazionalismo ottocentesco e borghese.
In seguito Franco riuscì a differire la data stabilita, rifiutandosi poi di fissarne una nuova. Il tempo stringeva. Finalmente il 12 febbraio 1941, nell'incontro di Bordighera, Mussolini fece su Franco un ultimo tentativo per indurlo almeno a consentire il passaggio del contingente tedesco sul territorio spagnolo. Il Caudillo uscì anche questa volta dal colloquio senza aver promesso nulla. Egli aveva procurato agli inglesi i tre mesi di cui avevano bisogno!
Resosi conto di non poter battere la Gran Bretagna nel Mediterraneo, Hitler, successivamente al 12 febbraio, prese in considerazione l'apertura del secondo fronte, attaccando l'Unione Sovietica! Franco, soddisfatto della sua vittoria diplomatica, poteva continuare ad osservare gli eventi.
Dopo lo sbarco nel Nord-Africa
Lo sbarco anglo-americano a Casablanca nel novembre 1942, che segue di pochi giorni l'inizio della ritirata di Rommel da El Alamein e coincide con l'accerchiamento di von Paulus a Stalingrado, segnò un netto cambiamento di direttive nella politica di Madrid.
Alla freddezza verso l'Asse si accompagnò una servile condiscendenza alle richieste anglo-americane. Anche Serrano Suner, che pur aveva aiutato il generalissimo nella liquidazione della vecchia Falange, appariva troppo compromesso; fu allontanato dal governo. La Division Azul fu ritirata dal fronte russo. Italiani e tedeschi vennero sloggiati dai punti d'appoggio segreti lungo le coste spagnole. Si rendeva la vita difficile agli agenti dei servizi di informazione dell'Asse. La polizia spagnola collaborava con l'organizzazione spionistica americana e con l'IS. I contatti diretti tra Franco e il governo britannico si fecero particolarmente intensi, come dimostra l'abbondante carteggio pubblicato in parte negli anni scorsi.
I meriti di Franco verso gli «alleati» non riuscirono tuttavia ad evitargli, a guerra finita, l'isolamento politico cui fu condannato, come ultimo Paese formalmente fascista. (Serviranno un decennio più tardi come referenze per l'ingresso della Spagna alle Nazioni Unite). A Londra il governo era passato ai laburisti e l'influenza dell'Inghilterra sulla politica internazionale era decisamente diminuita rispetto a qualche anno prima. Quanto a Washington, Roosevelt si era indotto nel 1942 a dimenticare gli stretti legami che lo avevano unito alla Repubblica ed a chiedere a Franco, per il tramite della diplomazia inglese, la sua condiscendente passività, solo perché in quel momento ne aveva bisogno. Una volta liquidata la Germania, la Spagna franchista non serviva più ed a Truman non costò nulla riprendere verso Madrid un atteggiamento ufficialmente ostile. Anzi esso poteva far salire in futuro il prezzo di un eventuale gesto magnanimo di riavvicinamento.
Così nel marzo del 1946 Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia con una dichiarazione solenne mettevano al bando il regime di Franco dalla vita politica internazionale e ritiravano da Madrid i rispettivi ambasciatori.
La Spagna in quarantena
Isolato all'esterno, a Franco non restava che appoggiare il suo potere sui due sostegni interni del regime, costituiti dal partito unificato e dalle gerarchie ecclesiastiche spagnole.
Per tenere insieme il primo egli si orientò, con la consueta cautela, verso l'elemento monarchico. Nel giugno 1946 promulgò la legge per la successione, la quale prevedeva la restaurazione della monarchia, rinviandola «a quando le circostanze esterne ed interne lo permetteranno». (Ciò confermava quanto poco contassero ormai i vecchi falangisti e le loro istanze repubblicane). Si ebbe in tal modo la singolare figura giuridica di uno Stato monarchico che non solo non aveva Re, ma non era neppure un regno.
