giovedì 17 luglio 2014
Ezio Maria Gray Coerente nazionalista
Discorrere d Ezio M. Gray nel riquadro della sua vicenda personale, militare e politica non è compito facile se si considera che l’Uomo era un complesso di sentimenti, interiorità e caratteri non sempre raggiungibili per comprendere lo slancio posto in essere nel corso di una lunga vita combattuta aspramente e senza esitazioni.
Attraverso le fasi più importanti di un’esistenza dedicata all’Italia, con la partecipazione alla guerra in Libia (1911-’12), alla prima guerra mondiale (1915-’18) ed all’ultimo conflitto (1940-’45) comprendente, ovviamente, la RSI, si snoda, sull’arcolaio della storia della Nazione il succedersi delle ore drammatiche di un combattente incastonato nella fortezza dello spirito con tenacia quale non è concesso di constatare nell’opera presente.
“Vale la pena di aver vissuto se si può chiudere la propria vita non avendo conosciuto la paura né la disonestà”:
così aveva scritto Gray lasciando al lettore il compito non individuabile di capire cosa potesse esservi di
traducibile, di monetizzabile, alla portata cioè dell’uomo della strada, in quelle parole opacizzate, oggi, dal trasformismo dalla cui palude emergono come “sub”, dovunque, i tentativi di gabellarli come capacità manovriera e consolidata attitudine alla carriera politica.
Come ho già accennato, il carattere, questa dote dalla cui carenza molto ha sofferto e soffre la vicenda d’Italia in pace e in guerra, aveva fatto dire di lui allo stesso Titià Madia, principe del foro: “Uno dei più sontuosi caratteracci che siano mai tempestosamente esistiti da Adamo in poi”.
Sessant’anni di storia nazionale sono stati interpretati da Gray, giornalista, scrittore, creatore di fama.
Era nato a Novara, il 9 ottobre 1884, e, giovanissimo, era già entrato in polemica con Mussolini, avendo abbracciato il giornalismo.
Fin dai primi approcci con la pubblicistica e la politica restò fedele all’impegno assunto verso la Patria, avendolo scolpito nella formula “Con la Nazione sempre, contro la Nazione mai”.
Arruolatosi volontario, tra i primi, nella campagna di Libia nel 1911, seguì la spedizione come corrispondente dell’ “Illustrazione Italiana” e per l’eroico comportamento mantenuto nella battaglia di Sciara Sciat fu citato all’ordine del giorno dell’II° Reggimento Bersaglieri e decorato al valore sul campo. Il primo conflitto mondiale era ormai alle porte Ezio Maria Gray fu subito accanto a Corradini, nelle lotte interventistiche che si espiravano al Nazionalismo dove militavano Forges Davanzati, Federzoni, Coppola, Rocco.
Sin dall’allora Gray si era fatto conoscere per l’ampia ed efficace opera di propaganda allo scoppio della guerra. Una produzione letteraria e politica che sarebbe continuata sino all’ultimo respiro, senza soste, senza compromessi e soprattutto nel rispetto di una deontologia professionale che avrei conosciuto, più tardi, quando ebbi la fortuna di incontrarlo durante ma, soprattutto, dopo la fine del dramma caratterizzato dall’avventura della RSI.
Volontario nella guerra 1915-’18, egli fu nuovamente insignito di altre ricompense al valore militare, arricchendo quel suo medagliere che a moglie Teresah, poetessa e donna di alto sentire, seppe gelosamente custodire nel turbine del 1945.
Sempre documentato su tutto quanto fosse attinente all’aeropago del mondo politico e culturale, Gray si rivelò polemista implacabile ed oratore galvanizzante; difese il generale Cadorna, cui si tendeva addebitare tutta la responsabilità della rotta di Caporetto e le sue parole ebbero vasta risonanza, ancor più in occasione del cinquantenario della vittoria di Vittorio Veneto: d’altro canto, la battaglia di arresto fu preparata proprio da Cadorna, consentendo ai soldati, che dovevano affrontare il nemico imbaldanzito, di trovarsi in condizioni più favorevoli.
