domenica 16 dicembre 2012

Il bombardamento italo-tedesco del porto di Bari


2 dicembre 1943, il disastro provocato dai depositi di armamenti chimici dei “Liberatori”


di: Luigi Antonio Fino

Nessun libro scolastico italiano vi ha mai raccontato questa storia, eppure, chiunque di voi potrebbe, leggendo i testi di storia della marina militare statunitense, scoprire che l’episodio del bombardamento di Bari è tuttora considerato dagli strateghi della marina USA come un grande disastro militare americano, secondo solo al bombardamento di Pearl Harbor! L’episodio di Bari è stato anche uno dei più tragici (e finora meglio conservati) segreti della storia della seconda guerra mondiale italiana.

Prologo
Il nostro racconto inizia in Italia, in un sonnolento pomeriggio sul finire del 1943, in uno di quei giorni assolati con il cielo terso, come talvolta l’inverno nel nostro Mezzogiorno ci sa regalare.
Gli Alleati si erano sistemati nei migliori palazzi e nei migliori alberghi. Nelle strade c’era grande animazione e movimento, sospeso in pratica il coprifuoco, riaperta l’Università, ampia scelta di “segnorine” a disposizione dei vincitori, fiorente mercato nero e file di navi da carico in attesa di entrare nel porto per scaricare merci ed armi.
In quel pomeriggio del 2 dicembre 1943 la ricognizione aerea tedesca inviò il primo tenente pilota Werner Hahn a compiere un volo di perlustrazione del fronte sud italiano.
Il suo obiettivo era l’osservazione e l’eventuale rilevazione fotografica del porto di Bari, in quel momento occupato dagli Alleati.
La giornata era primaverile ed il cielo era totalmente sgombro di nuvole; il piccolo ricognitore, incrociando a 23.000 piedi di altezza, lasciò dietro di sé una scia di condensa, rivelandolo subito agli occhi degli addetti alla difesa contraerea del porto.
Ma i reparti incaricati al servizio, parvero non curarsi affatto della curiosità di quell’innocuo velivolo che ronzava, solitario e noioso, sulle loro teste.
Non ricevendo molestie dalla contraerea inglese, il pilota tedesco decise di fare un secondo passaggio, sorvolando la città prima di fare rotta verso il nord, puntando verso casa.
Werner Hahn pensò che se quello che aveva visto era vero e le sue previsioni erano esatte, la Luftwaffe avrebbe potuto lanciare un serio attacco contro quell’interessante bersaglio.
Bari a quell’epoca era una città di circa 200.000 abitanti, la guerra aveva risparmiato in gran parte i suoi quartieri; sia la città vecchia che la Bari nuova infatti, avevano complessivamente patito pochi danni dall’invasione alleata.
Questi ultimi infatti avevano deciso di risparmiarla, pianificando di trasformarla nella principale base logistica e di rifornimento alleata per tutti i futuri sviluppi della Campagna d’Italia.
In quel finire del 1943 a Bari, al torpore sonnolento della città, faceva da contrasto il grande fermento del porto con l’andirivieni continuo delle navi alleate. Tonnellate di rifornimenti venivano sbarcate lungo quasi tutto l’arco della giornata, trasformando l’antica quiete della città in una specie di alveare operoso.
Quel 2 dicembre, almeno 30 navi alleate erano ormeggiate ai moli del porto od alla fonda in attesa di scaricare, ancorate spesso così vicine tra loro che alcune quasi si toccavano.
Il porto era sotto la giurisdizione britannica; in parte questo avveniva perché Bari era la base logistica per l’8° Armata del generale Bernard Law Montgomery. Ma la città era stata al tempo stesso designata come Quartier Generale della 15th Air Force americana, che era stata costituita appena nel novembre precedente.
La primaria missione di cui si sarebbe dovuto occupare la neocostituita forza aerea era quella di bombardare i bersagli individuati nei Balcani, in Italia ma soprattutto in Germania.
Il comandante della 15th Air Force era il maggiore generale James H. “Jimmy” Doolittle e questi era arrivato il 1 dicembre a Bari.
Gli americani avevano messo a punto, in quel tempo, la strategia dei bombardamenti diurni “di precisione”, ma l’8th Air Force americana di stanza in Inghilterra aveva sofferto terribili perdite proprio nel tentativo di verificare la validità di questa nuova teoria (1).
Gli organici della caccia della Luftwaffe, nei cieli della Germania sembravano, in quel frangente, aumentare anziché decrescere.
Il compito della 15th Air Force doveva essere quello di sottrarre parte della pressione della caccia tedesca che impegnava in quel momento l’8th.
In aggiunta agli usuali materiali di guerra, le navi ancorate a Bari, erano cariche del carburante per i bombardieri di Doolittle e di altri rifornimenti di prima necessità.
La scelta di Bari quale Quartier Generale della 15th Air Force americana era l’evidente vicinanza all’aeroporto di Foggia, designato, a sua volta, quale base principale dei bombardieri americani ed a quell’epoca in allestimento.