La legge di successione non era in fondo che un mezzo per richiamare sulla persona del Caudillo l'interesse dei vari pretendenti al trono, sollecitati così ad accattivarsene la benevolenza, e ancor più per assicurarsi in tempi di tempesta l'appoggio dei benpensanti, i quali, lungi dall'avere una concezione sacrale della regalità, restano convinti che una monarchia, con l'apparato folcloristico che la circonda, offra una garanzia più sicura di una repubblica contro il disordine sovversivo. Ben più valido aiuto il regime poteva ricevere dall'ambiente ecclesiastico. E tutta la preoccupazione di Franco in quegli ultimi anni fu di non perderne la benevola protezione. Con una serie di provvedimenti legislativi il governo nazionalista, già negli anni della guerra civile, aveva reintegrato la Chiesa nei suoi diritti, conculcati dai governi repubblicani. Ciò non avrebbe dovuto essere altro che un atto di doverosa giustizia, ma il generale Franco -che prima del pronunciamento non aveva mai dato particolari segni di pietà religiosa- ne fece moneta di scambio. Centellinando i provvedimenti di anno in anno fino al Concordato con la S. Sede dell'agosto 1953, egli intese conservare sempre nelle mani in quegli anni difficili materia di scambio, dosando nel tempo quelle concessioni che in nessun caso avrebbe potuto rifiutare.
Malgrado ciò, l'orientamento verso la Chiesa rappresenta l'aspetto più positivo di tutta la politica franchista, assai più che per le convinzioni dell'uomo, per la tradizione cattolica del Paese, che non consentiva, dopo gli eccessi della guerra civile, una politica diversa, e per l'impronta dignitosamente virile che Pio XII sapeva dare ai rapporti tra la Chiesa e lo Stato.
Il ravvicinamento USA
L'isolamento politico in cui era caduta la Spagna non doveva durare a lungo. Numerosi fattori avevano mutato dopo il 1948 la situazione internazionale, inducendo i dirigenti statunitensi a rivedere le proprie posizioni.
La tensione della guerra fredda, la perdita del monopolio atomico, il conflitto coreano e la rivalutazione delle armi convenzionali, il fallimento della CED (Comunità Europea di Difesa) e la conseguente difficoltà di un riarmo tedesco-occidentale, le incertezze della situazione politica francese e italiana mettevano in nuova luce agli occhi dei militari del Pentagono il valore strategico della penisola iberica. Protetta dalla barriera naturale dei Pirenei, governata da un regime autoritario e con una solida tradizione militare, la Spagna rappresenta…
[…] (3)
… combattuta in nome della democrazia, e con la quale gli Stati Uniti si sostituirono alla Spagna nelle Filippine, a Portorico e nella stessa Cuba, ma soprattutto per la insanabile contraddizione tra lo spirito spagnolo e la concezione americana della vita e per l'istintiva avversione di ogni autentico spagnolo per tutto ciò che la mentalità yankee rappresenta.
Ma il generalissimo aveva già dimostrato in passato di saper passare sopra a molte cose. E chi gliene fu profondamente grata fu la parte progressista di quella borghesia finanziaria e imprenditoriale spagnola che, avida di raggiungere il livello della borghesia occidentale europea sulla via del benessere, vedeva nell'afflusso di capitale americano e nella ripresa capitalista che ne sarebbe seguita la sola prospettiva per poter realizzare le sue aspirazioni sociali ed economiche. Il neo-capitalismo entrava a bandiere spiegate nella Spagna «nazionalista» ed il regime poteva conquistarsi le simpatie di quei ceti borghesi che gli erano rimasti estranei dalla fine della Repubblica, e della nuova borghesia che si veniva formando.
4 - SPAGNA TRENT'ANNI DOPO: DALLA FALANGE ALL'OPUS DEI (ULTIMO CAPITOLO)
Il patto ispano-americano del 1953 venne presentato come un accordo di carattere puramente militare. In realtà fu una delle più brillanti operazioni economico-finanziarie intraprese da Washington dopo il piano Marshall.
