venerdì 3 ottobre 2014

SE ANCHE DAVIS



SE ANCHE DAVIS,
RIFERIMENTO DELLA CULTURA UFFICIALE,
SMANTELLA LA CULTURA UFFICIALE…

Gennaro De Crescenzo

Regno delle Due Sicilie, Nord e Sud, industrie, primati, 1799, 1848, Croce: avevano ragione i Neoborbonici.
“Quoque tu, Davis? Anche tu, Davis?
Proprio John Davis (Storia italiana ed europea allUniversità del Connecticut), uno degli storici più accreditati nel mondo accademico italiano e tra gli intellettuali “ufficiali”, ha fatto quello che dovrebbero fare tutti gli storici veri e cioè ha continuato e aggiornato le sue vecchie ricerche, ha rivisto molte delle sue posizioni e ha scritto.  
Solo che tutto questo avviene in un libro ("Naples and Napoleon: Southern Italy and the European Revolutions, 1780-1860") del 2006 tradotto “solo” dopo 8 anni e appena pubblicato dalla Rubbettino (Napoli e Napoleone, L'Italia meridionale e le rivoluzioni europee 1780-1860).
Nel frattempo solo silenzio, un lungo silenzio da parte dei colleghi italiani di Davis e dei media fino a quando Gigi Di Fiore, autore di controstorie numerose e di grande successo sempre a proposito di “risorgimento” (1) su Il Mattino del 2/9/14 ha rotto questo silenzio con una puntuale e chiarissima recensione del testo.
Nessuno di noi ha mai ipotizzato complotti degli accademici riuniti nelle caverne alla luce di fumose candele ma il complotto esiste di fatto quando gli stessi accademici evitano di pubblicare o di tradurre certi libri, evitano i dibattiti che certi libri provocano ed evitano magari pure di pubblicizzarli sui media locali e nazionali presso i quali sono spesso essi stessi recensori e/o opinionisti.
E’, in fondo, quello che è capitato ai vari Daniele, Malanima Ciccarelli, Fenoaltea, Tanzi, Collet (2) o al prof. Eugenio Di Rienzo (La Sapienza di Roma) con il suo documentatissimo libro sugli interessi inglesi verso le Due Sicilie (3) o al prof. Luigi  De Matteo (Istituto Universitario Orientale di Napoli) con i suoi numerosi saggi e il suo ultimo libro (4) in cui si evidenziano i danni derivati dall’unificazione e si dimostra che l’economia del Sud preunitario seguiva un suo coerente e spesso efficace progetto di sviluppo.
Più facile, allora, rifugiarsi nell’attacco ai Neoborbonici o magari a Pino Aprile e al suo best-seller “Terroni”, punto di riferimento del neo-meridionalismo e bersaglio preferito negli ultimi anni: tutti “storici senza patente” che però hanno avuto il merito oggettivo di costringere quegli accademici a dibattiti, a ricerche e pubblicazioni che non avevano e non avrebbero mai concesso, come dimostrano gli ultimi (appena appena) 130-140 anni di storiografia piatta e omologata.
Qualche esempio? Il medievista Barbero prestato alla storia risorgimentale che avrebbe voluto smantellare il mito negativo di Fenestrelle e della deportazione dei soldati delle Due Sicilie al Nord (5) o la prof.ssa Renata De Lorenzo che avrebbe voluto smantellare i miti Neoborbonici (6), entrambi smentiti, documenti alla mano -se mi fate passare questo piccola auto-recensione- nel mio ultimo libro (senza repliche, finora), Il Sud dalla Borbonia felix al carcere di Fenestrelle (7).
Pronti, invece, gli stessi accademici, ad amplificare oltre ogni misura e oltre ogni merito oggettivo, le ricerche di chi, senza alcun contributo innovativo e smentito da molte delle sue stesse fonti, si omologava alla vulgata ufficiale (su tutti il testo di E. Felice sulle motivazioni per le quali il Sud sarebbe arretrato (8), le stesse che Davis smentisce categoricamente).
E via con paginate intere e senza diritto di replica e, come ricorda Di Fiore sul Mattino, con migliaia di righe spese a polemizzare su “sudisti”, borbonici o antiborbonici…
La stessa postfazione del testo di Davis appena pubblicato, polemizzando proprio contro “revisionisti” o “nostalgici”, dimostra essa stessa l’importanza di quella pubblicistica così superficialmente condannata dai soliti censori.
Curioso, poi, che l’autore della postfazione sia lo stesso traduttore esperto, oltre che di lingua inglese, di religiosità e di santi: una post-fazione molto “post-faziosa”, carica di molti spunti contro le stesse tesi di Davis e di una polemica del tutto fuori contesto (Davis l’avrà letta?) contro le “farsesche” diatribe tra “sudismi e nordismi”, contro i “revisionismi inventati” (altro che inventati: bastava leggere meglio il testo tradotto…).
 “Chiunque scriva su questo periodo -afferma giustamente, invece, Davis- deve molto ai sempre più numerosi dibattiti e ricerche che si sono sviluppati  intorno al Mezzogiorno preunitario negli ultimi decenni”.