La città quindi, venne invasa anche da tutto il personale tecnico che avrebbe poi dovuto insediarsi nell’aeroporto di Foggia. Erano giunti così, circa 250 tra ufficiali dell’aviazione americana e tecnici civili di primo impiego oltre ad altre diverse centinaia di avieri e di personale civile da impiegare nei lavori di allestimento delle piste e degli hangar.
Totalmente assorbiti nel compito di dare velocemente una base alla nuova forza aerea, gli Alleati diedero poco rilievo alla possibilità che i tedeschi potessero organizzare un raid aereo su Bari.
La Luftwaffe in Italia aveva, ormai da molto tempo, rallentato la sua attività.
Lo sviluppo sfavorevole della Campagna d’Italia, l’aveva via via indebolita ed i suoi scarsi organici difficilmente avrebbero potuto essere impegnati in uno sforzo maggiore dell’attività di ordinaria routine. O almeno questo, era quello che i capi Alleati pensavano.
I voli della ricognizione tedesca su Bari venivano di regola osservati dalle batterie contraeree britanniche con annoiato distacco.
All’inizio, gli artiglieri inglesi avevano sparato all’indirizzo di quegli ospiti indesiderati, ma poi avevano cominciato ad ignorarli nella convinzione di risparmiare le munizioni.
Rispondendo alle inevitabili polemiche circa le inapplicate misure di sicurezza, il Vice Maresciallo dell’Aria britannico, Sir Athur Coningham, tenne una conferenza stampa nel pomeriggio dello stesso 2 dicembre assicurando i reporters al seguito alleato, che la Luftwaffe in Italia doveva ritenersi semplicemente disfatta. Egli disse di confidare nel semplice fatto che non riteneva più in grado i tedeschi di attaccare Bari. Dichiarò di ritenere “un personale affronto ed insulto” se la Luftwaffe fosse riuscita a tentare la più piccola e significativa azione in quell’area.
Nessuno pur tuttavia, era realmente convinto che la resistenza delle forze aeree tedesche fosse stata realmente spezzata. Ad esempio, il capitano dell’esercito britannico A. B. Jenks, che era il responsabile per la difesa del porto, sapeva perfettamente che le misure contraeree adottate erano insufficienti e che la preparazione dello stesso personale addetto alla difesa era inadeguato. Ma la sua voce e quella di pochissimi altri ufficiali, rimaneva inascoltata rispetto ai cori compiacenti della restante parte degli ufficiali, tutti facenti parte del seguito del Vice Maresciallo dell’Aria, Sir Coningham.

Il porto
Quando arrivavano le prime ombre della sera, i docks del porto di Bari venivano illuminati a giorno perché lo scarico dei cargo potesse proseguire. Nessuna precauzione ulteriore venne mai presa, nessuno parve mai sentire l’obbligo di imporre una qualche misura di oscuramento.
Il capitano Otto Heitmann, ufficiale di rotta della nave tipo Liberty “SS John Bascom”, osservava dal ponte della sua nave il lento procedere delle operazioni di scarico.
Sperava in cuor suo che potessero subire una qualche accelerazione.
Egli aveva presentato una formale richiesta alle autorità del porto per ottenere una precedenza nelle operazioni di scarico, ma non aveva ottenuto risposta. Questo lo aveva molto indispettito, ma non mancò di nascondere il suo disappunto all’equipaggio.
Se Heitmann avesse saputo che cosa la “SS John Harvey”, altra nave Liberty ancorata al loro fianco, portava nelle sue stive, avrebbe avuto ben altre ragioni di preoccupazione.
La “SS John Harvey”, comandata dal capitano Elwin F. Knowles, era una tipica nave Liberty; anonima ed assolutamente simile a tutte le altre navi ancorate in quel momento nel porto.
Molti di questi cargo erano carichi delle merci convenzionali per un fronte di guerra: cibo, munizioni, equipaggiamenti, carburante.
Ma quella nave così uguale al altre, così prima di significative differenze, aveva invece un carico segreto: circa 100 tonnellate di bombe cariche di gas iprite.
Le bombe erano una precauzione, avrebbero dovuto essere utilizzate solo se la Germania avesse, a sua volta, resuscitato lo spettro della guerra chimica.
Nel 1943, la possibilità che la Germania potesse utilizzare gas venefici appariva comunque come un’ipotesi remota.
A quel punto del conflitto l’iniziativa strategica era passata agli Alleati e la Germania era alla difensiva su tutti i fronti. Le forze tedesche avevano subito l’enorme disfatta di Stalingrado e subito dopo perso il controllo del Nord Africa.
Gli Alleati erano adesso sbarcati in Europa e stavano procedendo lentamente nel tentativo di risalire la penisola italiana.
Il Presidente americano Franklin D. Roosevelt, si ispirò nella continuazione della politica perseguita dai suoi predecessori, che tentarono di bandire la guerra chimica (Trattato di Washington del 6 febbraio 1922 e successivo Protocollo di Ginevra del 17 giugno 1925) e l’uso dei gas in generale, da parte di ogni nazione civile.