Al termine del conflitto Gray riprese in pieno la sua attività politica e, inserito perfettamente in quel movimento nazionalista simboleggiato dall’esortazione di Corradini – “datemi cento uomini pronti a morire e l’Italia è salvata – continuò a ribadire la necessità per gli Italiani di restare uniti perché una vittoria come quella, conquistata con il sacrificio di settecentomila morti e un milione di feriti, non poteva essere riconosciuta e, peggio ancora, dileggiata, pena la “deminutio capitis” di retrocedere per occupare posti di seconda e terza fila nel consesso delle Nazioni europee e mondiali.
Animato da siffatti intenti, fedele agli ideali del proprio passato, alimentati e custoditi fieramente, Ezio M. Gray, con il movimento nazionalista, entrò nelle file del Fascismo, già sorto con i Fasci di Azione Rivoluzionaria, antesignani della guerra vittoriosa e con i Fasci di Combattimento del 23 marzo 1919, fondato il Fascio di Novara.
L’ ”Eco di Biella”, un giornale che non è stato certamente “missino”, volle ricordare, nel momento della sua scomparsa, che nel 1921 Gray era stato eletto per la prima volta, in Parlamento, con i voti dei biellesi che a lui si rivolsero sempre, anche durante la Repubblica Sociale Italiana, quando – (trascrivò da quel giornale)
– “uomini di opinione diversa, conoscendolo, confidarono nelle sue doti di moderazione e nel sua profonda comprensione, dal punto di vista umano più che politico, dei problemi e della gente della nostra terra”.
Quale parlamentare fu attivissimo, impegnandosi nella battaglia ideale che non conoscerà soste sino al 1945. E’ opportuno ricordare il suo primo incontro con l’allora ministro degli Esteri, Carlo Sforza, allorché, venuto in discussione il “Trattato di Rapallo”, la Commissione parlamentare degli Esteri convocò il ministro e gli
chiese formalmente de, in margine a detto trattato – (secondo voci parzialmente accreditate) – fosse stata inserita qualche clausola segretamente concordata.
Il ministro negò precisamente ma, apertasi la discussione in aula, la causa segreta fu rivelata, ed era quella
con cui lo Sforzo aveva ceduto Porto Baross alla Jugoslavia se pure non riduceva del tutto, la funzionalità e la vitalità del porto di Fiume.
La reazione di Gray a tanto dispregio dei nostri diritti di vincitori – (si spiegano, quindi, gli atti di rinuncia ancor più appariscenti dell’Italia sconfitta dal 1945 in poi) – è riscontrabile delle sue dichiarazioni “
…Di fronte al mendace io insorsi, e vi fu anche un tentativo di colluttazione, perché avevo dato allo Sforza
del mentitore.
Lo era, soprattutto, gli aveva allora, iniziato la sua politica di cessioni e di abdicazioni italiane allo straniero”.
Molto vi sarebbe di annotare, ma lo spazio non consente che una riassuntiva disamina della vita e dell’opera di Gray parlamentare e uomo politico, (dal nazionalismo al Fascismo), nonché splendido oratore che dominava piazze ed aule prestigiose lontano, va ricordato che durante il regime fascista fu deputato per quattro legislature, ininterrottamente sino al 2 agosto 1943 e fu anche relatore della commissione per il disegno di legge-delega al governo ad amanare per l’attuazione della Carta del Lavoro, per i disegni di legge sulla costruzione e finanziamento delle Corporazioni, sulla istituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Segnalati i suoi discorsi sull’indirizzo di risposta al discorso della Corona in apertura della XXVIII e della XXIX legislatura.