Dopo i primi anni occorsi per vincere l'inerzia della situazione economica spagnola, l'aiuto americano non tardò a far sentire i suoi effetti. Nel decennio 1955-1965 si avviò un processo di espansione economica, tuttora in atto, che doveva superare le più ottimistiche previsioni. Anche la Spagna, come la Germania e l'Italia, ebbe cosi il suo miracolo economico.
I settori che hanno registrato il più forte incremento sono stati quello siderurgico, metallurgico, chimico, meccanico, edilizio, nonchè quelli del turismo e dei beni di consumo domestico. Stazionari restarono, invece, i settori dell'industria tessile e mineraria, oltre che -come avviene in tutti i processi di rapida industrializzazione- il settore agricolo. Gli squilibri tra i diversi rami produttivi e le inevitabili spinte inflazionistiche misero si in pericolo nei primi anni la bilancia spagnola dei pagamenti, che raggiunse deficit preoccupanti; ma occorre riconoscere che le misure stabilizzatrici adottate dal governo nel 1959 (soprattutto la svalutazione della peseta) valsero a contenere il fenomeno. Ciò non impedì il ripetersi di tali perturbazioni, tanto che nel 1965 il deficit della bilancia dei pagamenti aveva nuovamente raggiunto i 177 milioni e 500.000 dollari.
Anche il costo della vita subì un incremento vertiginoso. Prendendo come base il 1958, alla fine del 1965 esso era salito da 100 a 154,8. Nel solo 1965 aveva registrato un aumento del 6%.
Ma le formule keynesiane danno per scontate siffatte ripercussioni negative ed esse rientrano nel prezzo che un Paese deve essere disposto a pagare se vuole conquistare una evoluta struttura capitalistica. Prezzo economico -si intende- perchè degli altri prezzi le formule del Keynes non si occupano. E sul piano tecnico soltanto la più retriva destra economica può contestare al neo-capitalismo di saper raggiungere splendidi risultati.
In effetti, tra il 1956 e il 1965 la produzione industriale spagnola segnò un tasso di incremento oscillante tra l'8 e l'11%. Nel settore edilizio nel solo 1964 furono costruiti 257.000 appartamenti. Città come Madrid e Barcellona hanno subito in dieci anni uno sviluppo urbanistico come nessuna altra città europea se si eccettua Atene. Nel 1960 Madrid contava 2 milioni e 260.000 abitanti, all'inizio del '66 ne contava tre: Barcellona aveva un milione e mezzo di abitanti, oggi supera i due milioni.
L'incremento turistico è risultato un fattore di primaria importanza, contribuendo, assieme alle rimesse del milione di lavoratori spagnoli emigrati nell'Europa centrale, a riequilibrare la bilancia dei pagamenti.
* Lo stato liberista
La realtà è che l'ondata di benessere, che si va diffondendo in vari strati della società spagnola, ha il suo prezzo, anche sul piano economico.
Vivificato con gli aiuti finanziari e con un'accorta politica dei consumi il mercato spagnolo, la finanza internazionale è entrata pesantemente nel vivo dell'economia del Paese.
Le importazioni di merci dall'estero, provenienti in gran parte dal Nord-America, sono salite con un incremento annuo del 9%, passando in tre anni da 750 a quasi 3.000 milioni di dollari, mentre le esportazioni di prodotti spagnoli sono rimaste pressochè stazionarie, non avendo superato nello stesso periodo i 1.000 milioni di dollari all'anno.
Ma l'indirizzo più significativo della politica economica di Madrid nell'ultimo decennio è la vantata liberalizzazione del commercio estero.
Durante una visita negli Stati Uniti, nel settembre 1965, l'allora ministro delle finanze, Josè Espinosa, ebbe a dichiarare che «l'attuale legislazione spagnola in materia di investimenti è estremamente liberale. Nei settori più importanti della nostra economia le partecipazioni straniere possono raggiungere praticamente il 100% del capitale senza che occorra un'autorizzazione speciale». Invero ben pochi Stati sono cosi generosi di concessioni al capitale straniero.
