venerdì 15 febbraio 2013

IL CAMPO DI PRIGIONIA INGLESE DI PADULA


Giovanni Bartolone



Gli Inglesi non furono teneri con gli Italiani prigionieri ed è quasi naturale; la propaganda di guerra aizzava all’odio, come si potevano non odiare gli Italiani, che dopo secoli di servaggio, osavano ribellarsi all’egemonia britannica?
Così accadde che, non appena fu aperto, nel 1943,  il campo di prigionia di Padula, il “371 P.W. Camp”,il comandante inglese non si vergognò di arrivare a nutrire i prigionieri italiani esclusivamente con ghiande, si: proprio ghiande; e la fame era tanto atroce che i perseguitati prigionieri non riuscirono a non dare la soddisfazione al perfido inglese: dovettero ingannare la fame rosicchiando il cibo dei maiali. In seguito le cose cambiarono, ma gli ipocriti inglesi si spogliarono ufficialmente della loro perfidia per passarla ai custodi: prima greci, poi indiani. che entravano all’alba negli enormi, gelidi stanzoni ben arieggiati da ampi finestroni senza vetri, dove dormivano per terra, sdraiati con poca paglia, cento prigionieri per ogni stanzone. Come già avevano fatto i greci, gli indiani entravano muniti di scudisci e si facevano sistematicamente largo a scudisciate e a pedate. Gli indiani, umiliavano gli italiani per  procura inglese. Altra perfida umiliazione era imposta con l’obbligo di sottoporsi ad una doccia fredda all’aperto, nudi in fila senza misericordia per i vecchi o i malati: d’estate o d’inverno, sollecitati ed insultati dai custodi indiani.
No, non avevano molta cura per la salute dei prigionieri gli inglesi detentori: se qualche prigioniero italiano non gravava più con le spese per il suo mantenimento sulle finanze dell’impero britannico, non era, ovviamente, cosa di cui preoccuparsi, come quando  lasciarono scorrere tanto tempo prezioso prima di soccorrere Paolo Orano, Rettore dell’Università di Perugia: fu lasciato morire per un’emorragia da ulcera perforata nell’autoambulanza che, ipocritamente, i “liberatori” inglesi avevano in ultimo concesso, per salvare la faccia, solo quando era ben chiaro a tutti che ormai era troppo tardi.
Ho reso omaggio alla tomba di Paolo Orano nel cimitero di Padula; persone  del posto prendono ancora la cura e la civile sensibilità di portarci dei fiori.
Del resto i militari inglesi non potevano ammettere di essere un po’ più ignoranti di un italiano colto e avevano imposto cocenti umiliazioni anche ad un altro Rettore, quello dell’Università di Catania, obbligandolo a ramazzare la strada davanti alla sede principale dell’Università. Il professore Orazio Condorelli si era opposto all’occupazione dell’Università, che sarà poi trasformata in un casino per le truppe britanniche. Qualche mese dopo gli inglesi la liberarono. Ma ebbero la sfacciataggine di pagare due sterline, 800 lire al cambio, per il suo affitto. Vale a dire una bottiglia di cognac italiano al bar Olympia di Palermo, oppure otto paia di calze di seta da donna, se comprate da un'italiana, la metà se comprate da un soldato britannico per inviarle alla moglie, o, infine, 190 chili di pane al mercato ufficiale, secondo l’inutile calmiere stabilito dal governo d'occupazione. Condorelli finì per alcuni mesi al campo di concentramento alleato di Priolo, Siracusa.
Erano molto sensibili gli inglesi detentori, invece, ai titoli nobiliari  e offrivano agli aristocratici caduti in loro potere un trattamento privilegiato, li alloggiavano al piano superiore dove esistevano , le meno scomode camere dei monaci certosini: i flats le chiamavano gli inglesi e quando arrivarono prigionieri con qualche disponibilità di denaro, taluni di loro più intraprendenti, memori dei metodi usati in colonia, pensarono bene di sfruttare la situazione per arricchirsi. Qualcun altro  Tommy, più modestamente, trovò, dopo la guerra, addirittura impiego nella flotta Lauro.
A proposito di Lauro, vorrei aggiungere qualche particolare poco noto, che interesserà i napoletani: Achille Lauro è un pezzo della storia di Napoli; oltre tutto, la sua vicenda è paradigmatica di tante vicende accadute ad altri prigionieri degli anglo-americani. Si dovevano sciogliere i cordoni della borsa.
