Il 12 Febbraio 1944 venne approvato dal Consiglio dei Ministri il Decreto Legislativo del Duce n. 375, concernente la Socializzazione delle imprese. Tale decreto venne pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale d’Italia del 30 Giugno 1944 n. 151 insieme al Decreto Legislativo del Duce 24 Giugno 1944 n. 382, che lo rendeva esecutivo.
La Socializzazione delle imprese fu l’attuazione più evidente di un principio più generale, denominato Socializzazione, che riguardava non solo l’ambito economico ma anche quello sociale e morale. Cerchiamo innanzitutto di fornirne una definizione per lo più possibile corretta e concisa.
“La socializzazione è il principio politico (cioè morale, sociale ed economico) per cui il lavoratore, nella sua piena individualità (spirituale e materiale) viene ad essere l’oggetto primario dello Stato ed il soggetto dell’economia.” “La socializzazione non considera il lavoratore esclusivamente come un numero facente parte di una massa, ma lo valorizza come individuo, riconoscendo a ciascun lavoratore proprie particolari esigenze e capacità (cioè diritti e doveri). E’ anche un sistema regolatore dei rapporti che intercorrono tra capitale e lavoro, per cui il primo viene ad essere strumento del secondo e per il quale sistema il lavoratore viene a gestire direttamente l’azienda e sul piano economico partecipa alla ripartizione degli utili.”
Per cercare di capire più a fondo la Socializzazione delle imprese è necessario fare un passo indietro; solamente dall’analisi di testi e documenti (tra cui la Carta del Carnaro, la Carta del Lavoro, la Legge del 5 Febbraio 1934, n. 163 sulla Costituzione e Funzioni delle Corporazioni e il D.L. n. 853 del 20 Dicembre 1943 sulla costituzione della Confederazione Generale del Lavoro, della Tecnica e delle Arti) comprendiamo come la stessa sia stata il frutto di una evoluzione progressiva piuttosto che una mossa estemporanea di Mussolini.
Scopo di questa breve ricerca, infatti, è cercare di ricostruire e approfondire l’ordinamento corporativo secondo le varie tappe legislative che ne hanno segnato l’evoluzione.
E’ certamente opportuno cominciare da un testo unico e singolare: la Carta del Carnaro (CdC). Essa, elaborata nel 1920 durante la “Reggenza Italiana” di Fiume, è costituita da una serie di articoli, rappresentati da numeri romani; dopo alcune affermazioni generali di carattere politico, si addentra nel campo del diritto, sia pubblico che privato. Il testo si rivela di precorritrice importanza perché dedica diversi articoli (XVIII-XXI) alle “corporazioni”. L’articolo XVII oltre a definire che “lo Stato è la volontà comune e lo sforzo comune del popolo verso un sempre più altro grado di materiale e spirituale vigore”, istituisce che “soltanto i produttori assidui di ricchezza comune e i creatori assidui della potenza comune sono nella repubblica i compiuti cittadini”.
Nell’art. III “la potenza del lavoro produttivo” diviene fondamento della Reggenza italiana del Carnaro.
La paternità della CdC appartiene nell’immaginario collettivo a Gabriele D’Annunzio. Questo è in parte certamente vero ma è altrettanto vero che il Vate italico non possedeva la sensibilità per apprezzare certi temi sociali.
De Ambris, sindacalista e legionario (oltre che Segretario degli Affari Civili del Comando dell’Esercito Liberatore in Fiume), probabilmente insieme ad altri “collaboratori sociali”, riuscì a convincerlo che fosse necessario affrontare e risolvere il problema sociale. De Ambris, quindi, venne incaricato di delineare un “disegno di costituzione” ed il suo contributo alla stesura del testo è stato ricostruito grazie alle ricerche storiche di De Felice.
Particolarmente interessante diventa il confronto tra le due stesure, di De Ambris e di D’Annunzio, al fine di intuire ed apprezzare i contributi di entrambi. L’unicità della Carta, infatti, deriva proprio da una duplice vocazione che può essere facilmente rintracciata in diversi punti. E’ costante il confronto tra queste due anime così diverse, sindacalista-rivoluzionaria quella di De Ambris e poetico-politica quella di D’Annunzio, che giungono a dare un risultato unico ed, inaspettatamente, ben amalgamato. I principi contenuti in questa Carta, certamente più avanzati di quelli presenti nella maggior parte dell’opinione pubblica, rappresentano dunque “l’avanguardia” del tempo.
Ben consci della precarietà dell’esperienza fiumana, entrambi desideravano ardentemente “dare al Mondo l’esempio di una Costituzione che in sé accolga tutte le libertà e tutte le audacie del pensiero moderno”. La Carta diveniva quindi un “mezzo per non perire”, “un faro lucente nel tenebrore”.