L’incessante attività politica e la partecipazione alla vita dello Stato e del regime, qualora si volesse elencare ed analizzarla nelle notevoli sfaccettature dense di preparazione storica, giuridica e letteraria in generale, comporterebbe una pubblicazione specificante una normale bibliografia dove poter registrare gli interventi di Ezio M. Gray quale componente del Gran Consiglio del Fascismo, dal 1924 al 1925, e del Direttore
Nazionale del Pnf nello stesso periodo: vice presidente della Corporazione delle Arti, vice presidente della “Dante Alighieri”, presidente dell’Istituto Nazionale Luce, Alto Commissario in diverse regioni, membro del Comitato Corporativo Centrale e Vice Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni durante la Presidenza di Dino Grandi.
Particolarmente intensa fu la sua attività di propaganda politica e culturale.
Ancora molti ricordano il successo ottenuto da Gray nelle trasmissioni radiofoniche delle “Cronache
del Regime” con Roberto Forges Davanzati, Rino Alessi e Mario Appelius.
Anche all’estero – (Grecia, Spagna, Romania, Ungheria, Tunisia) tenne cicli di conferenze sull’ordinamento
corporativo.
Al processo dinanzi all’Alta Corte di Giustizia, celebrata contro di lui nell’ottobre 1945, precisò, a questo proposito: “…Illustravo un indirizzo economico che aveva creato nel mondo dei convinti seguaci della politica italiana”.
Le sue opere, tra lo storico ed il letterario, per citarne alcune, “Come Lenin conquistò la Russia; Il pensiero di Mussolini; Credenti nella Patria; Oriani maestro di vita e di potenza; Il Fascismo e l’Europa; Luci sull’Alba; Silvio Pellico; Noi e Tunisi; la Dalmazia; Francesco Carocciolo e la rivoluzione napoletana; la Chiesa anglicana contro Roma”, configuravano la personalità di un Uomo nel quale albergavano, con il senso della vita, intesa come missione, la rettitudine della coscienza e la coerenza ai principi osservati in ogni contingenza.
La stessa sua notorietà si fondeva con la stima e l’amicizia di Luigi Pirandello, Gabriele D’Annunzio, F.
T. Martinetti, Ugo Ometti, mentre presedeva Commissioni esaminatrici dei littoriali della Cultura.
A volte affermava, sollevando non poco stupore commisto ad ammirazione “…Più volte la fortuna mi ha camminato di fianco offrendosi di calmarmi, ma ogni volta se n’è andata per le condizioni impossibili che le poneva il mio temperamento. Ma andava via… soddisfatta”.
Il 25 luglio 1943 Gray rimase al suo posto, e nei giorni successivi rifiutò l’aereo che l’ambasciatore di Germania a Roma, Von Mackensen, aveva messo a sua disposizione.
Dirà, poi, al processo”…Risposi all’ambasciatore che non avevo niente da temere dalla giustizia del mio Paese. Un cittadino italiano deve restare, vivere e morire nel suo Paese, perché ritornarci dietro le baionette – (sia pure alleate, ma sempre straniere) – a me personalmente – (non giudico quel che hanno fatto altri), - non avrebbe permesso di guardare in faccia i miei connazionali rimasti in Italia al rischio…”. Non abbandonò la Camera sino al 20 agosto perché vi era una massa d’impiegati che si dovevano tutelare;
“Il Presidente se ne era andato dalla porticina”, disse, “io sono entrato ogni giorno per compiere il mio dovere di Vice Presidente”.
Dopo l’8 settembre Gray aderì senna alcuna esitazione alla Repubblica Sociale Italiana.
L’azione di Gray nella RSI, intransigente negli obiettivi politici e nella difesa dell’onore patrio, fu ispirata alla moderazione e si è saputo che molte asprezze furono evitate grazie ai suoi interventi, sempre generosi e disinteressati.
Ma egli sfuggiva alle domande e non amava parlare di sé. Solo una volta, nel 1950, processato, per
vilipendio del governo, su iniziativa di Sforza, allora nuovamente ministro degli Esteri, non esitò a prendere posizione documentando il comportamento dello Sforza, rilevato dalle notizie ufficiali e di stampa, dalle quali si era appreso che il titolare della Farnesina, nell’autunno del 1944, aveva chiesto all’ambasciata sovietica in Roma, se l’Urss avesse dei criminali di guerra da richiedere al nostro governo del tempo.