La famiglia Lauro, come usavano fare gli Alleati con le loro requisizioni, aveva dovuto lasciare subito la villa di via Crispi, a Napoli, senza poter portare via niente, neanche uno dei tanti prosciutti appesi nel seminterrato. Don Achille fece appena in tempo a rimandare la famiglia a Sorrento: il 9 novembre, infat­ti, fu arrestato dagli Alleati.
Il Comandante Lauro aveva sbagliato le previsioni. Aveva predetto, che gli inglesi, appena arrivati a Napoli, lo avrebbero nominato Viceré. Invece lo incarcerarono accusandolo di essere un “dangerous fascist”, un pericoloso fascista, e requisirono la villa di famiglia di via Crispi per le loro truppe.
Trascorso tempo inesorabile in ansia e incubi senza prospettiva di soluzione, il Comandante a 57 anni si trovava ormai in campo di concentra­mento da 15 mesi senza che nulla gli fosse mai stato contestato. Questo capitava a quasi tutti gli arrestati dagli Alleati. La Commissione provinciale per le sanzioni contro il Fascismo, nicchiava, come il ragno, in attesa che la mosca incappasse nella tela.
Lauro, nonostante le gravissime perdite della flotta, aveva ancora una certa disponibilità di danaro liquido e questo poteva e doveva contare nella nuova “civiltà” portata dai “Liberatori” alla quale gli italiani accorsi sul carro dei vincitori si erano subito adeguati.
La guerra nel suo corso aveva decimato la Flotta Lauro: 52 le navi requisite o affondate. Alla fine del conflitto la Flotta contava solo su  5 unità.
Soltanto a settembre, dopo 22 mesi di campo di concen­tramento, Lauro venne assolto da ogni accusa e scarcerato.
Eppure Don Achille pensava, prima dell’arresto, di avere molta stima a Londra, il centro più importante al mon­do per tutto quanto riguardava la navigazione: erano state le ban­che inglesi ad aprirgli linee di credito per avviare la Flotta che, nella City, era conosciuta e apprezzata. Pertanto si riteneva non solo una persona stimata sulla piazza londinese ma anche un amico degli inglesi. Ed era persuaso che, da Londra, sarebbe stato segnalato ai militari che occupavano la città come un punto di riferimento a Napoli.
In effetti, Achille Lauro era stato davvero segnalato, perché dopo l’arrivo degli Alleati in città, una jeep venne di corsa a casa sua. Contro di lui c’era un dossier con una decina di capi d’imputazione.
Soltanto molto tempo dopo, e in seguito a laboriosi esposti in difesa, avanzati dal figlio Gioacchino, risultò che queste accuse erano il frutto di segnalazioni anonime, di rapporti confidenziali dell’Ufficio Politico della Questura di Napoli, di denunce, infine, di qualcuno che lo odiava. La Commissione provinciale per le sanzioni contro il Fascismo scoprì che, dei due cittadi­ni di Sorrento che lo avevano accusato, il primo era un ex di­pendente di Lauro licenziato per furto, e il secondo era un tizio sicuro che i binari della ferrovia erano stati deviati sul suo podere, proprio per le ingerenze di don Achille. E la Commissione, al ter­mine di una elaborata inchiesta, assolse Lauro da ogni accusa.
La Commissione lo scagionò dall’accusa di “big fascistAnche perché molti episodi avevano ri­velato una diffidenza reciproca esistente tra Lauro e il Fascismo.
Lauro, infatti, aveva rifiutato a lungo di iscriversi al PNF e lo fe­ce solo nel 1933, anno in cui si chiusero le iscrizioni, perché “da esterno”, in una posizione come la sua, non poteva più resistere alle ritorsioni e alle inchieste  nate dai dubbi che fosse un “agente ingle­se” che lavorava con capitali inglesi e per conto degli ingle­si. Inoltre, nel 1937, si era beccato una multa di un milione di lire e il divieto d’ingresso per due mesi negli uffici del ministero della Marina Mercan­tile per avere criticato pubblicamente alcuni provvedimenti go­vernativi, e che, sempre in quel tempo, si era rifiutato di obbedire all’ordine di Mussolini di dirottare agli “amici giappo­nesi” un carico di armi dirette in Cina. Ma Lauro non aveva la tempra dell’eroe e non osava sottrarsi agli impegni presi con i padroni dei sette mari.