La Carta del Lavoro (CdL) venne approvata dal Gran Consiglio del Fascismo il 21 Aprile 1927 e pubblicata sulla G.U. del 30 Aprile 1927. Tale documento, a differenza della CdC che potremmo definire al massimo proto fascista, si inserisce a pieno diritto in quello che viene definito “Cartismo Fascista”.
Il testo consta di 30 paragrafi e di 4 capi (rubricati come segue: Dello stato corporativo e della sua organizzazione, Del contratto collettivo di lavoro e delle garanzie del lavoro, Degli uffici di collocamento, Della previdenza, dell’assistenza, dell’educazione e dell’istruzione); emesso come dichiarazione programmatica del P.N.F., diverrà legge dello Stato solo 13 anni più tardi.
Nella CdL il lavoro viene definito “un dovere sociale”. Ma ancora più innovativo è il fatto che il lavoro diventi uno strumento al servizio della nazione. “Il lavoro sotto tutte le sue forme” (dich. II) e “l’iniziativa privata nel campo della produzione” (dich. VII) diventano doveri e funzioni di interesse nazionale.
Il testo assolve alla funzione di dare risposte politiche ma anche pratiche. Si possono quindi notare, accanto a tecnicismi e a formule legislative, affermazioni di carattere generale che possano spiegare i principi alla base di tale documento.
Rispetto alla CdC, possiamo notare un aspetto più rigido e giuridico, certamente meno poetico e sognatore. Infatti, oltre ad essere diversi gli autori, sono assai diversi gli scopi. La CdC doveva costituire un messaggio da tramandare mentre la CdL era principalmente un mezzo tramite cui governare, legiferare e, progressivamente, evolvere verso uno stato corporativo.
La CdL rappresenta lo statuto fondamentale dello stato corporativo. Essa, oltre a riaffermare il concetto unitario di stato (vedi art. I e II) raccoglie tutte le norme necessarie per governare e regolare il processo di produzione in tutte le sue varie fasi.
I principi fondamentali dell’ordine corporativo venivano indicati “nel duplice postulato della uguaglianza di fronte allo Stato di tutte le categorie e della solidarietà di tutti i cittadini di fronte agli interessi nazionali, i quali costituiscono il limite di ogni diritto individuale”.
Tale documento non fu subito trasformato in legge ma i principi in esso contenuti andarono gradatamente ispirando e penetrando la legislazione fascista. E’ interessante, quindi, ripercorrere le varie tappe di questo svolgimento giurisprudenziale, dal 1927 in poi.
Premessa fondamentale alla CdL è “La disciplina giuridica dei rapporti di lavoro”. Con la Legge n. 563 del 3 aprile 1926, (Ordinamento sindacale di diritto), venne affidata alle associazioni sindacali riconosciute, di imprenditori e di lavoratori, la funzione di stabilire in accordo le condizioni di lavoro e di retribuzione con effetto legislativo erga omnes. Condizione per il riconoscimento delle associazioni sindacali era l’impegno a subordinare gli interessi di parte a quelli superiori dell’economia nazionale, unitariamente intesa.
Tutti i cittadini venivano quindi a fare parte dei sindacati fascisti che, rappresentativi di una determinata categoria di persone, stipulavano contratti collettivi di lavoro applicabili a tutta la categoria stessa.
I sindacati, riconosciuti come organi dello Stato, erano suddivisi in base alle affinità professionali e raggruppati in tre confederazioni: Confederazione dei Datori di Lavoro e Confederazione dei Lavoratori, (a loro volta suddivise in base all’attività: agricoltura, industria, commercio, credito) e Confederazione dei Professionisti ed Artisti.
Tale legge, oltre ad introdurre il divieto di scioperi e di serrate, istituì, inoltre, una Magistratura del Lavoro ad hoc. Nei casi in cui le associazioni sindacali riconosciute non avessero raggiunto un accordo, veniva percorsa la via giurisdizionale, davanti a una Magistratura del Lavoro (Corte mista di togati e di tecnici) che, udite le ragioni delle parti e considerata la situazione economica del momento, emetteva una sentenza tenente luogo del contratto collettivo del lavoro.
Nel medesimo anno, con il Regio Decreto 2 luglio 1926, n. 1131, venne istituito il nuovo Ministero delle corporazioni. Come l’odierno Ministero del Lavoro, esso rappresentava l’organo politico che disciplinava tutte le questioni attinenti al lavoro; in particolare, ebbe voce in materia di direzione dell'intera economia nazionale, di controllo e regolamentazione dei salari e delle condizioni del lavoro.