Ma quali sono le tesi al centro del libro e che dovrebbero costringere molti storici (e ammiratori di Davis) a fare parecchi passi indietro?
Prima di tutto la tesi dell’arretratezza delle Due Sicilie, una tesi infondata, per Davis, e inventata ad arte da chi fu artefice (Benedetto Croce in primis) del processo unitario per giustificare prima di tutto se stesso dei fallimenti di quel progetto e le sue conseguenze più drammatiche, in testa i massacri dei cosiddetti “briganti” (che “briganti” non erano neanche per Davis), l’emigrazione inarrestabile, le questioni meridionali sempre più drammatiche…
“A Sud negli anni immediatamente seguenti all’unificazione c’erano state pesanti tensioni che le autorità avevano tentato di minimizzare definendoli meri atti di brigantaggio.
In ogni caso, per sopprimere il fenomeno, fu necessaria un’azione militare nella quale persero la vita più uomini di quanti ne erano caduti durante tutte le guerre di Indipendenza.
Negli anni Novanta […] le disparità tra le due Italie demolivano apertamente l’idea del Risorgimento come momento di coesione per la popolazione italiana: la successiva emigrazione di massa che riguardò in un primo momento migliaia e poi milioni di meridionali costretti ad abbandonare le loro case in cerca di un lavoro e di vita migliori al di là dell’Atlantico suscitò timori ancora più consistenti  […]
Per contrastare questi funesti presentimenti era necessario trovare nuove vie per difendere il Risorgimento e riaffermare l’unità nazionale senza imputare alla nuova Italia  soprattutto a loro stessi che ne erano stati e ne erano gli artefici e [così come gli intellettuali ufficiali -loro eredi culturali o genetici- continuano a fare] le responsabilità delle condizioni del Sud.
Si cominciò a riscrivere la nuova storia andando a ritroso e si difese la forza creativa del Risorgimento sostenendo che la ‘questione meridionale’ era un’eredità del passato.
Il principale artefice di questo schema interpretativo fu uno dei più accreditati esponenti della cultura risorgimentale, il filoso e storico napoletano Benedetto Croce.   
Croce sostenne che secoli di malgoverno straniero e spoliazioni avevano trasformato il Sud in un ‘paradiso abitato da diavoli’”…
Prevale così negli anni l’immagine di un Sud “premoderno” ma “questa idea -sostiene sempre Davis- ha portato le ricostruzioni successive ad allontanarsi sempre più della realtà evidenziando differenze che non avevano riscontri nella realtà”.
Non si spiegherebbe così, allora, come sia possibile che “i livelli di produttività del Meridione rimangono tra i più bassi del continente, le infrastrutture economiche e sociali sono povere” mentre continuano a imperversare criminalità organizzata e corruzione di classe dirigente… “Non si può neanche sostenere che le condizioni economiche e sociali del Sud fossero peggiori del resto d’Italia all’epoca dell’unificazione”: l’Italia tutta, infatti, era più povera di altri Paesi europei.
Del resto questa è stata da sempre una tesi “neoborbonica”: ci interessava e ci interessa dimostrare non la grandezza del Regno delle Due Sicilie -comunque competitivo in molti settori e potenzialmente in grande crescita- in rapporto all’Europa e al mondo, ma proprio le condizioni di partenza uguali o superiori a quelle del resto dell’Italia, a totale differenza di quanto sarebbe accaduto dopo l’unificazione e fino ad oggi. 
E Davis, infatti, aggiunge: “nel 1860 le differenze economiche tra il Nord e il Sud erano di gran lunga inferiori a quelle che ci sarebbero state 40 anni più tardi quando lo stato italiano smantellò le barriere protettive che avevano portato allo sviluppo delle industrie tessili, di ingegneria e di edilizia navale meridionali… nello stesso anno 1860 i numeri dell’industria erano migliori al Sud che in qualsiasi altra parte della penisola” [e alla fine degli anni ’90, uno “storico senza patente” e anche un po’ neoborbonico, tale De Crescenzo, per uno dei suoi primi libri editi da una coraggiosa casa editrice locale, aveva contato tra i documenti dell’Archivio di Stato di Napoli oltre 5000 fabbriche solo nel Sud continentale…] (9).
“Astratta, antistorica e di stampo ottocentesco”, allora, la dicotomia sistematicamente evidenziata da Croce in poi tra arretratezza del Sud e modernità del Nord, una ideologia che non tiene conto, per Davis, delle specificità dei territori e che ha fortemente condizionato la storia di tutta l’Italia.