Pur tuttavia, durante l’avanzata alleata sul fronte del Nord Africa, vennero rinvenuti ingenti quantitativi di gas vescicanti (in realtà si trattava di materiale italiano risalente ancora al primo conflitto mondiale e conservato in Libia, più precisamente furono rinvenuti composti di fenilcloroarsine e iprite). Nonostante il materiale ritrovato dimostrasse di essere non in condizioni di pronto impiego, gli Alleati ipotizzarono uno scenario strategico nel quale le scorte di armi chimiche dovessero essere presenti da ambo i lati. La “SS John Harvey”, venne così selezionata per convogliare sul fronte italiano il suo carico letale e una volta lì giunto, poterlo detenere come riserva strategica.
Il carico letale della “SS John Harvey” era costituito in massima parte da contenitori per bombe convenzionali, lunghi circa 120 cm, del diametro di 20 cm e che potevano contenere circa 30 chilogrammi di iprite ciascuna.
In caso di utilizzo, ognuno di quegli ordigni, avrebbe potuto contaminare un’area di 40 metri di diametro.
L’imbarco del gas avvenne in una località del Maryland, ufficialmente venne imposto il segreto militare e l’attività venne coperta con il più completo riserbo.
Persino lo stesso comandante Knowles non venne subito formalmente informato della cosa.
Ma nel caso della “SS John Harvey” era stata imbarcata iprite di un tipo recente, prodotto durante le fasi precedenti del conflitto, ovvero l’Iprite Levistein H, una sostanza che gassificava facilmente con notevole aumento di pressione.
Ragione per la quale era necessario un controllo costante da parte di specialisti che dovevano seguire il carico.
Per svolgere questa attività, venne incaricato il 1st Lt. Howard D. Beckstrom del 701st Chemical Maintenance Company, che venne così imbarcato insieme ad un distaccamento di altri sei uomini.
Tutti erano esperti nel maneggio e nella manutenzione di materiale tossico.
Quando vennero imposti dai comandi statunitensi come membri dell’equipaggio della “SS John Harvey”, al capitano Knowles risultò immediatamente chiara la relazione che avrebbero avuto quegli improvvisati “ospiti” con il suo carico segreto.
Il cargo attraversò l’Atlantico senza incidenti, evitando gli agguati tesi dai sottomarini tedeschi che infestavano in quel periodo le vie oceaniche di collegamento all’Europa.
Dopo uno scalo ad Orano in Algeria, la nave salpò alla volta di Augusta in Sicilia prima di procedere per Bari.
Il tenente Thomas Richardson, che era l’ufficiale addetto alla sicurezza, era uno dei pochissimi uomini dell’equipaggio che ufficialmente era a conoscenza del carico letale.
I fogli del suo piano di imbarco indicavano chiaramente la presenza di oltre 2.000 ordigni a gas iprite del tipo M47A1 nella stiva.
Richardson naturalmente, voleva scaricare quel pericoloso carico il più velocemente possibile, ma quando la nave raggiunse Bari il 26 novembre, le sue speranze vennero frustrate.
Il porto e la rada erano ingombri di navi e già un altro precedente convoglio attendeva ormai con ritardo di essere a sua volta ammesso alle operazioni di scarico.
Dozzine di imbarcazioni stazionavano lungo i moli e le banchine, ognuna di essa attendeva il proprio turno per essere scaricata. Poiché il gas iprite non appariva ufficialmente registrato come carico a bordo, la “SS John Harvey” non era ovviamente autorizzata ad ottenere nessuna particolare priorità.
Per cinque lunghi giorni la nave rimase inoperosa, ancorata al molo 29, mentre il capitano Knowles tentava inutilmente di ottenere dagli ufficiali britannici del porto un’accelerazione delle operazioni di sbarco.

Il bombardamento
Mentre Knowles fremeva d’impazienza, Werner Hahn, il pilota del ricognitore tedesco era di ritorno alla sua base.
Le sue positive informazioni sulle condizioni di Bari, avviarono subito l’attuazione del raid che era stato discusso e pianificato appena qualche tempo prima.
La pianificazione dell’attacco a Bari era il prodotto di una serie di incontri tra il Feldmaresciallo della Luftwaffe, Albert Kesselring ed i suoi subordinati.
L’aeroporto alleato di Foggia era stato al centro di una discussione che lo aveva designato come un possibile bersaglio, ma le risorse della Luftwaffe erano ridotte al minimo per permettere un bombardamento efficace.
Era stato quindi il Feldmaresciallo della Luftwaffe, Wolfram Von Richthofen, comandante della 2° Luftflotte, che aveva suggerito Bari come una valida alternativa.
Cugino dell’asso della prima guerra Mondiale, Manfred Von Richthofen il famoso Barone Rosso, il Feldmaresciallo era un esperto ufficiale che aveva servito durante la Campagna di Polonia, la Battaglia d’Inghilterra e sul fronte russo.
Kesselring sapeva che ogni suo consiglio doveva essere ascoltato.
Richthofen riteneva strategica Bari e pensava che se il porto fosse stato messo fuori uso, l’avanzata dell’8° Armata britannica avrebbe potuto essere rallentata e anche l’offensiva della neocostituita 15th Air Force sarebbe stata inevitabilmente ritardata.