Mosca presentò una lista di dodici nomi.
Davanti ai giudici del Tribunale di Roma. Gray fu severissimo nel pronunciare un’autentica filippica degna senza dubbio di un grande oratore e di un uomo che, pur nella posizione giuridica di imputato, non smentiva se stesso e dimostrava, ancora una volta, la superiorità del carattere sopra tutte le altre virtù.
La battaglia perseguita, con slancio ideale, riposante sulla continuità di valori che potevano essere preternessi, in quell’ora ancora confusa, avrebbe incontrato, sul cammino da Gray intrapreso, con lo stesso coraggio civile che non aveva contraddistinto l’azione, ben altre asperità ed ostacoli, anche dopo la
fondazione del suo “Il Nazionale”, documentato di fede e di incitamento per i credenti.
Un giornale del “vecchio leone” piemontese diretto e scritto sino alla fine della sua giornata
terrena.
La caduta della RSI colse Ezio M. Gray mentre si trovava in provincia di Como;
fedele alla propria rigida norma non si nascose e non fuggì.
Dopo il 28 aprile 1945, non ricercato, si presentò alla Prefettura di Como consegnandosi alle nuove autorità volendo a suo tempo, rispondere del proprio operato che subito rivendicava in pienezza di grado e di responsabilità.
Al processo riconfermò l’essenza peculiare del suo gesto; “No signori” disse “io non sono mai stato arrestato, mi sono presentato spontaneamente. Sembrerà comico questo, ma in quell’aula tutto deve rimanere, positivo o negativo. Sono stato rimandato dall’avv. Spallino del Comitato di Liberazione Nazionale di Como che mi ha detto “Che cosa volete, Eccellenza, noi non abbiamo niente a che fare con voi. Se tutti i fascisti fossero stati come Voi…andate, andate”.
E dietro le mie insistenze, poiché gli dicevo “Almeno sappiate dove ritrovarmi. Io debbo rispondere a Voi di quello che Voi penserete essere state le mie responsabilità” egli mi rispose: “Se proprio insistete, ripassate domani”.
Sono ripassato l’indomani e sono stato arrestato”. Il processo si celebrò a Roma, nell’ottobre 1945,nell’aula magna della Sapienza dinanzi all’Alta Corte di Giustizia e fu l’ultimo, in ordine di tempo, delibato da quel consesso previsto per i reati commessi dai massimi dirigenti del regime fascista e delle istituzioni afferenti al sistema instaurato nel ventennio.
Il comportamento dell’imputato, per la sua verità fuori dal comune, fu talmente esemplare anche sotto il profilo, diciamo pure storico e morale, che lo stesso governo inglese di allora per una strana digressione psicologica, difficilmente analizzabile in una sede siffatta, fece diffondere, dalla radio, un riassunto del dibattito, nei campi di prigionia, dall’Italia al Kenia, indicando in Gray “un esempio di nobile riconoscimento delle proprie responsabilità da parte di un alto gerarca del regime fascista”.
Gli addebiti elevati della legge retroattiva (27 luglio 1944 n. 159), a carico dell’imputato, escluso assolutamente i delitti di sangue e contro il patrimonio pubblico e privato (lo riconobbe il Pubblico ministero in udienza) si sostanziavano nel solo art. 3 della legge riferita, in relazione all’art. 58 del Codice penale
militare di guerra come configurava la collaborazione con il nemico (il tedesco invasore) come si leggeva nelle varie citazioni di rinvio al giudizio. La contestazione dell’accusa, i cosiddetti “atti rilevanti” per avere “al Gray nel Ventennio e nella Repubblica Sociale Italiana, ricoperto cariche e assolto a funzioni che avevano contribuito a mantenere in vigore il regime di Mussolini” non aggiungeva, nella frigida dizione della procedura penale, alcunché di lesivo per la dignità dell’imputato.