In quanto al famoso 1848, ai “liberali” e ai loro difensori, premesso che anche negli altri paesi europei i moti furono repressi “con le stesse modalità di quelle adottate dai Borbone”, premesso che in gran parte i “rivoluzionari” erano latifondisti “alla ricerca di potere politico” (oltre che economico), è chiaro e netto il giudizio sul famoso Gladstone e la sua (falsa) affermazione in merito  alla “negazione di Dio”: l’Inghilterra condizionò il giudizio sui Borbone per interessi commerciali legati in particolare alla guerra degli zolfi oltre che politici.
Lo stesso Gladstone era stato portavoce nella Camera dei Comuni per i mercanti inglesi di zolfo e, tra l’altro, in precedenza aveva scritto un resoconto più che positivo delle Due Sicilie…
Facendo un salto indietro nel tempo, Davis, poi, smantella anche un altro dei miti fondamentali della cultura ufficiale: le invasioni francesi del 1799 e del 1806 da ricondurre semplicemente nel piano di espansione imperiale francese: “Il decennio napoleonico fu una fase critica per il Mezzogiorno ma lo fu anche per la storia italiana ed europea”.
“Nella ricostruzione proposta un secolo dopo gli eventi fu Croce a trasformare la Repubblica Napoletana del 1799 in uno dei miti fondativi del nuovo Stato italiano” seguito “passivamente” (le rivoluzioni “passive”…) e negli anni da numerosi esponenti della “intellighentia” locale fino a quell’Istituto per gli Studi Filosofici che, con consistenti e trentennali finanziamenti pubblici,  ne ha fatto la sua unilaterale bandiera e che, paradossalmente, ha finanziato la stessa traduzione di cui stiamo parlando forse senza entrare nel dettaglio dei contenuti.
Da un lato, allora, “i primi martiri della nuova Italia”, dall’altro le “masse brute e ignoranti”, da un lato il clero e la corte dall’altro una “minoranza progressista” in un’altra dannosa dicotomia di stampo quasi razzista che ancora oggi si vive nella società napoletana.  
In realtà anche questa fu una vera e propria invenzione storiografica perché “il Sud pagò un conto salatissimo alla causa imperiale non solo in termini di tributi finanziari e vite umane ma anche sopportando il peso di persistenti agitazioni e disordini”.
Da anni i Neoborbonici si battono per ridimensionare i periodi francesi a Napoli evidenziandone, tra l’altro, uno degli aspetti evidenziati da Davis e del tutto trascurato dalla storiografia e cioè il costo di vite umane: oltre 60.000 nel 1799 e oltre 50.000 nel 1806 le vittime di parte napoletana-cristiana-borbonica, come riportano le cronache dei generali francesi (10).
Le stesse (celebratissime) riforme francesi, per Davis, “partirono dal basso” e non furono il frutto di chi (semplicemente “esperto di annessioni”) era stato inviato al Sud: l’immagine di un Regno “immobile e resistente al cambiamento” in periodo pre-napoleonico, allora, “comincia a disintegrarsi e scopriamo, invece, una società, una economia, un sistema politico pienamente coinvolti nel processo di trasformazione che stava cominciando a minare le basi dell’antico regime negli altri stati europei… La complessità di questo panorama non è facilmente conciliabile con l’immagine di rivoluzione passiva che si affermò più tardi ma lascia piuttosto pensare ad un Sud che aveva intrapreso un itinerario di sviluppo simile e per certi addirittura avanzato rispetto a quello negli altri stati italiani”.
E questo è confermato dalla politica di integrazione da parte dei Borbone delle riforme francesi anche più che negli altri stati.