Con lo stesso decreto venne, inoltre, costituito il Consiglio nazionale delle corporazioni il quale era composto da oltre cinquecento membri tra cui il Ministro per le corporazioni (che lo presiedeva), il Sottosegretario di Stato per le corporazioni, un rappresentante per ogni Ministero (due per quello dell’economia nazionale), oltre ai rappresentanti del P.N.F., delle opere nazionali e delle Confederazioni sindacali nazionali (presenti in numero maggiore gli esponenti delle Confederazioni sindacali nazionali dell’industria e dell’agricoltura).
Compito del Consiglio era dare pareri su “questioni che interessino corporazioni diverse o associazioni appartenenti a diverse corporazioni e su ogni altra questione che gli venga sottoposta dal Ministero per le corporazioni.”
Con la L. 20 marzo 1930, n. 206, il Consiglio Nazionale delle Corporazioni divenne organo costituzionale.
La necessità di tradurre in norme legislative i principi contenuti nella CdL ispirò anche la L. 13 Dicembre 1928, n. 2832, che recava come oggetto la delega al Governo ad “emanare disposizioni, aventi forza di legge, per la completa attuazione della Carta del Lavoro” (ex articolo unico).
La Legge n. 163 del 5 Febbraio 1934, regolò la costituzione e le funzioni delle Corporazioni. Le Corporazioni, suddivise per rami produttivi, erano organi dello Stato. La caratteristica del Corporativismo è che “la direzione della produzione non viene imposta dall’alto, ma dalle stesse categorie produttive. Il sistema è quindi definito come quello dell’autodisciplina organica della produzione.” Ed è proprio in questo contesto che le Corporazioni divennero “gli istituti in cui questa autodisciplina si attua e si concreta”.
Esse erano composte pariteticamente di rappresentanti delle associazioni sindacali delle due “parti” afferenti al relativo ramo di appartenenza.
I loro compiti erano principalmente conciliativi (mediazione nelle controversie sindacali), consultivi e normativi. “Nessun organo come le Corporazioni è idoneo a risolvere i conflitti del lavoro, attraverso l’equo contemperamento degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori e la tutela delle superiori esigenze nazionali.” 4
L’obbiettivo era che gli interessi divergenti delle varie categorie si armonizzassero nell’interesse nazionale, in modo che tutti collaborassero per il benessere collettivo.
Nel 1939 Mussolini si rese protagonista di una mossa molto importante, ovvero la riforma della rappresentanza politica. Con la L. del 19 gennaio 1939, n. 129, infatti, veniva soppressa la Camera dei deputati ed al suo posto veniva istituita la Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Di tale Camera entravano a far parte, con la qualifica di Consiglieri nazionali, i componenti del Gran Consigliodel fascismo (?), del Consiglio Nazionale del P.N.F. e del Consiglio Nazionale delle Corporazioni. Il mandato dei consiglieri nazionali, che erano circa 600, terminava quando cessavano di appartenere ai suddetti organi. L’intenzione, quindi, era passare dal consenso generico non qualificato alla “rappresentanza organica” per funzioni. Il limite di tale organizzazione era che la nomina dei consiglieri nazionali avveniva attraverso la base delle federazioni fasciste locali e ciò non sempre permetteva la selezione di elementi capaci e qualificati.
L’introduzione di tale organo legislativo aveva l’effetto di mettere, per la prima volta, le Corporazioni a livello istituzionale; inoltre dava ad esse il potere legislativo di poter disporre di se stesse.
La Camera dei Fasci e delle Corporazioni condivideva con il Governo e con il Senato l'esercizio del potere legislativo.
Si arrivò quindi alla L. del 3 gennaio 1941, n. 31, sul valore giuridico della Carta del Lavoro. Con essa, la CdL, che fino ad allora aveva continuato ad ispirare la legislazione fascista ma non era mai stata tramutata in legge, veniva inserita “in capo” al libro della proprietà del Codice civile; successivamente divenne “premessa” del Codice civile, che era in quegli anni in via di trasformazione.
La CdL veniva a far parte dell’Ordinamento giuridico, “ma non come legge particolare che dia a ciascuna delle Dichiarazioni forza normativa propria”; era intesa piuttosto come una “super legge: ispiratrice delle leggi presenti e future e guida sicura nell’interpretazione e nell’applicazione quotidiana delle leggi.”
In particolare, le Dichiarazioni della CdL costituivano i “principi generali dell’Ordinamento giuridico dello Stato” e davano “il criterio direttivo per l’interpretazione e per l’applicazione della legge” (ex art.1).
