martedì 26 maggio 2015

L’eccidio dei fratelli Govoni uccisi a guerra finita dai partigiani “rossi”


di Antonio Pannullo
Quella dei sette fratelli Govoni, di Pieve di Cento, di cui ricorre il 70° anniversario del massacro, è certamente una delle pagine più atroci della guerra civile italiana tra fascisti e partigiani. La loro storia non si insegna a scuola, per loro non c’è un museo, le scolaresche non vengono intruppate per vedere dove vissero e dove morirono. Su migliaia di libri sulla guerra civile, neanche dieci parlano di loro. Eppure la loro tragedia e quella della loro famiglia è indicativa per rappresentare l’atmosfera di selvaggia violenza, di terrore, di intimidazione e di omertà che in quegli anni regnava in Emilia Romagna e altrove. Accusati di essere fascisti, in realtà solo due di loro avevano risposto alla chiamata obbligatoria della Repubblica Sociale Italiana, furono sottoposti a torture indicibili e linciati dalla brigata partigiana Paolo dopo torture e sevizie durate ore. La più giovane di loro, Ida, che aveva solo vent’anni e non si occupava di politica, fu sequestrata mentre stava allattando la figlia di due mesi e brutalmente assassinata. Dei sette fratelli Govoni solo uno risultò essere morto per un colpo di arma da fuoco, mentre gli altri furono massacrati a botte, bastonate, calci e infine steangolati col filo del telefono. I fratelli Govoni, tutti contadini da generazioni, erano in tutto otto, ma una, Maria, si era trasferita dopo il matrimonio e i partigiani non riuscirono a rintracciarla. La storia è resa ancora più penosa dal fatto che dopo il massacri  i parigiani buttarono i corpi in un fossato anticarro e si rifiutarono di dire ai genitori dove fossero le spoglie. Addirittura la madre Caterina fu derisa e poi picchiata a sangue da due donne dopo che aveva implorato un partigiano del paese di dirgli dove fossero sepoliti i suoi sette figli. Il partigiano avrebbe risposto: «Procurato un cane da tartufi e vai a cercarli». Tutti nel paese sapevano, perché il massacro era stato perpetrato da decine di persone, ma nessuno parlava, perché i comunisti tenevano il circondario nel terrore di nuove vendette e omicidi. Solo qualche anno dopo chi sapeva parlò: era il fratello di una delle vittime della furia partigiana, che raccontò tutto ai carabinieri. Nel 1949 i componenti la brigata garibaldina che si era macchiata di quella strage furono denunciati, ma nel frattempo gli assassini erano stati messi al sicuro in Cecoslovacchia grazie all’aiuto logistico del Partito Comunista Italiano. Questo come è noto avvenne per molti altri responsabili di omicidi nei confronti di civili innocenti, come ad esempio nel caso degli assassini di un settantenne inerme, tale Giovanni Gentile.


La strage dei Govoni fu preceduta tre giorni prima da un altro massacro

La strage dei fratelli Govoni era stata preceduta, tre giorni prima, da un’altra mattanza da parte dei partigiani garibaldini della zona: il giorno 8 maggio la banda sequestrò la professoressa Laura Emiliani, il vecchio podestà Sisto Costa insieme con la moglie Adelaide e il figlio VIncenzo; rapiti anche altri nove cittadini di Cento: Enrico Cavallini, Giuseppe Alborghetti, Dino Bonazzi, Guido Tartati, Ferdinando Melloni, Otello Moroni, Vanes Maccaferri, Augusto Zoccarato e Alfonso Cevolani, fratello di quel Guido che in seguito rese nota la vicenda. Processati il 9 maggio da un “tribunale” partigiano che emise una sommaria sentenza, i 12 furono tutti strangolati. Successivamente furono depredati dei loro pochi averi, che furono spartiti tra gli assassini. Questo è noto come il primo eccidio di Argelato. L’11 avvenne il secondo eccidio, che vide protagonisti proprio i fratelli Govoni e altri cittadini innocenti. Dei sette, come accennato, solo due, Dino e Marino, avevano aderito alla Rsi. Dopo il 25 aprile erano stati convocati dal Cln che non riuscendo a muovere loro alcun addebito li rilasciò. Ma la brigata Paolo aveva deciso diversamente: quel giorno rintracciarono tutti i sette fratelli e li portarono in casale, detto casale Grazia, dove poi fecero giungere alla spicciolata decine di altri elementi della brigata partigiana. Non contenti, i partigiani andarono nel paese di San Giorgio di Piano a sequestrare altre dieci persone, tre delle quali addirittura appartenenti alla stessa famiglia, il nonno Alberto, il padre Cesarino e Ivo Bonora, 19enne. Gli altri erano Guido Pancaldi, Ugo Bonora, Alberto Bonvicini, Giovanni Caliceti, Guido Mattioli, Vinicio Testoni, Giacomo Malaguti. Per dire con quale accuratezza i partigiani colpivano i fascisti, basti dire che Malaguti era un soldato dell’Esercito del Sud che aveva combattuto contro i tedeschi a Montecassino. Comunque, furono tutti rinchiusi nel casale insieme ai partigiani, dove per ore furono seviziati, picchiati, bastonati, presi a calci. Quelli che non morirono per le torture furono strangolati. L’esame autoptico rivelò sulle loro ossa incrinature e fratture. Come al solito, i loro beni furono rubati dalgi assassini. In seguito, e fino a oggi, la ferrea legge dell’omertà ha impedito di sapere quante persone e quali uccisero i sequestrati. Chi parlava moriva. Nel 1951 finalmente furono individuate due fosse comuni con le vittime dei partigiani: nella prima c’erano 25 corpi, nella seconda altri 17, tra cui quelli dei fratelli Govoni. Il processo, quello vero, si concluse con quattro ergastoli, comminati però esclusivamente per l’omicidio del tenente Malaguti, e non per gli altri assassinii. Le pene però, come detto, non vennero mai scontate da nessuno, in quanto i principali responsabili erano già riparati all’estero. In seguito intervenne l’amnistia Togliatti. Ancora molti anni dopo, e dopo molte esitazioni, lo Stato riconobbe a Cesare e Caterina Govoniuna pensione di settemila lire: mille per ogni figlio trucidato.

http://www.secoloditalia.it/2015/05/leccidio-dei-fratelli-govoni-uccisi-guerra-finita-dai-partigiani-rossi/

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