Solo per un numero limitato di settori produttivi è richiesta un'autorizzazione governativa qualora gli investimenti superino il 50% del capitale dell'impresa! Come se non bastasse, la legge spagnola autorizza il rimpatrio dei capitali investiti e degli utili realizzati senza limitazione di somma; solo si richiede un periodo minimo di investimento. Non per nulla l'apporto di capitale straniero ha superato dal 1959 ad oggi -secondo le cifre indicate da Lopez Rodò, ministro incaricato dell'esecuzione del piano quinquennale attualmente in corso- i 500 milioni di dollari. Non occorre dire che gran parte di questi investimenti proviene dagli Stati Uniti, sia direttamente dalla banche americane, sia attraverso gli istituti finanziari mediati di carattere internazionale.
* Gli investimenti stranieri
Ma oltre ai capitali privati, di cui finora si è parlato, e che sfuggono ad un esatto controllo grazie alle norme liberali che disciplinano la materia (gli investimenti inferiori al 50% del capitale non sono soggetti ad alcuna autorizzazione), la nuova borghesia franchista può contare sui capitali pubblici investiti nell'esecuzione di opere dirette al potenziamento delle infrastrutture.
La Banca Mondiale di Washington, ad esempio, ha concesso a tale scopo al governo spagnolo nel 1965 la somma complessiva di 163 milioni di dollari, di cui 33 per l'ammodernamento della rete stradale, 65 per le ferrovie, 30 per gli impianti portuali, ecc. Nello stesso anno il governo americano offriva direttamente un prestito di 37 milioni di dollari per lo sviluppo dell'allevamento del bestiame e dell'industria delle carni.
Se si pensa alle cospicue partecipazioni americane nel capitale di molte banche che si definiscono tedesche, inglesi o svizzere, comunque interessate al mercato spagnolo, si può avere un'idea di quale sia la dipendenza economica della Spagna di oggi dagli ambienti finanziari statunitensi e come essa si accentui col passare degli anni. Non si può negare ai finanzieri americani di aver saputo giocare la carta franchista.
Sul piano politico tutto ciò significa la perdita definitiva di ogni spazio di manovra al di fuori della sfera politica statunitense. Evidentemente ciò non interessa la classe politica spagnola, il cui obiettivo principale è costituito -secondo quanto affermano i più qualificati rappresentanti del regime- dal «raggiungimento di un livello di vita più elevato per tutti gli spagnoli».
A questo nuovo corso, ispirato ai più puri principi borghesi del capitalismo illuminato, elevano osanna i cattolici progressisti spagnoli, fedeli interpreti di più alte direttive.
L'antica Spagna cristiana era terra di miracoli; è giusto che anche la Spagna neo-cristiana abbia il suo miracolo. Non sarà più la Vergine che appare tra le rupi di Montserrat, ma la curva del reddito annuo che sale nell'ufficio statistico del Banco di Spagna.
* Declino del partito nuovo
Era naturale che le ripercussioni politiche e sociali del boom economico mutassero, negli anni successivi al 1955, i rapporti di forza all'interno del Paese.
I nuovi punti d'appoggio del regime franchista divennero così l'amicizia degli Stati Uniti, che grazie alla massiccia presenza americana nella vita spagnola acquistava un peso decisivo anche nelle scelte di politica interna, e l'adesione alla politica governativa della nuova classe borghese e tecnocratica che si era sviluppata e rafforzata in relazione al miracolo economico.
Mano a mano che si affermavano i nuovi centri di potere, perdeva rilievo nella vita pubblica spagnola il partito unico cui Franco aveva imposto nel '37 il nome di Falange. Esaurita la sua funzione di principale sostegno del regime negli anni dell'isolamento internazionale, Franco poteva ora sbarazzarsi a poco a poco di questo strumento ingombrante, che nonostante fosse stato da tempo svitalizzato di ogni contenuto, recava il compromettente marchio di un nome e di un'origine legati a quel passato che i nuovi dirigenti di Madrid volevano far dimenticare e riscattare, reinterpretandolo in chiave occidentalista. In fin dei conti era un dovere di alleato aiutare il governo di Washington a dissipare gli ultimi scrupoli morali alla sinistra democratica americana e internazionale.