Richthofen riferì a Kesselring, che gli unici aerei che poteva utilizzare per comporre le squadre di attacco, rimanevano a suo avviso, i bombardieri Junkers Ju-88 A-4.
Con molta fortuna, pensava di poter raccogliere almeno 150 aerei in ordine di servizio per effettuare l’incursione.
Quando la forza di attacco venne però costituita, all’appello mancavano almeno un terzo degli aerei previsti, così solo 105 velivoli risultarono disponibili per la missione.
Ma l’elemento sorpresa, accoppiato con un attacco al tramonto, avrebbe potuto rovesciare il risultato a favore dei tedeschi.
Molti aerei sarebbero giunti dai vari aeroporti dislocati nel Nord Italia, ma Richthofen propose di utilizzare anche un’aliquota di velivoli facendoli arrivare dagli aeroporti basati sul territorio jugoslavo.
Pensò anche a come cercare di confondere le idee agli Alleati, che avrebbero potuto prevedere di subire un attacco proveniente dal nord. Ai piloti degli Ju-88 venne così ordinato di condurre i loro bimotori lungo la costa est dell’Adriatico puntando verso sud e poi, giunti all’altezza di Bari, virare verso ovest.
La contraerea britannica che avrebbe potuto attendersi un attacco sarebbe stata comunque sorpresa dalla sua direzione di provenienza.
Gli Ju-88 sarebbero comunque stati aiutati da una nuova arma: il Duppel.
Questa era un complesso di sottili strisce di carta stagnola, tagliate a diverse lunghezze.
Quando le strisce venivano scaricate nell’aria, i video dei radar alleati rilavavano la stagnola come la traccia che normalmente lascia un aereo, producendo un enorme eco di bersagli fantasma.
Il compito dei piloti era di arrivare intorno alle 19,30 della sera.
Bengala illuminanti avrebbero subito dovuto essere paracadutati per illuminare la via ai velivoli destinati all’attacco, gli Ju-88 sarebbero allora dovuti arrivare bassi dal mare e giungendo nel raggio d’azione dei radar alleati avrebbero dovuto rilasciare il Duppel creando l’inevitabile confusione.
I piloti tedeschi arrivarono, sul bersaglio all’ora stabilita.
Il primo tenente pilota Gustav Teuber, che comandava la prima ondata di attacco fece difficoltà a credere a quanto i suoi occhi stavano vedendo.
I docks di Bari, con tutte le luci accese, splendevano illuminati a giorno!
Teuber poteva vedere distintamente le sagome delle gru del porto stagliarsi nette contro il cielo nelle luci della sera mentre scaricavano i cargo. Il comandante tedesco riusciva a distinguere addirittura le navi con le stive aperte e durante il sorvolo, si puntò mentalmente le banchine a est del porto, che apparivano letteralmente ingombre di navi.
Come uccelli da preda, gli stormi degli Ju-88 scesero in ondate successive su Bari, il loro attacco venne illuminato dai bengala che gli aerei tedeschi del primo gruppo avevano lanciato, ma anche dalle luci della città che non rispettava nessuna misura particolare di oscuramento.
Le prime bombe colpirono in particolare i quartieri della Bari vecchia, enormi geyser di fumo e fiamme si innalzarono ad ogni esplosione, ma fu presto il turno del porto ad essere colpito.
In quel momento circa 30 imbarcazioni erano all’ancora, ogni equipaggio a bordo dovette dare il meglio delle loro possibilità, nel tentativo di fronteggiare l’improvvisa emergenza.
La sorpresa fu totale e qualche nave non poté disporre di tutti gli uomini dei propri equipaggiamenti in quanto molti avevano avuto il permesso di sbarcare a terra.
Le luci dei bengala tedeschi furono il primo ostacolo che i marinai incontrarono nel contrastare l’attacco aereo rimanendo abbagliati.
A bordo della “SS John Bascom”, il secondo ufficiale, William Rudolf spense immediatamente tutte le luci della nave ed allertò il Capitano Heitmann. La squadra addetta al servizio antiaereo si precipitò ai pezzi, unendosi al fuoco di sbarramento che qualche batteria contraerea del porto cominciava adesso ad aprire verso gli aggressori.
Il cielo si rigò della luce dei traccianti e si riempì degli scoppi dei colpi sparati dai cannoncini antiaerei inglesi.
Il fuoco di sbarramento si dimostrò largamente inefficace.
Non c’era più tempo per tagliare i cavi di ormeggio e tentare di defilarsi mettendo le macchine indietro; gli equipaggi delle navi ormeggiate lungo le banchine est, attendevano invano che giungesse un aiuto da qualcuno, quando un terrificante uragano di fuoco cominciò a cadere tutto intorno alle navi da carico, ferme ed indifese.
La “SS Joseph Wheeler” ricevette un colpo in pieno ed esplose in fiamme, la “SS John Motley” fu colpita da una bomba all’altezza della quinta stiva. La “SS John Bascom” che era ancorata subito a fianco delle due navi colpite, fu la vittima successiva.
