Da Robespierre a Napoleone, da Marx a Ficthe, fino ad arrivare a
Pannella, Bonino & soci
di ........
Le nozioni di destra e di sinistra nascono dall’Assemblea Nazionale Costituente, riconosciuta come fatto compiuto anche dal Re, il 27 giugno 1789, giorno in cui invitò anche i deputati del clero e della nobiltà a unirsi a quelli del terzo stato, in un unico organo rappresentativo.
A questo punto, secondo quanto afferma il Dizionario politico della UTET, i “deputati conservatori occupavano i seggi sulla destra, di fronte al Presidente”, mentre i rappresentanti delle idee più democratiche e progressiste si sedettero a sinistra. Da allora, sempre in base al Dizionario politico UTET, la destra indica il fronte della conservazione e la sinistra il fronte del progresso, della democrazia e del cambiamento, in cui si inserirà, a fine Ottocento, il movimento socialista, che porrà il problema della distribuzione sociale della ricchezza.
Se si guarda agli schieramenti parlamentari e politici degli Stati di fine Ottocento, occorrerà distinguere ancora una destra moderata da un’estrema destra autoritaria, una sinistra moderata e riformista da una estrema sinistra rivoluzionaria. Il termine di riferimento per questa ulteriore articolazione delle logiche di schieramento politico è la questione operaia, che esplode violenta fra le insurrezioni parigine del 1848 e la Comune di Parigi della primavera 1871. La Comune di Parigi è evento decisivo per stabilizzare e affinare tutte queste logiche di schieramento, sorte nel 1789: essa rappresenta la prima vera e organica rivoluzione socialista della storia, nell’ambito della quale le diverse fazioni socialiste francesi esercitano il potere per alcune settimane, prendendo concreti provvedimenti contro la proprietà privata e proponendo come orizzonte strategico della rivoluzione non più il “regime di piccola e media proprietà diffusa”, di giacobina memoria, ma l’abolizione della proprietà privata.
A questo punto la destra moderata continuerà ancora a muoversi entro le istituzioni dello Stato liberale, a rimanere fedele alle libertà politiche, alle prerogative del Parlamento e alla sua centralità e si orienterà a risolvere le questioni sociali entro questo contesto istituzionale, in modi più o meno pacifici; l’estrema destra invece opterà per soluzioni autoritarie, accettando un sostanziale esautoramento dell’autorità del Parlamento, una drastica riduzione delle libertà politiche, sul modello dello stato bismarkiano in Germania. Specularmene a sinistra: la sinistra moderata cercherà di ottenere graduali riforme sociali entro il quadro istituzionale dello Stato liberal parlamentare; la sinistra rivoluzionaria continuerà a lottare per un cambiamento politico repentino e violento, come fu la Comune di Parigi e come sarà la Rivoluzione russa dell’Ottobre 1917.
Il quadro qui rappresentato è molto generico; lo si capirebbe meglio, sia all’interno della Rivoluzione francese, sia nel contesto dell’intera storia contemporanea, se si tenesse conto del valore simbolico religioso della scelta, effettuata dalla maggior parte dei deputati del clero e della nobiltà, di porsi alla destra del Presidente dell’Assemblea. Sia nella simbologia cristiana, sia in quella radicata nella Tradizione aristocratica indoeuropea, la “destra” è il principio della giustizia e del Divino (Recht in tedesco significa “destra” e nel contempo “diritto”; Cristo siede alla Destra di Dio ecc.). Con questo atto politico le forze legate al sistema monarchico feudale rivendicano la giustezza, l’inalterabilità, la discendenza divina di tale sistema e di tutti i suoi elementi: l’origine della sovranità da Dio, la disuguaglianza di fronte alla legge, con il clero e l’aristocrazia quali ordini legittimamente privilegiati dalla loro funzione mediatrice, fra Sacro e profano, il primo, fra Re e popolo, il secondo.
Al di sopra di tutto stava la negazione del progresso storico a fronte della discendenza divina, dunque dell’intangibilità di questo ordine di cose.
A sinistra si distribuirono i sostenitori, più o meno radicali, delle idee di libertà, uguaglianza, progresso sociale e storico, dominanti nel pensiero del Settecento.