Presentarsi al banco della finanza mondiale con tutte le carte in regola: ecco la grande preoccupazione dei tecnocrati spagnoli degli anni '60. Dimostrare che non solo sul terreno economico si allineavano con le avanguardie del neo-capitalismo, ma anche sul terreno politico si ravvedevano ed accettavano i postulati fondamentali della dottrina democratica.
Se prima del '55 si poteva ancora chiedere a chi entrava a far parte del governo la tessera del partito unico, negli anni successivi anche questa pregiudiziale formale veniva a cadere.
Dai congressi giovanili, casse di risonanza delle decisioni del regime; ai campeggi estivi al rullo dei tamburi, la funzione di questo pesante organismo veniva sempre più risospinta verso i compiti marginali. Fu questo il malinconico declino di un partito nato morto dal decreto di unificazione dell'aprile 1937, il cui unico scopo era stato quello di fare da poggiapiedi al potere personale di Franco.
Saliva nel cielo di Spagna il nuovo astro dell'Opus Dei.
* Il ritorno del laicismo
In questo quadro, aperto dall'espansione neocapitalista e dal progressismo cattolico, si spiegava la grande manovra del laicismo per reinserirsi nella vita spagnola dopo lo scacco subito durante la guerra civile.
In una nazione profondamente religiosa come la Spagna e fiduciosa nella guida pastorale del suo clero, impadronirsi degli ambienti cattolici significava avere in mano il Paese. Fu il nuovo orientamento dato alla politica religiosa da Giovanni XXIII e da Paolo VI a permettere l'attuazione di un disegno cosi audace, che solo pochi anni prima sarebbe apparso impensabile. E furono le costituzioni del Concilio Vaticano II, e ancor più la propaganda montata intorno ai dibattiti conciliari, ad offrire ai laicisti i veicoli ideali per introdurre con successo nella società spagnola quell'armamentario di concetti razionalistici che cento e trenta anni di guerre sanguinose, dal 1812 al 1939, non erano riusciti ad imporre.
Le equivoche affermazioni sulla libertà di coscienza, questa parola mediata dall'eresia calvinista e così cara alla tradizione radicale; la riforma della liturgia, cui si è voluto dare un rilievo esagerato, quasi che la fede consista essenzialmente in pratiche rituali; l'ecumenismo religioso, diretto ad instillare nei fedeli l'idea che la religione altro non sia che una filosofia della vita, come tale disgiunta da ogni realtà sacramentale e da ogni contatto soprannaturale con Dio; la concezione profondamente antireligiosa dell'origine volontaristica della società e quindi dell'autorità che ad essa presiede; l'affermazione blasfema, e più volte ripetuta in conferenze e sermoni, che scopo della Chiesa, come comunità dei cristiani, è servire l'uomo ed il mondo, come se la tradizione e le scritture non avessero insegnato a servire solo Dio; tutto ciò ha gettato nel più angoscioso disorientamento quella grande parte del popolo spagnolo che, attraverso sacrifici ed eroismi, aveva saputo difendere la purezza della fede.
Andando incontro all'eresia contemporanea, gli uomini della Chiesa hanno lasciato intendere che scopo primo della società è il conseguimento del benessere materiale esteso al maggior numero dei suoi membri e che, di conseguenza, la democrazia e il capitalismo illuminato rappresentano le forme di organizzazione della società civile più conformi alla verità evangelica.
In un simile contesto la revoca della condanna storica del popolo ebraico era un corollario che si imponeva, se non altro in riconoscimento dei meriti acquisiti dal quel popolo nei secoli per il trionfo degli ideali immanentisti. Essa è soprattutto indicativa di quali forze internazionali abbiano esercitato la più vivace pressione sulle decisioni conciliari.
* L'«Opus Dei»
La grande carta del progressismo cattolico in Spagna è l'«Opus Dei».