Ciononostante Achille Lauro era stato portato prima nel vicino campo di Aversa, poi era stato trasferito a Padula e infine ancora nel Campo di Collescipoli (Terni). Rimase 22 mesi nei campi di concentramento per “criminali fascisti”; gli inglesi non andavano troppo per il sottile nel valutare, nel discriminare i nemici dagli amici, e come a Lauro capitò a tanti altri di essere presi e sbattuti in campo di concentramento, anche per un solo dubbio, ma per ragioni di sicurezza, fregandosene di perdere tempo e fatica per indagare concretamente sulla presunta pericolositàdell’individuo. Ma non si trattava soltanto di indagini approssimative, calpestando i diritti delle persone, come invece, ipocritamente andavano sbandierando i “Liberatori” di non voler fare; capitò di essere sbatacchiato in campo di concentramento perfino a qualche sfortunato marito, che aveva una bella moglie di cui si era invaghito un qualche ufficiale alleato, che sentiva prepotente il desiderio di espugnarne la resistenza virtuosa. Ha raccontato Giorgio Nelson Page, nel suo libro “Padula”, che fu rinchiuso, proprio a Padula, perfino un pastore che si era visto espropriare del suo gregge e si dibatteva e protestava nell’ingenua illusione di ottenere giustizia.
   A Padula il Comandante Lauro, preceduto da una fama di “generosità”, ebbe una vita meno scomoda, rispetto a quella condotta da migliaia di altri reclusi. Riuscì abbastanza facilmente a comprare la benevolenza dei custodi e finì, nei cosiddetti “flat”. Erano delle stanze che ospitavano ognuna una ventina di personaggi di un certo rilievo durante il Regime. A tanti altri la sorte avara riservò di finire dei “wind” – una specie di cameroni – o nelle baracche, oppure nelle tende nel patio della Certosa. Nel 1944, la Certosa, che poteva ospitarne, sia pure ammucchiandone incivilmente e antigienicamente in locali affollatissimi, non più di duemila, fu utilizzata per recluderne duemila e cinquecento.
Il 4 gennaio 1945, Valentino Orsolini Cencelli, un compagno di sventura di Lauro, già commissario del Governo per l’Opera Nazionale Combattenti, che diresse numerose opere di bonifica in Italia, annotava nel suo Diario, che sarà pubblicato col titolo di Padula 1944 - 1945:
“Per dormire, vi sono dei biposto in legno, tipo cuc­cette di vagone letto. Un pagliericcio con paglia. Ormai ci si è abituati ma il primo periodo è stato molto duro assuefarsi a simile tipo di letto. I miei compagni sono: i principi Valerio Pignatelli di Cerchiara Alessandro Tasca di Cutò, France­sco Ruspoli, Vittorio Massimo; il duca Carafa d’Andria, il conte Flaminio Cimmasi Poggiolini, il nobile Luigi Maggi Pecoraro, l’onorevole Andriani già po­destà di Ancona, l’avvocato Paternostro ex federale di Palermo, il commendator Lupis già Presidente della Federazione Combattenti di Ragusa, l’avvocato pro­fessor Brunetti dell’Università di Bari, l’onorevole Lau­ro armatore; Ferace tenente di vascello, il commen­dator Della Casa proprietario dell’Albergo degli Am­basciatori di Roma; Carlo Del Bono, mezzo italiano mezzo argentino; il maestro Derevischy, che ha orga­nizzato gli spettacoli tra gli internati; il comandante della marina mercantile Guarnieri; il commendator Macarone industriale della canapa, di Napoli; Leo­nardi, console del Tribunale Speciale ed il luogote­nente generale della Milizia Masciocchi.
Il complesso di tutta questa gente ha, però, un be­neficio: una discreta educazione; il che rende sop­portabile e facilmente appianabili quegli attriti che la ristrettezza dello spazio e soprattutto lo stesso in­cubo di questo esilio, rende inevitabili. C’è, anzi, un’atmosfera di serenità, che in certi momenti della giornata diventa gioiosa. Forse anche perché questa vita, che ha della prigionia, del collegio e della ca­serma ci rende un po’ bambini, sì che una scioc­chezza, fa venire il buon umore; anche perché è una necessità, agire così, onde non essere schiacciati sot­to il peso dell’amarezza, dell’ingiustizia che si pati­sce, sotto l’onda dei ricordi e in modo particolare, per togliere il pensiero dalle persone care e dai no­stri affetti esasperati e dolenti per tanta lontananza. Si chiacchiera, si legge, si gioca a poker, bridge, sco­pone, tressette, solitari, di tutto un po’, secondo i gu­sti e le predilezioni.
Vi è, poi, un senso abbastanza vivo di solidarietà, tra noi del flat n° 9, «l’almanacco Gotha» o «il flat del­l’aristocrazia», come ci chiamano qui al campo. E se uno è triste, o ha avuto cattive notizie, c’è un quasi muto accordo fra tutti, perché non lo sia più e trovi sempre negli altri, cuori amici, fraterni, che sentono, comprendono e condividono con lui il suo dolore”.