Ma a partire dal 1792, cioè dallo scontro
interno al Club dei Giacobini fra girondini e robespierristi, si
produsse una lacerazione profonda fra i fautori delle nuove idee
rivoluzionarie; lacerazione destinata a laicizzare la distinzione
destra-sinistra e a ricondurla in linea di massima ai caratteri già
posti in evidenza. Da una lato i girondini e la borghesia liberale e
illuministica, vera destra conservatrice, sostenitrice dei valori
dell’individualismo sociale, di una libera economia di mercato, del
primato della libertà individuale e della proprietà rispetto
all’uguaglianza (ridotta a pura e semplice eguaglianza di fronte alla
legge); dall’altro lato Robespierristi e Arrabbiati, sostenuti dal
Movimento popolare di Parigi, che già si proponevano come una sinistra
sociale e intendevano affermare il primato dell’uguaglianza,
conferendole un significato sociale attraverso la proposta di una
politica economica dirigista e il progetto di un regime di piccola e
media proprietà diffusa, ostile alle grandi concentrazioni
capitalistiche di ricchezza.
Da quel momento si porranno le premesse di un sistema e di un linguaggio politico che distinguerà:
Da quel momento si porranno le premesse di un sistema e di un linguaggio politico che distinguerà:
1) un’estrema destra reazionaria, estranea ad
ogni forma di modernità;
2) una destra liberale e conservatrice, legata
all’economia di mercato e al privilegio capitalista; 3) un’estrema
destra autoritaria, disposta ad appoggiare le soluzioni più autoritarie
pur di proteggere la proprietà da qualsiasi misura che sappia vagamente
di socialismo;
4) una sinistra moderata, integrata nello Stato liberale,
in cui confluiranno il socialismo riformista e i contenuti (sociali ma
non socialisti) della tradizione giacobina (come già avvenne nella
primavera del 1848 a Parigi, con i demo-soc di Rollin);
5) una sinistra
rivoluzionaria, che innesterà i progetti socialisti più radicali sui
metodi di azione dello stesso giacobinismo.
Come si è spiegato, queste logiche politiche e comunicative si sono sviluppate a partire sì dagli eventi della Rivoluzione francese, ma non trovano certo la loro definizione completa nel suo arco cronologico. Per arrivare ad essa, che sommariamente è quella entro la quale si pongono i grandi eventi della storia del Novecento, è decisivo l’Ottocento, in modo particolare la seconda metà del secolo, successiva alle rivoluzioni del 1848-1849 dopo la Comune di Parigi e la crisi di fine secolo. In questo periodo nascono la questione operaia e il movimento socialista, di conseguenza le forze del liberalismo e del patriottismo borghese, all’opposizione e al governo, non possono continuare a dividersi semplicemente in monarchici e repubblicani, liberali e democratici. Ad esempio l’estrema destra autoritaria, in Italia, nasce con la crisi di fine secolo e con l’ex democratico ed ex garibaldino Francesco Crispi, che intende proprio domare una crisi economica e un decennio di agitazioni sociali con la forza dell’esercito e introducendo nel Paese il modello bismarkiano. Dopo il trauma rivoluzionario del 1871, analoghi movimenti politici agitano la Francia, sino a far pensare che la cruenta repressione della Comune debba sfociare in una nuova restaurazione monarchica.
Di rilievo riferire in questo contesto la tesi di Costanzo Preve, secondo la quale la sinistra rivoluzionaria che si forma a fine Ottocento, sostanzialmente dopo la Comune di Parigi, non è soltanto una sinistra proletaria e socialista, ma nasce dalla convergenza delle istanze socialiste del proletariato con le istanze estetiche e libertario individualiste di larghi settori dei ceti intellettuali di origine borghese, decadentisti, scapigliati, e poi le avanguardie artistiche del primo Novecento. Si forma dunque una sinistra rivoluzionaria che è la convergenza fra la sinistra socialista operaia, che pone il problema di trasformare su basi collettivistiche i rapporti di produzione, e una sinistra “estetica”, intellettuale, orientata a distruggere i valori familisti e religiosi della società borghese tradizionale. Ecco il ’68 in provetta, l’humus di Lotta continua, il cui operaismo era una maschera per sviluppare una lotta pannelliana, poi vincente, su divorzio, aborto, liberazione sessuale, femminismo, infine mobbing, stalkink, ecc.
Detto questo sulla lenta maturazione delle categorie politiche sorte dalla Rivoluzione francese, poniamoci un altro quesito: i contemporanei, cioè i protagonisti dei suoi eventi, dalla Costituente a Napoleone, ragionavano solo in termini di destra e sinistra, oppure queste nuove categorie convivevano con altre più tradizionali? Il Settecento non è solo il secolo in cui si affinano le basi teoriche della modernità liberalcapitalista, è anche un secolo fortemente improntato al classicismo. Le categorie del classicismo, soprattutto in Francia, vengono utilizzate in chiave molto politica, spingendo i contemporanei a leggere i classici del pensiero politico e della storiografia greco-latina (soprattutto Plutarco, Platone, Polibio). Quindi nel posizionamento, nel pensiero e nel linguaggio dei protagonisti della Rivoluzione occorre tenere presente anche questo aspetto, che riguarda soprattutto i concetti di democrazia, di dittatura e di repubblica.