Tanto, già era risultato vero quando, dopo la prima carcerazione, lo stesso magistrato, ai fini istruttori di interrogare Gray, ebbe a dichiarargli: “Lei pagherà più duramente degli altri, sissignore, più degli altri, perché con il suo prestigio della sua onestà e dirittura Lei ha contribuito maggiormente a persuadere molti
altri ad aderire al regime fascista”.
Nelle fase dibattimentale Gray superò se stesso distinguendosi nettamente, sia sotto il profilo morale che difensivo propriamente detto per la fermezza del comportamento, la sicurezza dell’eloquio, il convincimento che promanava dalla coscienza di aver adempiuto un dovere e, nella fattispecie giuridica, di esercitare un
diritto soltanto per salvaguardare quel che scrisse, nei suoi appunti, dopo la lettera della sentenza a vent’anni di reclusione irrogati dalla Corte nonostante le conclusioni del Pubblico ministero che ne aveva richiesto trenta.
“Il solo compromesso tra l’orgoglio e l’umiltà è la dignità”.
In carcere, infatti, conservò un contegno di ferma coerenza, ciò che contrasta presentamente con il brindisi di tanti girella che si sono avvicendati e si avvicendano sullo scenario mondiale, nazionale, locale, a livello anche fami-liare, di una società non molto disponib-ile a slanci sacrificali per difendere principi e valori.
Ma volendo, anche sommariamente accennare alle fasi di quelle udienze, lontane nel tempo ma vicine, nella nostra memoria, soprattutto quelli autentici pilastri di coraggio civile ed esempio per i più giovani, bisogna ritornare agli interventi di Ezio M. Gray, protagonista, ancorché sul banco degli imputati e uomo nel senso gentiliano del termine, il “vir” di una tempesta che aveva travolto la Patria nella sconfitta e, con essa, l’ultimo Vice Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Egli iniziò ad esporre le ragioni del suo comportamento di italiano che non aveva tralignato: “Io non sono venuto qui né a difendere la mia vita, né a difendere la mia libertà. Sono venuto esclusivamente a difendere il mio onore, cioè a tracciare, come lo consentite, davanti a voi, quella che è stata alinea morale della mia vita politica, affinché il giorno in cui voi foste obbligati dalla legge a pronunciare una condanna, io possa, però, pensare che nel vostro animo di cittadini sorga un interrogativo sulla vostra funzione di magistrati, possiate, cioè, domandarvi se sia stato giusto, in base a questa legge, che io debbo, per forza come imputato e anche come semplice cittadino, ritenere arbitraria, eccessivamente categorica e spietata, colpire un uomo contro il
quale sul campo dell’onore, almeno su quello, nessun addebito si era potuto elevare”…
Frequenti furono le interrogazioni del Presidente e del Pubblico ministero.
Ad una in particolare, del Presidente: “Ma lei ha visto com’è finita la guerra…”. Gray rispose
testualmente: “… “Eccellenza, del senno di poi son piene le fosse!
Se la Germania avesse potuto raggiungere tre mesi prima la costruzione, che aveva in atto, delle bombe atomiche, segnalate l’8 agosto nel bollettino delle operazioni contro il Giappone, io credo che saremo
tutti in piazza Venezia ad acclamare Qualcuno”.
Ancora una domanda del Presidente: “…Ma se la guerra non si fosse fatta, la questione di Trieste non sarebbe più stata sollevata perché era stato gia deciso”.
La risposta di Gray, lapidaria nella sostanza etica di una Storia che non rinunciò mai, nel suo processo di sedimentazione, a pronunciare il giudizio, quale che siano i protagonisti e le comparse operanti nel tempo e nello spazio, risuonò nell’aula della Corte di Giustizia attraverso la sua voce inconfondibile: “Eccellenza, mi avete rivolto anche un’altra domanda: come mai, nel 1915-1918 ero contrario alla Germania e come mai,
adesso, mi ero gettato a fare il sostenitore dell’alleanza con la Germania.