Lauro era uno dei “personaggi” del campo di Padula. Nel suo libro accenna brevemente su come riuscì a rimettersi in sesto dalle rovine della guerra. Mi pare di ricordare che comprò a buon prezzo una nave Liberty dismessa dagli Alleati. Nel dopoguerra, infatti, agli armatori che avevano avuto il naviglio affondato nel conflitto, il governo italiano dava il diritto ad ac­quisire un determinato tonnellaggio di Liberty con un cam­bio lire-dollaro favorevole. Bastava sciogliere i cordoni della borsa, ormai si era adeguato all’american way of life..
Nel 1947 nel giro di due anni Lauro rimise in piedi gran parte della sua flotta e tornò in auge.
Ma oltre a tanti “fascisti”, come Lauro che avevano aderito al fascismo per convenienza, nel campo di Padula furono rinchiusi anche fascisti veramente “dangerous fascists”, che sentivano profondamente la loro fede; lì finirono “ospitati”, fra i tanti, il già citato principe Valerio Pignatelli, capo del fascismo clandestino al Sud - che, durante la sua permanenza, fu considerato il capo spirituale dei fascisti lì concentrati - Nando Di Nardo suo vice, il tenente Ninì Sorrentino e Antonio Picenna: tutti del gruppo di Napoli al vertice del fascismo clandestino; i fascisti clandestini di Catania con Gattuso e Orazio Santagati(1), e alcuni altri civili arrestati preventivamente. Lì fu pure internato Salvatore C. Ruta, animatore del gruppo di fascisti clandestini di Messina, con alcuni suoi camerati e concittadini. Ci fu anche l’agente speciale della Rsi, Ugo D’Esposito, del gruppo “Gamma”  della X Mas, ma pure altri agenti speciali, sempre della X Mas, del gruppo “NP di  Ceccacci”, e altri provenienti da altri Corpi militari, come ad es. Domenico Tucci Vitiello, Franco Nuovo e Giuseppe Marvaso; inoltre Riccardo Monaco, ostetrico napoletano e capitano pilota da caccia, colpevole di avere abbattuto due fortezze volanti in un solo raid e di aver continuato a perseverare incorreggibilmente nel cielo di Napoli, durante i quotidiani bombardamenti a tappeto del ’42-’43.
Nel reparto femminile, tra le trecento detenute, spiccavano le figure della principessa Maria Pignatelli e della inesauribile Elena Rega del fascismo clandestino di Napoli, l’universitaria Italia Profeta di Misterbianco (Catania) assieme a Edvige Platania, medico di Catania, che si erano schierate a fianco ai combattenti regolari che si battevano  in difesa di Catania, alle quali si aggiunse più tardi la farmacista Elda Norchi, fervente militante ed animatrice del gruppo clandestino fascista “Onore” di Roma.
Ma c’erano anche gerarchi fascisti, tra cui il segretario federale di Potenza, il vice federale di Napoli Pasquale Calvanese, Gaetano Polverelli, già ministro della Cultura popolare e alcuni giornalisti: fra i tanti Paolo Orano, al quale ho già accennato, intellettuale, giornalista riottoso ad ogni lusinga dell’invasore e pertanto di ostacolo al Grosso Capitale  che imponeva l’asservimento dell’Italia, nel quadro di un progetto psicologico generale di “lavaggio del carattere” di un popolo da colonizzare; fu arrestato dagli “Alleati” appena occuparono Perugia e, scaraventato nel campo di concentramento di Padula, venne sottoposto alle angherie dell’occupante inglese, che voleva debellare lo spirito indipendente di un italiano, fascista indomito fino all’ultimo: vitto debilitante, messo a dormire per terra in un gelido stanzone, stenti, umiliazioni cocenti, nessuna assistenza medica per un vecchio spossato e ammalato, fu lasciato morire. Venne gettato in una fossa comune  avvolto in una coperta il 7 aprile 1945. Solo più tardi fu possibile riesumarlo e seppellirlo cristianamente e civilmente nel cimitero di Padula. Altri, com’è accaduto a tanti eroi e martiri dispersi del fascismo non hanno avuto neanche questa possibilità.
Nel “371 P.W. Camp”diPadula ho scelto due figure paradigmatiche: Paolo Orano e Achille Lauro, gli sconfitti della civiltà dello spirito, della filosofia dell’ESSERE, e i vincitori dell’american way of life, ossia la “civiltà” della  materia e la filosofia dell’AVERE.