La democrazia per la quale si batterono la sinistra giacobina e il Movimento popolare, contro Foglianti, Girondini, ecc., aveva poco a che fare con quanto intendono i democratici dei nostri giorni con questo termine, e non solo perché ne videro il necessario carattere sociale (A. Mathiez, in una sua prolusione del 1920 su Robespierre, mise proprio in evidenza una sua affermazione del 1792 che suonava nel modo seguente: “la democrazia o è sociale o non è!”). Il sistema democratico cui facevano riferimento era desunto dal classicismo politico di Rousseau (teniamo in conto che, come evidenziano Vovelle e Derathé, Il contratto sociale, già prima degli eventi rivoluzionari, è ampiamente letto, conosciuto e dibattuto fra gli ambienti artigiani delle città e fra i loro garzoni di bottega: la base sociale e i quadri politici del movimento sanculotto).
La democrazia era potere popolare indivisibile, esercitato dal popolo in continue assemblee pubbliche ove si doveva discutere del bene comune e definirne i contorni, secondo il modello dell’Atene di Clistene e di Pericle: il popolo doveva disporsi a cerchio nell’agorà e trovarvi “nel mezzo” l’interesse generale. Su queste basi concettuali la “democrazia” giacobina e sanculotta si dimostra ostile al principio della tutela di opinioni che riflettano interessi particolari, profondamente legata al principio della virtù come dedizione permanente al bene pubblico e allo Stato, in difficoltà a mediare fra la partecipazione diretta e il principio della deputazione (che si rendeva necessario per governare un Paese che non aveva le dimensioni di una città stato). Non a caso, su quest’ultimo punto, insorsero, fra il ’93 e il ’94, gravi contrasti fra robespierristi, da un lato, Arrabbiati e hebertisti, dall’altro lato: i primi trovarono la mediazione sulla base delle indicazioni dell’ultimo Rousseau politico, istituendo la deputazione revocabile dagli elettori (che entrò poi nel dettato costituzione del 1793, della Comune di Parigi e delle Costituzioni sovietiche sino al 1989-1991); Arrabbiati e hebertisti insistevano per incentrare la democrazia sulla mobilitazione continua, spontanea e anarcoide delle sezioni popolari.
Ci troviamo comunque agli antipodi della prassi costituzionale inglese, cui si ispirarono la Costituzione americana e la Costituzione francese del 1791: divisione dei poteri, deputazione che rappresenta gruppi d’interesse diversi, schieramenti alternativi di governo, libertà d’espressione individuali; ma anche molto lontani dalla concezione della democrazia dei democratici dei nostri tempi. La concezione odierna di democrazia in fondo nasce dalla democratizzazione dello Stato liberale oligarchico dell’Ottocento, che era in sintonia con la citata prassi costituzionale inglese; un processo che si verifica soprattutto dopo la prima e la seconda guerra mondiale, con la formazione dei partiti di massa, del welfare e del potere d’interdizione, assunto nei rapporti economici, a partire dai luoghi di lavoro, da forti sindacati politicizzati.
La “democrazia” classica, giacobina e sanculotta, non era in antitesi alla dittatura, anzi, soprattutto in riferimento alla tradizione romana, le due forme politiche erano strettamente interdipendenti: incentrandosi la “democrazia” su un presunto bene comune, era naturale che, in caso di necessità, essa si affidasse ad una dittatura di salute pubblica per difendersi: non erano quindi ambizioni personali le proposte di Saint Just, affinché Robespierre assumesse la dittatura, né una completa forzatura istituzionale il passaggio dal Direttorio alla dittatura di Napoleone. Ne abbiamo una riprova nella storia del nostro Risorgimento. Secondo quanto ricostruisce lo storico inglese Mack Smith, nella sua biografia su Garibaldi, questi (emblema del patriota, del “democratico”, del rivoluzionario ecc. dell’Ottocento), dopo la proclamazione del Regno d’Italia, invita esplicitamente Vittorio Emanuele II a proclamarsi “dittatore”, onde meglio tutelare quel bene comune e nazionale, che l’Eroe dei due Mondi riteneva l’essenza della “democrazia”
E, tornando a Napoleone, va rilevato che egli era tutt’altro che uno sprovveduto, un rozzo ed efficiente soldato. Napoleone aveva anche lui una precisa base culturale classicista, che privilegiava Platone e Polibio: questo significava, nel suo pensiero politico, una visione della repubblica non come democrazia e partecipazione popolare (che potevano precipitare nel caos e nello scontro fra fazioni rivali); la repubblica era primato del bene comune nell’ordine e nella pace interna; la repubblica era ordine. Su queste basi culturali, evidentemente condivise da molti contemporanei, operò per costruire un regime autoritario, prima in forme repubblicane, poi in forme imperiali. Del resto, Roma non aveva forse stroncato le guerre civili prima con il compromesso di Ottaviano, e subito dopo con l’Impero?