La nave tremò sotto una pioggia di bombe che la colpirono letteralmente da poppa a prua.
Una di queste esplosioni scaraventò a terra il Capitano Heitmann e la successiva onda d’urto lo mandò a sbattere contro la porta della sala timoni.
Momentaneamente stordito e con le mani ed il viso coperto di sangue, Heitmann cercò di rialzarsi e nel farlo, dovette ricomporre il corpo di uno dei suoi uomini, Nicholas Elgin, che giaceva scomposto vicino a lui, la dove l’esplosione lo aveva gettato; il sangue gli zampillava da una profonda ferita alla testa ed il corpo del marinaio era stato letteralmente spogliato dei suoi abiti dalla forza dell’onda d’urto.
La plancia della nave era parzialmente distrutta ed i ponti erano stati perforati in molti punti; rottami e detriti erano ovunque.
Non c’era null’altro da fare che abbandonare la nave.
Ignorando il dolore per le proprie ferite, Heitmann ordinò all’equipaggio di ammainare le scialuppe di salvataggio che risultavano ancora in ordine, quindi lasciarono il relitto che intanto stava imbarcando acqua dalle falle aperte.
L’intero porto aveva assunto un aspetto da girone dantesco, enormi lingue di fuoco giallo arancio si alzavano nel cielo, producendo dense colonne di fumo acre.
Si potevano vedere le navi colpite mentre bruciavano o lentamente affondavano.
Quando il fuoco raggiungeva le stive cariche di munizioni, queste esplodevano con colpi tremendi.
La superficie dell’acqua cominciò a coprirsi di una pellicola nera e viscosa di olio e nafta, che accecava e soffocava quei naufraghi che avevano la sfortuna di doverci nuotare dentro.
In quel mentre, l’equipaggio della “SS John Harvey” stava combattendo un’eroica battaglia per salvare la nave.
Il cargo era rimasto sostanzialmente intatto e non aveva subito colpi diretti o danni da bomba, pur tuttavia era stato avvolto dalle fiamme e la situazione era doppiamente pericolosa visto il carico delle bombe a gas che ospitava nella stiva.
Il Capitano Knowles ed il tenente Beckstrom insieme ad altri che si trovavano a bordo, si rifiutarono di abbandonare il loro posto, ma il loro eroismo fu speso invano.
Senza segnali che facessero presagire qualcosa, la “SS John Harvey” esplose letteralmente per aria in una enorme palla di fuoco.
Un’enorme colonna di fumo si alzò per diverse centinaia di metri, mentre pezzi della nave vennero scagliati tutto intorno nell’aria. Tutti coloro che si trovavano a bordo rimasero uccisi all’istante, mentre chiunque ebbe a trovarsi nel raggio d’azione dello spostamento d’aria, venne gettato a terra.
Gli uomini a bordo della “USS Pumper”, una nave cisterna che trasportava carburante avio, furono i testimoni degli ultimi minuti di vita della “SS John Harvey”.
Essi raccontarono che l’esplosione venne accompagnata da altissime scie multicolori che ricordavano a molti i fuochi d’artificio del 4 luglio e di come l’immensa colonna di fumo che si alzò dalla “SS John Harvey” assumesse la classica forma a fungo.
L’intera area del porto venne illuminata a giorno dal bagliore dell’esplosione.
La “USS Pumper”, venne letteralmente spostata dal vortice di aria bollente che si creò, facendola sbandare di quasi trentacinque gradi!

Il dramma
Intanto Heitmann e i sopravvissuti del suo equipaggiamento tentavano di raggiungere la punta della banchina est, girando intorno ad un fanale che era stato posto come riferimento ai natanti in avvicinamento.
Dell’originale equipaggio, non rimanevano che una cinquantina di sopravvissuti.
Molti erano feriti seriamente, altri avevano ustioni in ogni parte del corpo, tanto che ogni tentativo di soccorrerli o persino di sostenerli causava loro enormi sofferenze.
Quando raggiunsero il fanale pensarono di essere in salvo, ma presto capirono di non poter più proseguire mentre l’area intorno sembrava trasformarsi in una trappola mortale, visto che un mare di fiamme tagliava fuori Heitmann ed i suoi uomini, dalla lunga spina che collegava la banchina est alla città.
Decisero comunque di rimanere nell’area ed attendere di essere soccorsi, quando il Guardiamarina K.K. Vesole, comandante del distaccamento armato di guardia sulla “SS John Bascom”, cominciò ad avere qualche problema di respirazione. Molti altri uomini cominciarono ad avere un respiro affannoso, ma fu lo stesso Vesole che cominciò a notare qualcosa di strano circa il fumo che li circondava.
“Sento odore di aglio” disse, senza realizzare a pieno le implicazioni legate a quanto stava dicendo.
L’odore dell’aglio era il caratteristico indizio rivelatore dell’iprite nell’aria.
Il gas aveva iniziato a liberarsi, miscelato con il carburante che galleggiava nel porto e andava mescolandosi anche con il fumo che permeava l’intera area.