I ministri che hanno occupato in questi anni i posti-chiave nel governo di Madrid, come Ullastres, già ministro del commercio ed oggi ambasciatore straordinario presso il MEC, Lopez Rodò, ministro del piano per lo sviluppo economico, Garcia Monco, ministro delle finanze, Lopez Bravo, attuale ministro del commercio, sono tutti uomini dell'Opus Dei. Ma non si può conoscere esattamente chi ne faccia parte, perchè per i suoi membri l'impegno apostolico è «qualcosa che riguarda l'intimità della coscienza».
S'ingannerebbe tuttavia chi giudicasse questa organizzazione una consorteria di tipo massonico o un gruppo di potere a sfondo classista. Anzi la sua caratteristica consiste proprio nel non presentarsi, e nel non volersi presentare, come un gruppo di potere.
Fondato da mons. Escrivà de Balaguer, questo istituto secolare, che ha ottenuto l'approvazione della S. Sede nel 1950, quando Montini occupava la carica di prosegretario di Stato, è aperto soprattutto ai laici, ma non esclude dalle sue file sacerdoti o religiosi che vi vogliano entrare.
Diffuso in tutto il mondo, la sua presenza si esaurisce per lo più in opere di assistenza e formazione professionale. Ma, essendo caratteristica del suo apostolato adattarsi alle necessità e circostanze di ogni situazione e Paese, ecco che in Spagna esso ha assunto un preciso carattere politico, facendo da ponte tra l'oligarchia finanziaria internazionale e la tradizione cattolica spagnola.
Nessuna istituzione avrebbe potuto assolvere questo compito meglio dell'Opus Dei.
L'ideale dei suoi membri è raggiungere la perfezione cristiana nell'attività professionale di ogni giorno. Per essere buoni cristiani ed entrare nel regno della Grazia basta essere buoni tornitori, buoni propagandisti di commercio, buoni ingegneri o... buoni ministri. I più brillanti esperti di relazioni umane non avevano scoperto uno stimolo così potente per incrementare il rendimento produttivo!
L'OD non ha una propria scuola teologica -ci pensano gli altri a indottrinarla-, nè ha una sua visione politica dei problemi. Teoricamente i suoi membri possono essere socialisti o democristiani, falangisti o -perchè no?- radicali, senza che ciò abbia alcuna importanza. Importante è che lavorino bene, inseriti nel sistema economico di cui fanno parte, che di solito è quello ad indirizzo neo-capitalista. Non per niente i centri dell'Opus Dei sono particolarmente attivi nei Paesi in via di sviluppo.
È la retorica della quotidianità, l'esaltazione del trasformismo più squallido. Non avendo una propria opinione -non si parla neppure di princìpi- il membro dell'OD accetta e rispetta tutte le opinioni; considera persino una mancanza di carità additare ai fratelli i loro errori o esortarli con una testimonianza del suo cristianesimo. Cosi egli si mimetizza, adattandosi ad ogni ambiente, condividendone le aspirazioni e i bisogni: lo impone la regola, in conformità ai dettami dell'evoluzionismo biologico. Va da sè che la democrazia è l'habitat naturale di un siffatto individuo.
Un'istituzione del genere sembra fatta apposta -e lo sarà senz'altro- per dare via libera alle più sfrenate correnti progressiste. Se c'era qualcosa di più estraneo alla sana anima spagnola, questo era la regola del singolare sodalizio che osa fregiarsi del nome di «Società Sacerdotale della S. Croce (Opus Dei)». Quei «valori» che non avevano messo radici in terra di Spagna sotto la Repubblica di Azana e di Girai, vengono ora imposti in nome del cristianesimo.
* I tecnocrati di Madrid
I gruppi finanziari internazionali trovarono nei tecnocrati dell'Opus Dei i loro più efficienti servitori.
Non avendo lo Stato altri compiti al di fuori del soddisfacimento dei bisogni materiali, la politica diventa una professione come un'altra, priva di ogni dimensione superiore. L'uomo politico non può e non deve essere portatore di una concezione della vita, ma soltanto un tecnico, capace di assolvere con abilità le sue mansioni amministrative.