In conclusione “i problemi del Sud odierno sembrano, in definitiva, direttamente riconducibili alle conseguenze del problematico inserimento di quest’area  dello Stato italiano, piuttosto che ad una vaga e talvolta indefinibile nozione di arretratezza”.

Il tutto, aggiungiamo noi, con buona pace di storici ufficiali più o meno giovani con due esempi: Felice per la prima categoria e Galasso per la seconda, entrambi estimatori del Davis.
Se qualche nostro lettore volesse aggiornarli, lo preghiamo di farlo con calma e senza esagerare nei toni… soprattutto quando ricorderete al prof. Galasso, simbolo vivente della cultura (e della politica) ufficiale napoletana, pluri-citatore del “vecchio” Davis (11),  questa sua affermazione ripresa in blocco dai suoi seguaci anche più giovani e ciclicamente pubblicizzata come un grande e nuovo scoop: “Il minore sviluppo del Mezzogiorno dopo l’unificazione ha avuto le sue radici nelle condizioni preunitarie del Mezzogiorno stesso e in un suo già sussistente divario rispetto al Nord” (12). 
Consentiteci, però, di chiudere queste riflessioni con una riflessione pubblicata diversi anni fa sia perché alcune delle tesi in essa riassunte sono molto simili a quelle che Davis, anche senza aver letto i miei libri, riporta nel suo testo, sia perché sintetizzano i veri obiettivi Neoborbonici, obiettivi del tutto diversi da quelli che censori di parte e superficiali ogni tanto ci attribuiscono…
“Tutti colpevoli, allora, gli storici, meridionalisti di ieri e di oggi, che per decenni hanno inseguito questa o quella tesi, questa o quella interpretazione quasi sempre legata ad una subalternità culturale che li portava a criminalizzare o ignorare la storia del Sud pre-unitario dei Borbone fino addirittura a riferire i problemi dello stesso Sud all’epoca medioevale o a epoche quasi preistoriche.
Meglio, per loro, accettare la tesi dei meridionali inferiori magari geneticamente piuttosto che dare le colpe dei problemi meridionali a quella che fu una pura e semplice colonizzazione. Le classi dirigenti meridionali, del resto, non potevano che essere subalterne alle scelte politiche centro-settentrionali per restare classi dirigenti e tramandarsi cariche politiche, cattedre universitarie o ruoli di intellettuali ‘ufficiali’. Subito dopo il 1860 furono licenziati gli impiegati delle ferrovie giudicati dalla Polizia del tempo ‘reazionari’ o ‘borbonici’.
Inutile dire come furono scelti i docenti, i giornalisti o gli stessi politici e che possibilità avevano di affermare la verità storica e rivendicare le proprie ragioni.
Tutti colpevoli di non scrivere, dire o gridare la verità di migliaia di meridionali massacrati, chiamati ‘briganti’ e cancellati dalla storia proprio in quegli anni.
Tutti colpevoli di non aver fatto nulla o addirittura (spesso) di avere indicato l’emigrazione come unico rimedio possibile per risolvere ‘gli atavici problemi del Sud’ negli stessi anni, dall’alto delle loro cattedre o dei balconi delle ville a Posillipo.
Impegnati in dibattiti sereni e distaccati e nell’elaborazione delle loro astratte tesi, lontani dal popolo che avrebbero dovuto rappresentare, contro quello stesso popolo, ignoravano colpevolmente le due più grandi tragedie che la storia d’Italia possa ricordare: quella del ‘brigantaggio’ e quella  ancora attuale dell’emigrazione.
L’unica strada che possiamo percorrere  ‘risarcire’ i nostri antenati morti o partiti in questo secolo e mezzo è proprio quella della verità storica.