L’iprite, insieme al carburante poi, rivestiva interamente i corpi degli sfortunati marinai alleati che lottavano nell’acqua finirono per inalare l’iprite gassosa.
Cominciarono a verificarsi le prime vittime: “Generalmente il superstite era ricoverato con ustioni seguite alla vescicazione della superficie corporea. Veniva sottoposto alle terapie del caso a cui seguiva un sostanziale miglioramento delle condizioni generali. Poi improvvisamente cominciava ad accusare disturbi nella respirazione, perdeva la voce, espettorava muco fetido e giallastro misto a sangue scolorito ed il polso si indeboliva. Infine, nonostante tutte le misure di emergenza che il caso richiedeva, il paziente cessava di vivere”.
In questo modo morirono, secondo stime prudenziali di fonte americana, circa un migliaio di civili.
Ma le stime esatte non poterono mai essere stabilite, in quanto dopo una prima fuga dei civili verso le aree del porto, per sottrarsi alla soffocante nube tossica, essi diedero vita ad un vero e proprio precipitoso esodo verso le campagne circostanti.
Se e quante furono le vittime ulteriori nei giorni seguenti tra i profughi eventualmente intossicati, nessuno fu mai in grado di stabilirlo con certezza.
Intanto una lancia, inviata dal “USS Pumper” che ancora galleggiava, andò in soccorso del Capitano Heitmann e degli altri sopravvissuti della “SS John Bascom”, rimasti sulla banchina est.
Ma i loro maggiori problemi iniziarono soltanto allora.
Il raid tedesco era iniziato alle 19,30 della sera e terminò 20 minuti più tardi.
Le perdite da parte germanica furono irrisorie e di gran lunga inferiori a quelle che erano state le loro migliori previsioni. I tedeschi infatti, si sarebbero attesi che gli equipaggi dei bombardieri delle prime ondate di assalto, versassero un pesante tributo di sangue. Ma non fu così.
Diciassette navi alleate erano nel frattempo affondate ed altre otto pesantemente danneggiate, legando indissolubilmente Bari alla definizione americana di una “seconda Pearl Harbor”.
Gli americani sostennero le perdite più elevate perché vennero affondate le cinque navi liberty: “SS John Bascom”, “SS John L. Motley”, “SS Joseph Wheeler”, “SS Samuel J. Tilden”, “SS John Hervey”, gli inglesi persero quattro cargo, i norvegesi tre, i polacchi fedeli al Governo di Londra due e la Marina Mercantile italiana, che aveva optato per servire in favore degli Alleati, altre tre navi.
Il mattino successivo, ai sopravvissuti, si presentò uno spettacolo di assoluta devastazione.
Una parte di Bari era stata ridotta in un ammasso di rovine, particolarmente colpita sembrava l’area medievale della città vecchia.
Parti del centro abitato e del porto stavano ancora bruciando e lunghe volute di fumo nero salivano in cielo. Le perdite tra il personale militare e quello della marina mercantile furono oltre un migliaio, tra morti e feriti.
Circa 800 uomini dovettero essere ricoverati negli ospedali della zona.
Fortunatamente Bari era la località dove gli Alleati avevano deciso di concentrare un discreto numero di ospedali da campo con le relative attrezzature.
Il Policlinico, che a Bari era stato edificato dal Fascismo, era la sede del 98th British General Hospital e del 3rd New Zealand Hospital. Queste due strutture sanitarie militari, furono i principali ospedali che accolsero il maggior numero delle persone contaminate dall’iprite.
Le vittime dell’incursione cominciarono ad affluire, all’inizio lentamente poi in vere e proprie ondate, fino a saturare tutte le strutture di prima accoglienza.
Quasi immediatamente qualcuno dei feriti iniziò a manifestare la sensazione di qualcosa di granuloso negli occhi, seguita da bruciori e dolori.
Le loro condizioni cominciarono subito a peggiorare nonostante tutte le misure di emergenza adottate. I loro occhi si gonfiarono e la loro pelle cominciò a ricoprirsi di vesciche
Sin dal 1942 gli Alleati avevano messo a punto un kit di pronto soccorso da utilizzarsi in caso di contaminazione.
Ma nel caso di Bari non si fece in tempo ad utilizzarli, anzi siccome il carico era coperto da assoluta segretezza, non fu diramato nessun allarme ed il personale medico curò le vittime per le ustioni e le conseguenze delle esplosioni.
I sanitari e gli infermieri che avrebbero dovuto prestare la prima assistenza ai feriti, senza nessun tipo di informazione su quanto fosse accaduto, non fecero levare gli abiti contaminati di dosso a quei marinai che erano caduti in acqua e che erano stati avvolti dalla letale pellicola oleosa composta da nafta ed iprite.
Le vittime colpite dal gas erano scosse da colpi di tosse violenti ed accusavano difficoltà respiratorie, temporaneamente accecati, con un polso sempre più debole, l’agonia delle bruciature veniva spesso accompagnata dai danni prodotti dall’iprite gassosa con tremende ustioni alle ascelle, all’inguine fino a causare la tumefazione dei genitali.
Gli uomini iniziarono a morire e qualche medico iniziò a sospettare che un agente chimico potesse essere una causa dei decessi sempre più numerosi.