Il pensiero dell'Opus Dei ha colto il momento giusto per adeguare la morale cristiana alle più pericolose tendenze della borghesia illuminista: dare agli Stati un governo di tecnici che sappiano realizzare una «politica delle cose», non di politici che inseguano «illusorie teorizzazioni».
La società civile non ha bisogno di idee nè di principi, ma di cose, e non importa se per realizzare queste ultime si debbano abbandonare i primi, o distorcerli cinicamente al servizio delle seconde. Invertendo la scala dei valori naturali, è la politica subordinata alla economia ed alla socialità, il superiore subordinato all'inferiore.
Nel tracciare le linee del nuovo Stato che la sua Falange voleva, Josè Antonio aveva affermato che i fini dello Stato si potevano sintetizzare nel «porre il nazionale e il sociale sotto il dominio dello spirituale». Dalla sua morte il regime franchista ha fatto molta strada...
Quello che gli uomini dell'Opus Dei seppero fare sul piano economico si è già veduto. Ma fu sul terreno politico che essi giocarono un colpo maestro: attuare il passaggio dello Stato franchista allo Stato democratico-tecnocratico.
A tale scopo questi alchimisti del democratismo hanno trovato una nuova formula: la «democrazia organica».
Senza parlamento, senza elezioni, essi hanno saputo realizzare all'interno del regime una vivace dialettica, che fa incontrare intorno allo stesso tavolo correnti politiche tra loro distanti, le quali corrispondono più o meno alla destra, al centro e alla sinistra, come si trovano nelle democrazie parlamentari.
Non sapendo che farsene delle idee, la democrazia organica ha però il vantaggio di aver superato il sistema dei partiti. Accantonato anche il partito unico, la «democrazia» spagnola è diventata la precorritrice dei tempi nuovi.
«La Repubblica di Azaria» -scrive Manuel Fraga Iribarne, uomo di punta del regime e dal 1962 ministro del turismo- che pure era «sostenuta dalle classi medie progressiste» fu costretta a cedere «alla violenza degli ambienti rivoluzionari di estrema sinistra» non perchè il principio democratico fosse errato in se stesso ma perchè, a causa della frammentazione dei partiti, il parlamentarismo non funzionò.
Oggi il regime franchista ha offerto alle classi medie progressiste uno strumento politico più adeguato, un «governo di competenti», che non si chiede quali siano i fini ultimi della politica che persegue, ma obbedisce docilmente alle direttive impartite dai gruppi di pressione.
* La crociata occidentalista
Anche nelle relazioni internazionali gli ultimi anni segnano un accentuarsi della subordinazione di Madrid agli interessi statunitensi.
Nel 1963 veniva rinnovato il patto di cooperazione ispano-americano ed ai mesi che precedettero l'accordo risalgono le ultime iniziative di Franco al di fuori della tutela americana. Ma gli assaggi a Parigi e a Bonn ebbero probabilmente l'unico obiettivo di far salire il prezzo dell'adesione spagnola.
Oggi Madrid è lanciata sulle posizioni più avanzate dell'offensiva occidentalista di Washington. La politica spagnola in questo campo si fa addirittura ambiziosa.
Sfruttando la posizione geografica e culturale del Paese, essa offre agli Stati Uniti la sua mediazione su tre direttrici: il mondo arabo, l'America latina, l'Europa, con il confessato scopo di far trionfare la causa di una comunità atlantica che comprenda l'Europa e le due Americhe e si estenda ai paesi africani.
La classe dirigente franchista si sente cosi «investita di una missione unificatrice consistente nell'avvicinare l'Europa all'Africa e all'America». Sono parole dell'ex ministro degli esteri Martin Artajo. Anche il neo-colonialismo americano ha trovato il suo violino di spalla.