Giovanni Bartolone

1 - Santagati diresse più tardi  a Padula il giornale manoscritto di taglio culturale “Termocauterio”, che uscì nel maggio 1945, vedi  G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, Il Mulino, Bologna, 2006.p. 125.


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Il 371° Camp P.W. Il Campo Di Concentramento Angloamericano Di Padula

Ho letto con vivo interesse l’articolo dell’amico Pietro Cappellari sul campo di concentramento di Padula, il 371° Camp P.W., poi diventato «A»Civilian Internee's Camp. Offre una realistica immagine del nostro Paese a 150 anni dalla proclamazione del Regno d’Italia. Fa soffrire a leggerlo. Ma è così, purtroppo. Con le bandiere assenti o stracciate, più simili a cenci sbiaditi e laceri che a simboli d’onorare, con gli studenti che non conoscono la storia patria e con le guide che dicono corbellerie.
   

   Alcuni anni fa partecipai a un corso d’aggiornamento a Padula. Si teneva alla Certosa e vi fu organizzata una visita guidata. Vi ero già stato alcune volte. La guida era preparata per quanto riguardava la parte artistica, ma era all'oscuro di quanto accaduto in quel luogo nel Novecento. Non so se fosse la stessa guida di cui parla Piero. Io in quel periodo stavo facendo delle ricerche sul campo di Padula.  Avevo letto in pratica, dedicandovi molti mesi della mia vita, tutta la memorialistica dei “padulini”, gli “ospiti” del Campo di concentramento di Padula, rinchiusi nella Reggia del silenzio. Volevo scrivere un capitolo sui siciliani reclusi a Padula dal 1944 al 1945. Scrissi poi un capitolo di una quarantina di pagine sul tema. Fa parte di un libro che conto di pubblicare tra uno o due anni sui crimini compiuti dagli angloamericani in Sicilia. E’ in attesa della prossima stampa di un altro mio libro sui governi militari d’occupazione. Chiamai a parte la guida e le dissi quanto da me conosciuto. Poi me ne andai a vedere, scavalcando una parete, i disegni che i “fascisti” fecero per lasciare traccia del loro passaggio e a salutare un esperto di storia locale, con il quale ebbi un proficuo scambio d’idee sulle tristi vicende della Certosa. I disegni si stanno inesorabilmente rovinando e sono preclusi alla visita dei normali e ignari visitatori. Alcuni sono andati perduti, forse per sempre, e ne resta traccia solo in poche fotografie. Sarebbe auspicabile un intervento di chi di competenza per salvaguardare un pezzo della nostra storia nazionale. Forse qualcuno però vuol far sparire questi disegni politicamente scorretti.