Nell’attesa di classi dirigenti finalmente fiere e orgogliose e degne di rappresentare il Sud di domani”(13).

Gennaro De Crescenzo



NOTE

1) Tra gli altri: Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento, UTET, Torino, 2004;  La camorra e le sue storie, UTET, Torino, 2005; Controstoria dell’Unità d’Italia.  Fatti e misfatti del Risorgimento, Rizzoli, Milano, 2010]
2) Cfr. in particolare Carlo Ciccarelli e Stefano Fenoaltea, “Attraverso la lente d’ingrandimento: aspetti provinciali della crescita industriale nell’Italia postunitaria”, in Quaderni di Storia Economica (Economic History Working Papers), n.4, luglio 2010, Banca d’Italia, Roma, 2010; Stephanie Collet, A Unified Italy? - Sovereign Debt and Investor Scepticism, Université Libre de Bruxelles (ULB), March 15, 2012; Vittorio Daniele, Paolo Malanima, “Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004)”, in Rivista di Politica Economica, Marzo-Aprile, UMG, Catanzaro 2007; Vito Tanzi, Italica. Costi e conseguenze dell’unificazione italiana, Grantorino Libri, Torino, 2012]
3) Eugenio Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012
4) Luigi De Matteo, Una ''economia alle strette'' nel Mediterraneo - Modelli di sviluppo, imprese e imprenditori a Napoli e nel Mezzogiorno nell'Ottocento, ESI, Napoli, 2014. Tra i numerosi saggi di cui De Matteo è autore si segnala, in particolare, a proposito del significativo successo mediologico attribuito al recente libro di E. Felice “Il ritardo del Mezzogiorno dai Borbone a oggi. Un recente volume, i rituali politico-cultural-mediatici del nostro tempo”; in Storia Economica 2/2013, ESI, Napoli
5)  Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, Laterza, Bari, 2012
6) Renata De Lorenzo, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Editori Salerno, prefazione di Alessandro Barbero, Roma, 2013
7) Gennaro De Crescenzo, Il Sud dalla Borbonia felix al carcere di Fenestrelle. Perché non sempre la storia è come ce la raccontano, Magenese, Milano, 2014
8) Emanuele Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino, Bologna, 2013
9) Gennaro De Crescenzo, Le industrie del Regno di Napoli, Grimaldi, Napoli, 2002
10) ) Cfr. Memoires de General P. Thiebault par F. Calmettes, VI ed., Villette, Paris, 1894; G. De Crescenzo, L’altro 1799. I fatti, Tempo Lungo, Napoli, 1999; A. Boccia, Massaco a Lauria. La resistenza antigiacobina in Basilicata (1799-1806), Il Giglio, Napoli, 2006
11) Il testo senza dubbio più citato di Davis (con le tesi vecchie ormai superate dalle sue nuove tesi) è Società e imprenditori nel regno borbonico, Laterza, Roma-Bari, 1979
12) Giuseppe Galasso, Storia del  Regno di Napoli (volumi 5), Utet, Torino, 2007, vol. VI, pp. 597-598

13) Gennaro De Crescenzo, Ferdinando II di Borbone, Editoriale Il Giglio, Napoli, 2009

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