Nonostante i legittimi sospetti di Nasser e la sfrontatezza di Madrid -che nel mentre lusinga i mussulmani è prodiga di vergognose adulazioni verso Israele e gli ebrei- le iniziative verso il mondo arabo hanno incontrato un certo successo. Nel 1963 avveniva lo incontro di Barajas tra Franco e il re del Marocco Hassan II, noto occidentalista, la cui amministrazione è legata a filo doppio al Pentagono e alla CIA, come ha dimostrato a sufficienza il caso Ben Barka. Seguiva l'anno dopo un accordo commerciale ispano-marocchino. Riguardo all'Europa, la Spagna si propone oggi alla attenzione di Washington come alternativa al fallimento della NATO, dovuto alla vivace fronda gollista. La cooperazione ispano-americana potrebbe essere domani il perno di un nuovo sistema di alleanze strategiche.
Come Paese che gode l'incondizionata fiducia degli Stati Uniti, la Spagna si sta preparando da anni ad entrare, spalleggiata dalla Casa Bianca, nel Mercato Comune. Se fino ad oggi non si è raggiunto un accordo completo è solo perchè l'economia spagnola non è ancora matura per un abbattimento troppo rapido delle barriere doganali.
D'altronde l'alto livello degli ideali europeistici dei dirigenti madrileni è rivelato dal loro modo di concepire lo spirito dell'integrazione europea, il cui scopo precipuo sarebbe quello di «permettere a tutti i popoli del continente di migliorare le proprie condizioni economiche e sociali». È questo che si chiama avere una visione politica del futuro dell'Europa!
Verso l'America latina l'offerta di servire da ponte ad una sempre più pesante influenza statunitense è ancora più spinta.
Nella sua visita a Washington nell'aprile 1966, Fernando Maria Castiella, attuale ministro degli esteri e principale artefice di questo nuovo indirizzo, ha detto testualmente che il desiderio del suo governo è che «tutti i Paesi europei possano collaborare con gli americani in una grande opera di comprensione internazionale. I problemi dell'America latina hanno bisogno di attenzioni generose e costanti da parte degli Stati Uniti, ma necessitano anche della collaborazione effettiva di tutti i Paesi d'Europa».
Era il contro-canto all'affermazione di Dean Rusk di quattro mesi prima: «Tra Washington e Madrid vi è comunità di interessi di ogni ordine: politici, strategici, diplomatici».
In occasione del Pan American Day, data di esaltazione del sistema interamericano celebrata da tutti i Paesi membri dell'OSA (Organizzazione degli Stati americani) veniva sanzionato un accordo ispano-statunitense per l'installazione da parte della NASA di una nuova grande base nelle Canarie. Nel 1940 Franco aveva rifiutato a Hitler l'uso di quelle isole perchè ciò avrebbe offeso la dignità nazionale del popolo spagnolo.
In quello stesso giorno, veniva inaugurato davanti alla sede dell'OSA, alla presenza di Castiella, un monumento a Isabella la Cattolica, la regina che aveva permesso a Colombo la scoperta delle Americhe. Anche la corona dei Re Cattolici veniva così deposta ai piedi della statua della libertà capitalista.
* Di nuovo Gibilterra
Può stupire che in un clima del genere, con il Paese coperto da una rete di installazioni militari americane, il governo di Madrid si agiti tanto da qualche anno per ottenere dalla Gran Bretagna la restituzione di Gibilterra, occupata senza contestazioni dal 1713.
Gibilterra significa per Franco lenire le ferite arrecate all'orgoglio nazionale spagnolo dalla sua politica verso l'America e dall'invadenza USA nel Paese. Con questo gesto di patriottismo domestico -a spese della Inghilterra che non serve più, proprio perchè soppiantata nella penisola iberica dalla potenza americana- il generale spera di riacquistare un po' del suo prestigio, rinverdendo sulla via del tramonto i suoi trascorsi nazionalistici.
È significativo che, quando nel gennaio 1966 l'ordigno atomico caduto da un B52 delle basi americane contaminò migliaia di persone, la notizia fu diffusa da Madrid solo dopo la consegna di un'ennesima nota su Gibilterra. L'onore era salvo!
FNCRSI
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