Qualcuno puntò subito il dito verso i tedeschi, immaginando che questi ultimi avessero in qualche modo riesumato lo spettro della guerra chimica.
Un messaggio venne subito spedito al Quartier Generale Alleato in Algeri, informando il Responsabile Aggiunto della Sanità Militare, Generale Fred Blesse, che decine di pazienti stavano morendo a Bari a causa di una misteriosa malattia.
Per risolvere il mistero, Blesse inviò il Lt. Col. Stewart Francis Alexander, un medico militare inglese esperto di guerra chimica, a Bari.
Alexander esaminò i pazienti ed intervistò quelli che riuscivano a parlare.
Iniziò subito a pensare ad una contaminazione da iprite gassosa, ma il medico non poteva esserne completamente certo.
I suoi sospetti furono confermati quando un frammento di un contenitore per bomba d’aereo venne ritrovato alle spalle del porto. Il frammento venne identificato come una bomba americana del tipo M47A1, un modello che poteva essere caricato a gas iprite.
I tedeschi vennero così subito eliminati dalla lista dei sospetti ed i britannici espressero ai loro alleati americani biasimo per l’accaduto.
Il Tenente Colonnello Alexander, pur tuttavia, non riusciva ancora a comprendere come e dove si fosse potuto originare l’incidente delle bombe all’iprite.
Il medico iniziò a conteggiare il numero dei deceduti, suddividendoli secondo gli equipaggi originari di appartenenza.
Quindi ricostruì in un grafico, attraverso le scarne testimonianze, la posizione della navi nel porto al momento dell’attacco.
La maggioranza delle vittime risultava in larga parte, proveniente dagli equipaggi delle navi ancorate vicino alla “SS John Harvey”.
Solo allora, davanti all’evidenza, gli americani consegnarono alle autorità britanniche del porto, la documentazione che rivelava loro, la vera natura del carico della “SS John Harvey”.
Alexander stilò un rapporto dettagliato che indirizzò direttamente al Comando Supremo Alleato, quest’ultimo venne approvato dallo stesso Generale Dwigt D. Eisenhower.
Il segreto militare venne posto sull’intera faccenda; si decise che nei rapporti formali con la stampa, sia i britannici che gli americani, avrebbero potuto parlare dei risultati devastanti del raid germanico ma del ruolo che il gas iprite aveva giocato nell’immane tragedia non si sarebbe dovuta fare menzione alcuna.
Il Primo Ministro britannico, Winston S. Churchill, fu particolarmente scrupoloso nell’adoperarsi affinché ogni particolare dettaglio della tragedia rimanesse segreto.
Il suo imbarazzo derivava innanzitutto dal fatto che l’incursione aerea tedesca era stata condotta su di un porto sotto la giurisdizione britannica.
Churchill credeva che la pubblicizzazione del fiasco alleato potesse rappresentare un formidabile colpo per la propaganda tedesca.
Inoltre Churchill prodigò i suoi sforzi perché i medici militari britannici eliminassero dalle liste delle vittime ogni possibile riferimento che potesse legare le cause del decesso ai danni derivanti dal gas chimico.
Al Quartier Generale alleato, si suggerì di indicare nelle cartelle cliniche, le ustioni chimiche con la generica denominazione “cause non ancora diagnosticate” e di indicare per le vittime decedute la dicitura “bruciate in seguito ad azione nemica”.
Delle perdite alleate, sofferte durante il bombardamento di Bari, 628 furono causate dall’iprite.
La maggioranza delle vittime fu rappresentata naturalmente dagli uomini della Marina Mercantile.
Di queste, 69 morirono nelle due settimane successive all’incursione.
Molti dei colpiti poi, come nel caso del capitano Heitmann della “SS John Bascom”, pur sopravvivendo, dovettero essere ricoverati in strutture specializzate, alcuni sino oltre la fine del conflitto.
Nella triste contabilità dei morti, come abbiamo già detto, non poterono mai figurare i civili italiani che furono contaminati dalla nube letale. Le stime prudenziali di fonte americana, che furono all’epoca formulate, parlano di circa un migliaio di vittime.
L’esodo che seguì al raid verso le campagne circostanti, impedì pur tuttavia di assommare tutti coloro i quali morirono lontano dalle strutture sanitarie alleate.
Ancora oggi, peraltro, non è possibile stimare quanti furono i morti causati anche dalle cure inadeguate se non addirittura inappropriate.
A causa dell’enorme numero dei colpiti, non fu nemmeno possibile stendere la sola contabilità dei feriti temporanei.
L’equipaggio italiano della nave da carico “Bistera”, ad esempio, scampò al fuoco nemico e la nave rimase nelle vicinanze del porto tutta la notte tentando di prestare soccorso alle navi vicine.
Il giorno seguente, la nave salpò verso Taranto, ma durante la navigazione il personale iniziò a lamentare fortissimi bruciori agli occhi e poco mancò che l’intero equipaggio diventasse cieco, senza possibilità di arrivare all’ormeggio in porto a Taranto.
