domenica 6 luglio 2014

I trenta denari

Opera, 17 giugno 2014
Ancora di recente, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è rivolto ad un gruppo di adolescenti per ricordare il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.
Lo ha fatto, come tutti i politici, per esaltarne la figura di vittima del “terrorismo”, in questo caso “rosso”, dimenticando opportunamente di dire che sulla reale matrice dell’operazione nessuno è riuscito fino ad oggi a fare luce.
Napolitano ha omesso di dire ai ragazzi e alle ragazze che lo ascoltavano che la verità sul “caso Moro” non c’è perché lo Stato non la vuole, preferendo ad essa una verità dicomodo, quella che vede la Brigate rosse agire per proprio conto agli ordini di Mario Moretti contro il presidente della Democrazia cristiana responsabile della politica di “solidarietà nazionale” che avrebbe consentito al Partito comunista italiano il reingresso, dal lontano maggio del 1947, nell’area della maggioranza parlamentare.

Si obietterà che sono state ben cinque le inchieste e altrettanti i processi a carico dei responsabili del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, a riprova che lo Stato non ha lesinato sforzi per giungere alla verità.
Ma quale verità?
Quella, ovviamente, relativa agli esecutori materiali, la sola che questo Stato può gestire, esattamente come sul versante del “terrorismo nero”, senza subire danni, anzi vantandosi di averla cercata e, infine, trovata.
In realtà, come a destra anche a sinistra questo Stato ha molto da occultare, per non far emergere verità che rivelerebbero agli italiani la propria dipendenza totale ed assoluta dalla potenza egemone, gli Stati uniti, e la propria responsabilità in una guerra civile che si poteva evitare se fossero stati considerati gli interessi e le vite degli italiani.
Devo dare atto alla brava ed onesta Simona Zecchi di aver sottolineato come nessuno, a sinistra, osi parlare dell’agguato di via Fani del 16 marzo 1978 come di una strage, termine rimosso dalla sinistra italiana che pretende come le Brigate rosse e le altre formazioni militari della stessa sinistra abbiamo compiuto solo operazioni selettive.
Ci vuole coraggio per affermare il contrario, e Simona Zecchi lo ha e lo conferma nel ricordare che nessuno dei protagonisti ha voluto dare un contributo alla verità.
È vero, come lo è il fatto che la protezione nei confronti dei brigatisti rossi che avevano agito in via Fani e, poco dopo, ucciso Aldo Moro scattò quasi immediatamente.
In maniera inavvertita dall’opinione pubblica, qualcuno decide all’interno del Tribunale di Roma di derubricare l’accusa a loro carico da quella di “strage” a quella di “omicidio plurimo”.
Non c’era una ragione solo politica ma pratica. Difatti, si riteneva all’epoca che i condannati per strage sarebbero stati esclusi da qualsivoglia beneficio di legge.
Qualcuno ritenne, ai vertici della politica, che i brigatisti rossi dovessero essere salvaguardati da questa norma ed impose alla magistratura romana di modificare il capo d’imputazione.
Se vogliamo, questa decisione rappresenta il primo “mistero” del caso Moro.
In ordine cronologico, a dire il vero, il primo proviene proprio dalle Brigate rosse che avevano solennemente promesso di rendere pubbliche tutte le dichiarazioni rilasciate da Aldo Moro in prigionia, senza però farlo nè durante né dopo il sequestro del presidente della Democrazia cristiana.
Esisteva, evidentemente, un canale segretissimo attraverso il quale i “nemici” dialogavano e trattavano, accordandosi sul da farsi nel presente e in prospettiva futura.
Quello che Aldo Moro ha raccontato a Mario Moretti è rimasto ignoto, benché spaziasse dagli accordi segreti della Nato alla strage di piazza Fontana, dalla “strategia della tensione” agli intrallazzi affaristici della Dc e così via.
Il popolo da Mario Moretti non ha mai saputo nulla.
Ma, al popolo i politici italiani non hanno mai detto che, per mantenere il segreto sui racconti di Aldo Moro e sull’operazione che portò  alla strage di via Fani, al sequestro di Aldo Moro e, infine, al suo omicidio ha versato a Mario Moretti i classici trenta denari.
L’ha pagato, cioè, per tacere.
Nella primavera del 1987, mentre a Venezia per la prima volta in un’aula giudiziaria, si parlava dell’esistenza di una struttura occulta e segreta, la stessa di cui Moro aveva parlato con i suoi carcerieri, un esponente democristiano, Remigio Cavedon, inizia a colloquiare nel carcere di Opera con Mario Moretti.
Cosa ha raccontato il presunto capo delle Brigate rosse a Cavedon è un mistero che si aggiunge al mistero, perché dai vertici democristiani puntualmente informati dal loro collega nulla è mai trapelato.
Sappiamo, però, che l’uomo che ha materialmente sparato su Aldo Moro da quel momento diviene un carcerato super vip: ubicato al centro clinico, benché di sana e robusta costituzione fisica, omaggiato dal direttore del carcere che va a trovarlo almeno una volta a settimana nella sua cella, visitato dal cardinale Martini e dal ministro delle Giustizia, temutissimo dai secondini per i quali è un intoccabile, Mario Moretti viene inserito fra quanti sono destinati a lavorare, con incarichi dirigenziali, presso la “Lombardia informatica”, affiancato forse non a caso da Vito Messana, nome in codice “Meto”, confidente del Sid, infiltrato a sinistra, in modo da garantirgli stipendio lauto, pensione, benefici.
Questi giungono in tempi rapidi con la concessione dei permessi premiali, nel 1993, dodici anni dopo il suo arresto; due anni dopo lo mettono al lavoro esterno e, dopo altri due anni, nel 1997, gli concedono la semilibertà.
Nel giro di 14 anni, Mario Moretti in carcere ci viene a dormire solo la notte.
Incassati i trenta denari di Giuda, Mario Moretti continua a tacere sui “misteri” del caso Moro e quando parla lo fa per dire che “dietro le Brigate rosse ci sono solo le Brigate rosse”, ma a smentirlo ci sono tutti i benefici di legge che gli hanno concesso senza alcun titolo o merito.
Il fatidico “chi sa parli” non viene mai rivolto a Mario Moretti e a certi suoi compagni che hanno preso parte al sequestro di Aldo Moro.
Però, con ipocrisia si continua a parlare del caso Moro e dei suoi misteri irrisolti, si intitola a lui la giornata della memoria per le vittime del terrorismo e se ne celebra il ricordo ogni 9 maggio, giorno in cui nel 1978, dopo averlo fatto salire sulla Renault rossa, Mario Moretti gli scaricò addosso una raffica di mitra.
Un’azione benemerita per lo Stato italiano che lo ha gratificato con libertà di fatto, stipendio lauto, pensione, trattamento privilegiato.
È l’ultimo mistero.
cominciamo a svelare questo e, via via, andando a ritroso magari riusciremo a chiarire anche gli altri.
Vuole farlo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano?
Vincenzo Vinciguerra


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