   Alla Certosa furono rinchiusi prigionieri di guerra austro-ungarici durante la Grande guerra; e dal 1941 fino all’Armistizio dell’8 settembre quelli anglo-americani, in particolare gli ufficiali. Erano custoditi da militari italiani. Dalla fine del 1943 cominciarono ad arrivare i fascisti ritenuti “pericolosi” per lo sforzo bellico angloamericano, qualche comunista che dava fastidio alle autorità d’occupazione, molte donne che non si erano piegate alle voglie dei “liberatori”, e tanti sventurati che vi finirono per errore, perché non vollero ad esempio cedere una bicicletta o un orologio a un militare britannico o americano, per vendetta privata o politica. Vi furono incarcerati anche diversi tedeschi, comprese alcune donne e un omosessuale che divenne molto apprezzato per i suoi servigi nel campo.  

   Agli inizi il campo fu “attrezzato” con paglia per terra nei gelidi cameroni ventilati da ampi finestroni privi di vetri, i flats. Anche nel gelido inverno di Padula, sotto la neve, tutti, giovani e vecchi, dovevano attendere senza pietà, totalmente nudi all’aperto, il turno per sottoporsi a un’obbligatoria doccia fredda. Gli inglesi non si vergognarono di alimentare i prigionieri nei primi tempi esclusivamente con ghiande e un po’ di tè e latte, che dei guardiani indiani davano sgarbatamente. Alcuni “padulini” dovettero trascorrere lunghi mesi nelle tende, i wings, montate nel patio.

   Alla Certosa, che poteva ospitare duemila prigionieri, transitarono tanti sfortunati; considerati gli avvicendamenti in altri campi e carceri, potremmo parlare di almeno ventimila internati passati da Padula e poi finiti altrove, ad esempio a Terni. Erano chiamati corpi. A Padula, insieme a tanti poveri diavoli, furono ospitati il principe Valerio Pignatelli, capo del Fascismo clandestino al Sud - che, durante la sua prigionia, fu considerato il capo spirituale dei fascisti lì concentrati - Nando Di Nardo, suo vice, e tanti loro camerati; i fascisti clandestini del MUI (Movimento Unitario Italiano) di Catania e tanti altri civili arrestati preventivamente. A Padula fu pure imprigionato Salvatore Ruta, animatore del gruppo di fascisti clandestini di Messina, con alcuni suoi camerati. Tra le 300 donne imprigionate, spiccavano le figure della principessa Maria Pignatelli e dell’instancabile Elena Rega del Fascismo clandestino napoletano. Tra i “padulini” noti troviamo tra gli altri, Paolo Orano, Achille Lauro, Giorgio Nelson Page, Gaetano Zingali, Valentino Orsolini Cencelli. A Padula furono rinchiusi tanti ex: generali - Nicola Bellomo, poi fucilato dagli inglesi, Ezio Garibaldi -, senatori, ex consiglieri nazionali, federali, professori, podestà, avvocati celebri e il ministro Polverelli. Finì allaReggia del silenzio anche Cesare Rossi, il memorialista del tempo della Quartarella, il periodo seguito al delitto Matteotti. Ciò nonostante avesse passato lunghi anni nelle prigioni mussoliniane, per le sue dichiarazioni contro il Duce. La logica avrebbe voluto che fossero classificati come meriti antifascisti. Gli angloamericani non ci andavano tanto per il sottile. Tra i prigionieri leggiamo i nomi di Carlo e Renato Guggenheim, ricchi israeliti di Napoli, nessuno sapeva perché non si trovassero invece tra i liberatori. Sui detenuti a Padula scrive il catanese Gaetano Zingali nel suo libro L’invasione della Sicilia: “Il più vecchio aveva 83 anni e il decano dei Siciliani, il fiero e generoso tenente generale Giannitrapani (che era considerato civile perché già fiduciario di non so quale circolo rionale di Palermo) ne aveva allora 76. Sempre a Padula vedemmo un giorno arrivare un pastorello abruzzese di undici anni, internato per passaggio di linea. In tema di umanità ricorderò anche il caso del giovane Gulisano da Centuripe, trattenuto un anno pur privo completamente di una gamba; e che fra i Siciliani ve ne erano malati di cancro, di ulcera gastrica ed altro”.