Eccellenza, vi rispondo che io sono sempre con la mia Patria.
Quando c’è un nemico della Patria io sono contro di esso. Potrei rispondere, subordinatamente, che la Germania di allora, alleata degli Absburgo, non è la Germania attuale. Questo non è vero, perché anche di questa non approvavo tutte le direttive. Ero coerente allora, sono coerente ora; sono per la mia Patria.
Io voglio Eccellenza (se crede, dopo risponderò a domande particolari), voglio che resti questo: ho sempre vissuto in funzione della mia Patria. Posso aver sbagliato, ma non l’ho fatto né per tradimento, né per innocenza, né per interesse.
E quando Voi crederete di dover pronunziare la mia condanna, l’affronterò senza rancore contro di Voi e nemmeno contro l’Italia attuale.
Resterò nell’ombra e nel silenzio ad amare ed a “servire” con il pensiero la Patria, con l’augurio che la Patria ritorni libera, laboriosa e privilegiata nel mondo.
Non ho altro da aggiungere”.
Nel “servire” di Gray rileggo la definizione data a questo verbo, tanto usato, ma poco rispettato, da Georges Bernanos: “Non si può realmente servire (nel senso tradizionale di questa magnifica parola), se non si mantiene un’indipendenza assoluta di giudizio di fronte a ciò che si vuole servire. E’ la regola della fedeltà senza conformismi, cioè della fedeltà viva”.
Righe dense di significato morale alle quali potrei raggiungere altre di Gray, inserite in un rubrica giornalistica intitolata “Rose e spine” dove Lui ha lasciato scritto: “Io non voglio guardare in faccia italiani che, chissà come, lo posseggono e voglio vederli abbassare gli occhi davanti a me”.
Questa citazione illumina, altresì, la decisione, di tanti anni or sono, della Commissione Centrale per l’invocazione dei profitti di regime che, concludendosi l’ “iter processuale” aveva assolto Gray e la consorte da ogni addebito di profitto ed aveva riconosciuto esplicitamente la probità e l’austerità della loro vita durante il ventennio fascista.
Ottobre 1949: Gray fondò “Il Nazionale”, settimanale durato venti anni, sino alla morte del vecchio combattente; usciva il venerdì, dopo il rituale incontro del giorno prima intorno a Gray che si riuniva per commentare quanto aveva scritto e segnalare ai collaboratori presenti fatti e rettifiche necessarie. “Il Nazionale” affrontò, bene presto, dure battaglie e nuovamente Gray incrociò il ferro con il conte Sforza, ancora una volta ministro degli Esteri. Osservandola propria massima “Io non pasteggio a camomilla” Gray, in un articolo del 1950 (“Tokio insegna a Roma”), pubblicato in momento cruciale della nostra politica estera, scrisse, tra l’altro, “…Soltanto l’Italia dei giovani disfattisti e rinunciatari che vi sono succeduti, auspice il più nefasto uomo della sua storia, lo Sforza, è stata messa nella condizione di apparire consenziente alla rapina di territori nazionali ed Occidente ed a Oriente della cui legittimità di possesso nessun dubbio poteva elevarsi nei confronti dell’Italia.
E in parlamento e nelle piazze questi governi hanno osato ed osano chiamarsi governi nazionali.
Verrà un giorno in cui l’Italia si vergognerà di averli tollerati e denuncerà la loro ignominiosa supinità allo straniero, non avallata dalla sola Italia che valeva, vale e varrà: quella che nell’epoca della vergogna non aveva voce in “capitolo”; Sforza protestò e fece segnalare l’articolo all’ufficio del Pubblico ministero. Gray con Ugo Dadone (direttore responsabile) approntò una specie di libro bianco a rovescio, accompagnandolo con una serie di documenti tutti di fonte insospettabile.