Altro documento ascrivibile al c.d. “cartismo fascista” è senza dubbio il Manifesto di Verona. Il 14 novembre 1943, durante il primo congresso del Partito Fascista Repubblicano, vennero approvati i punti programmatici dello schema del Manifesto, elaborato dal Partito sulla traccia di un documento predisposto da Mussolini. Secondo l’opinione più diffusa, esso segna il ritorno ad un “fascismo delle origini” o meglio ad una forma di socialismo che aveva caratterizzato il “primo Mussolini” (quello identificato nel famoso discorso di Dalmine del 1919).
L’impostazione generale del documento, determinato dalla sua sede di presentazione e dal momento contingente, è certamente meno tecnico-giuridica e più politico-combattentistica.
Vengono affrontati argomenti e problemi molto diversi tra loro. Accanto alla “materia costituzionale e interna” e alla “politica estera” viene trattata la “materia sociale”. A tal proposito, è interessante notare come la CdL venga definita come “punto di partenza per l’ulteriore cammino”.
Nel punto 9 il “lavoro manuale, tecnico, intellettuale, in ogni sua manifestazione” viene definito come “base della Repubblica Sociale Italiana e suo oggetto primario”.
Il punto 16 invece stabilisce che “il lavoratore è iscritto d’autorità nel Sindacato di categoria” e i vari sindacati “convergono in un’unica confederazione che comprende tutti i lavoratori, tutti i tecnici, i professionisti, con esclusione dei proprietari che non siano dirigenti o tecnici. Essa si denomina Confederazione generale del lavoro, della tecnica e delle arti.”
Il conseguente passo legislativo fu il Decreto del Duce n. 853 del 20 dicembre 1943. Con esso si procedeva allo scioglimento di tutte le Confederazioni e al loro posto veniva istituita la Confederazione Generale del Lavoro, della Tecnica e delle Arti (C.G.L.T.A.) che assumeva la "rappresentanza giuridica" dei “lavoratori già rappresentati dalle Confederazioni e Federazioni disciolte”, di coloro che, già rappresentati, partecipino direttamente delle attività aziendali come tecnici o come dirigenti effettivi.” Non veniva, invece, riconosciuta rappresentanza sindacale “al capitale, alla proprietà…alle ditte, alle società anonime”, cioè escludendo dalla rappresentanza il capitale in quanto tale.
Si può evincere da questo Decreto, come pure dal Manifesto di Verona, la volontà di distaccarsi dal Corporativismo che era stato portato avanti durante gli anni del regime. Il suo limite principale fu che, nonostante le intenzioni di Mussolini, non si riuscì mai ad arrivare ad una parità giuridica tra i datori di lavoro (rappresentanti gli interessi del capitale) e i prestatori d’opera (rappresentanti i diritti del lavoro).
Come si può leggere dalla Relazione che accompagnò (anche sui giornali, come commento ufficiale) tale Decreto , il sistema del sindacato dualistico “ha dimostrato di non poter assolvere compiutamente” al criterio di collaborazione che era alla base del principio corporativo. “Ripreso ora il cammino e sgombrato il terreno da ogni ostacolo”, primo tra tutti la monarchia, “si può dare senz’altro vita agli sviluppi previsti”, ovvero ad un’unica organizzazione sindacale che supera il precedente sistema dualistico.
Si può quindi intuire come, specialmente in queste prime fasi della R.S.I., fosse vivo il desiderio di cambiare, di tracciare un “nuovo corso” rispetto al Corporativismo del regime, pur salvando quanto di buono era stato fatto.
Come ben delineato da un saggio di R. Bonini, “l’obbiettivo fondamentale…della nuova Repubblica, fu quello della valorizzazione e della organizzazione del lavoro”. E per raggiungere tale obbiettivo furono individuate principalmente tre linee d’azione: “la prima è quella di un nuovo ordinamento sindacale, imperniato su una confederazione unica” che comprendesse insieme lavoratori e proprietari d’azienda; la seconda “ è quella della socializzazione delle imprese o..della gestione socializzata (a cui erano chiamati a partecipare tutti i lavoratori)”; “la terza è quella della riforma dell’ordinamento corporativo”.
Si può quindi evincere da questa rapida carrellata di leggi e di documenti come la Socializzazione delle imprese sia stato l’ultimo atto di un processo iniziato diversi anni prima. Essa, pur avendo sue caratteristiche uniche e peculiari, si inserisce senz’altro nel solco tracciato dal Corporativismo.
Un altro aspetto che bisogna considerare è l’estrema drammaticità del periodo storico. Nonostante nel 1944-45 i fascisti repubblicani avessero ben altro da fare che impegnarsi nella legislazione sociale, si resero conto che nel poco tempo che rimaneva tutto quello che avevano accantonato andava attuato in fretta. Come messaggio, più che come concretezza
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