   A Padula c'erano circa 300 donne, italiane e straniere. Di tutte le età e categorie. Erano accusate di essere state ausiliarie della R.S.I., presunte o autentiche spie tedesche, femmine non disponibili verso i militari della V o dell'VIII armata, parenti d’italiani ostili agli invasori. Molto rumore destò l'arrivo nel campo di alcune giovani donne dell'Italia Centrale, punite per essersi rifiutate di essere "cortesi" professionalmente verso i "liberatori". Claudia Ressia, aveva le mansioni di “capitana” corrispondente all'incirca all'incarico di “Maresciallo” di wing nel reparto maschile. La sorveglianza del reparto femminile era affidata a una tedesca: Inge Leonard.

   Probabilmente i soli prigionieri morti alla Certosa furono i fascisti. Alcuni pagarono per la mancata o ritardata assistenza sanitaria prestata dai carcerieri britannici, come il famoso scrittore Paolo Orano; altri furono uccisi durante sfortunati tentativi d’evasione come il giovane Migliavacca, durante il quale fu ferito gravemente un altro giovane, tale Poltronieri; alcuni impazzirono a causa della detenzione.

   E’ un’ottima idea la provocazione di Pietro Cappellari, di mettere una lapida alla Certosa in ricordo degli “ospiti” di S. M Britannica là detenuti. Serve a smuovere le acque e rompere il muro del silenzio. Io penso che si dovrebbe organizzare un convegno scientifico sul tema. Per il quale offro la mia disponibilità a partecipare come relatore, per quanto di mia conoscenza. Il campo di concentramento di Padula fu chiuso nel settembre 1945. Sono passati 66 anni dalla sua chiusura. E’ ora di stabilire la verità dei fatti. Un rilevante contributo in tal senso potrebbe arrivare dalle Istituzioni, in primo luogo dalla civica amministrazione di Padula, non nuova a simili iniziative che riguardano la storia della Certosa nel 900.

   Non vorrei, che per ignoranza e/o malafede, fosse compiuto un falso storico e che le vittime diventassero colpevoli di un reato mai commesso.

  

Bagheria, 6 novembre 2011
                                                                                               
Giovanni Bartolone


Giovanni Bartolonenasce a Palermo nel 1953, ove insegna Diritto ed economia nelle Scuole Superiori. Vive a Bagheria (Palermo). E’ laureato in Scienze Politiche, indirizzo Politico Internazionale, con una tesi sul Referendum istituzionale Monarchia – repubblica del 1946. Ha conseguito un Master sul Medio e Vicino Oriente presso l’Istituto Enrico Mattei di Roma, con una tesi dal titolo Le operazioni di stabilizzazione. I governi militari d’occupazione in Sicilia, a Napoli, in Germania e in Iraq. E' da molti anni impegnato in ricerche sulla Seconda guerra mondiale, il Fascismo, il Nazionalsocialismo, il fenomeno della Mafia, la Sicilia dallo sbarco Alleato alla morte di Salvatore Giuliano.  Ha pubblicato nel 2005 il libro Le altre stragi, Tipografia Aiello & Provenzano, Bagheria, dedicato alle stragi alleate e tedesche nella Sicilia del 1943/44 e il saggio Luci ed ombre nella Napoli 1943-1946, in AA. VV., ISSES, Napoli, 2006. E’ attualmente impegnato in studi sui crimini commessi dagli anglo-americani in Sicilia nel 1943, durante l’occupazione della Sicilia. Ha collaborato a CandidoHistorica Nova eStoria del Novecento. Può
essere contattato al seguente indirizzo di posta elettronica: gbartolone1@alice.it





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