Lo lesse durante l’attese udienza; il Pubblico ministero chiese, quindi la parola per formulare la sua requisitoria composta soltanto da queste parole: “Chiedo la condanna ad un anno di reclusione” e si allontanò dall’aula.
Il Tribunale pronunciò la condanna a tre mesi di reclusione. Dalla lettura di questi pochi stralci delle sue dichiarazioni e dei suoi discorsi si evince ch’Egli era una bandiera di fedeltà, un ordito d’onestà, il custode di una capacità concettuale che trasmigrava attraverso le variegate estrinsecazioni del suo sentire e del conseguente ammonire.
Arduo, peraltro, sintetizzare, in poche righe, un vita intensamente vissuta, operosa e coordinata con rigore
intellettuale tra Sciara Sciat e Vittorio Veneto sino alla R.S.I. L’uomo che aveva detto”
Ci opporremo, sempre, come nel passato, e coloro che se l’Italia fosse in guerra con i pidocchi sarebbero dalla parte dei pidocchi pur di non essere dalla parte della Italia.
Ci opporremo alla loro congiura che è decisamente anti nazionale, anti religiosa ed anti sociale.
Impediremo che riducono l’Italia a colonia, il popolo a plebe e le libertà a licenza sfrenata.
Nessun merito nella nostra costanza “Quanto si è dato tutto alla patria si è dato ancora meno di quello che alla Patria si deve”.
D’altro canto Gray, avendo assunto come insegna il motto “Con la Nazione sempre, contro la Nazione mai” poteva ben suffragare con ferrigno aderire ai suoi convincimenti (che sono anche i nostri) la validità dell’alternativa (“da evitare”, lui sosteneva) “Tecnica o Umanesimo?”, uno degli ultimi articoli, in apertura di
prima pagina del “Il Nazionale”, dove, dopo aver riconosciuto le insostituibili conquiste della scienza, ribadiva il valore perenne, non accontanabile dell’apporto costitutivo dell’uomo “storico” nella dimensione dell’umanesimo da Giovanni Gentile difeso sino all’ultima sua opera “Genesi e struttura della società”.
Gray (siamo nel novembre 1966) anticipava il 1968 ed in quel suo fondo sottolineava il distacco delle giovani leve delle precedenti perché, diceva, “esse sentano che la nostra generazione, il nostro gruppo di generazioni (e non solo in Italia) non crede più.
L’Occidente muore come morì Roma antica) perché non crede più nella propria missione…”. Giovenale sentenziò “Summun crede nefas animun praefere pudori et propter vitam vivendi perdere causas”;
Gray può essere interpretabile, per chi non lo conoscesse, in questo richiamo classico che accompagna
il ricordo di quanti l’hanno conosciuto e stimato, ormai giunto alla fine con la preoccupazione di non aver potuto dire e dare di più per un Uomo che aveva accarezzato speranza e rinverdito lo slancio di coloro che, avendolo seguito ed amato, ne accoglievano il testamento spirituale vent’anni orsono nelle ultime ore della sua vita. L’8 febbraio 1969: lo si rivede e lo si risente con il respiro affannoso, la mano destra stretta intorno all’ultima copia del suo giornale “Il Nazionale”, fresca di stampa, che aveva voluto rivedere poco
prima di perdere conoscenza.
Non era un morente, era il Gray di sempre che sapeva di lasciarci che voleva morire con dignità e fierezza, così come la lunga esistenza ne aveva marcato il carattere nella battaglia combattuta, nella buona e l’avversa fortuna.
Ai presenti tornarono alla mente e, più ancora, al cuore, le sue parole che scavavano un solco nell’animo: “Noi siamo il passato di domani. Proprio adesso noi scivoliamo, come l’immagini dipinti sui quadranti di vecchi orologi: nave, il sole, una casa, la luna…Il quadrante gira, la nave sale e sprofonda, il sole giallo tramonta, riappare la casa…E noi ch’eravamo tutta novità acquistiamo nuova virtù dell’essere scomparsi”.
Il Libeccio
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