I danni e le vittime rappresentarono una immane tragedia, ma Bari rappresentò anche un disastro strategico.
Il porto, dopo il terribile avvenimento, rimase completamente chiuso per tre settimane.
Il 12 gennaio 1944, la 5° Armata del Generale Mark Clark, lanciò un’offensiva dal fronte sud nel contesto di un più vasto piano offensivo della Campagna d’Italia, che prevedeva tra l’altro lo sbarco alleato ad Anzio qualche giorno più tardi.
Elementi della 5° Armata attraversarono il fiume Rapido e stabilirono inizialmente una testa di ponte, l’offensiva presto si arenò e dovette essere interrotta a causa dei mancati rifornimenti.
Ufficialmente la causa fu ricondotta alle cattive condizioni climatiche che ebbero a verificarsi in quel periodo e che crearono dei problemi nei rifornimenti, ma la chiusura di Bari fu probabilmente uno dei maggiori fattori di quel fallimento.
Anche la 15th Air Force americana ebbe a soffrire degli ostacoli creati dal successo tedesco a Bari.
Era già stata pianificata infatti, un’azione offensiva verso gli obiettivi della Germania, combinata con l’8th Air Force di stanza in Inghilterra.
L’azione si sarebbe dovuta svolgere solo due giorni dopo quello che poi risultò essere il giorno dell’incursione aerea germanica!
Il bombardamento di Bari compromise la partecipazione della 15th Air Force in quell’offensiva specifica e quest’ultima non poté contribuire all’andamento del conflitto fino a dopo il febbraio 1944.
Oltre a rappresentare un disastro strategico, Bari fu uno dei più notevoli exploits della Luftwaffe tedesca (che per inciso non si rese mai completamente conto del brillante risultato ottenuto).
Della tragedia umana invece poco o nulla emerse, la stampa alleata dell’epoca (debitamente ammaestrata) dette pochissimo risalto alla notizia dell’incursione e dell’iprite non parlò affatto.
Le esigenze di segretezza imposte durante il conflitto prima e le vicende del dopoguerra legate al clima di guerra fredda poi, insieme all’ossequio verso l’America imposto dall’Alleanza Atlantica, hanno impedito agli italiani di riappropriarsi di un pezzetto della loro storia minore.
Eppure ormai a quasi settant’anni dalla fine del conflitto, sappiamo che in America, Bari rappresenta oggi un esempio da studiare, da tramandare alle generazioni dei futuri ufficiali della Marina Militare americana.
Perché quel carico di iprite? Gli Alleati in quel periodo erano fermi davanti alla linea di difesa tedesca “Reinhardt”, distesa attraverso le montagne a nord di Isernia e la cresta di San Salvo, fino a Vasto. Per gli Alleati era necessario sfondare la linea “Reinhardt” perché dietro di essa i Tedeschi stavano realizzando una nuova e più munita linea difensiva la “Gustav”.
Il sospetto è che potesse essere questo l’obiettivo delle armi chimiche che non furono poi più necessarie perché il primo dicembre 1943, un giorno prima del disastro di Bari, gli Alleati conquistarono il Monte Camino, baluardo fondamentale della Reinhardt”, consentendo così il crollo della linea di difesa tedesca.

L’EPILOGO
Negli anni a seguire l’iprite continuò ad intossicare ed ad uccidere, nonostante la bonifica del porto. Stime assolutamente prudenziali parlano di almeno duecento casi di ustionati di cui cinque con conseguenze mortali.
Esposti in primo luogo i pescatori, ma anche negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto, ragazzini che raccoglievano metallo nel porto, e poi, nel 1951, dei civili che raccoglievano legna impregnata di iprite proveniente da una nave affondata.
L’Adriatico meridionale è quindi ancor oggi una enorme discarica di munizioni, non solo bombe all’iprite ma munizionamento di ogni genere, anche riveniente dal conflitto NATO-Serbia del 1999.
Si resta attoniti sul dato che nessuno sia mai stato imputato per quello che sicuramente è stato un crimine di guerra e contro l’umanità con costi umani e sociali di enorme portata.
Un velo di misteri avvolge ancor oggi tutta la vicenda la cui portata non fu compresa nemmeno da Mussolini e dai capi militari della Repubblica Sociale, che non avendo coscienza della natura della tragedia, non sfruttarono la violazione delle Convenzioni Internazionali ad uso di utile propaganda contro gli Alleati!
Al bombardamento di Bari parteciparono infatti anche aviatori italiani della R.S.I., fra cui un pilota di Cisternino, poi emigrato a Bologna nel dopoguerra, di cui stiamo cercando di rintracciare le memorie.
Sulla tragedia dei civili baresi e dei militari Alleati il colonnello medico Stewart F. Alexander, seguito dal dottor Cornelius P. Rhodhes, costruì un’ipotesi di terapia per la leucemia, stante il dato che il gas mostarda era capace di operare rapido calo dei globuli bianchi. Fu così che, grazie a successivi studi nell’Università di Yale, a New York, un derivato dell’iprite, la mecloretamina, divenne uno dei primi farmaci antitumorali.

http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=18393

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