Un altro problema che nasce con la Rivoluzione francese è quello di definire il concetto stesso di Rivoluzione. Come suggerisce il Dizionario critico della Rivoluzione francese di Furet-Ozout (storici decisamente antigiacobini!) alla voce “Rivoluzione”, l’idea di costruire con la violenza un nuovo ordine, distruggendo il vecchio, non esisteva sino a tutto il Settecento. Quando si parlava di “rivoluzione”, o gli si conferiva un significato astronomico (e su questo l’autore del saggio cita il comunista Mably), oppure si faceva riferimento ad una situazione di violenza e di caos, di anarchia, dalla quale non poteva nascere nulla di positivo e che si doveva evitare. In questo quadro, le rivoluzioni inglesi del Seicento e la guerra d’indipendenza americana di fine secolo erano interpretate, già prima che comparisse il saggio di Burke del 1790, come “reazioni”, cioè lotte motivate dalla violazione arbitraria, da parte della corona britannica (prima Carlo I, poi Giorgio III), di antichi diritti e privilegi, e quindi finalizzate a restaurarli. La responsabilità della violenza non spettava dunque a Cronwell, né a Whasington, ma a Carlo I e a Giorgio III; né questa violenza avrebbe creato un ordine nuovo, solo ristabilito ciò che era implicito e funzionante nella tradizione.
Ma in Francia la situazione si sviluppò subito in forme diverse; sin dal 1790 era chiaro che una violenta spallata all’ancien régime stava per far nascere nuove relazioni economico sociali, una nuova costituzione.
Proprio nel 1790, oltretutto, uscirono le Riflessioni di Burke, prontamente recensite da Rehberg in Germania; in entrambi i casi si condannavano gli eventi francesi, si faceva appello alle forze conservatrici a porvi fine. Una riflessione teorica sugli avvenimenti che ridefinisse i contorni del concetto di “rivoluzione” si imponeva come necessaria; questa riflessione impegnò protagonisti e intellettuali francesi, come di altri Paesi che si stavano imponendo come strategici, dal punto di vista dello sviluppo culturale: alludiamo alla Germania, dove il problema fu affrontato nella prima metà degli anni ’90 da Kant, da Georg Forster (che per altro si trovava direttamente impegnato nella lotta politica a Parigi e vi morì di morte naturale, prima del 9 termidoro) e soprattutto da Fichte negli scritti del 1792-1793, che costituiscono uno dei punti di partenza dell’idealismo filosofico.
Ritornando al Dizionario critico della Rivoluzione francese, ivi si afferma che il concetto di “rivoluzione” che alla fine risultò dominante nasce dalla sintesi delle idee volontaristiche giacobine e della tradizionale filosofia deterministica della storia, come necessario progresso, coltivata dagli ambienti illuministici sino a Condorcet.
Robespierre e Saint Just distinsero una legge rivoluzionaria, fondatrice di un ordine nuovo, da una legge costituzionale che si assume il compito di conservarlo. La “rivoluzione” è guerra della libertà contro i suoi nemici, che deve procedere con estrema determinazione, violenza e volontarismo sino alla vittoria. Nel contempo la storia recava in sé la necessità di giungere a questa rottura rivoluzionaria. Divenne dunque paradigmatico sino a Lenin che la rivoluzione era una necessità storica che non si poteva eludere e che, intraprendendo una rivoluzione, si gestisce, con una precisa e determinata volontà politica, una violenta lotta contro tutti coloro che si oppongono all’instaurazione di un ordine nuovo. La “rivoluzione” è violenza organizzata, giustificata dal procedere della storia, con la quale si abbatte repentinamente una società che ha esaurito ogni sua possibilità di sviluppo, per crearne una superiore. Dirà Marx, “la violenza è la grande levatrice della storia”: in questa affermazione si trova tutto! Da una lato il determinismo storico che vuole necessaria una rivoluzione, per passare da una fase all’altra della civiltà umana; dall’altro lato il volontarismo politico che spinge i rivoluzionari a cercare sempre l’occasione storica e, quando ritengono, a torto o a ragione, essa sia arrivata, ad attivarsi, a organizzarsi, a organizzare la violenza per intraprendere e portare a compimento il processo rivoluzionario.
Un concetto diverso, ma non meno coerente di “rivoluzione”, con riferimento agli eventi francesi viene elaborato da J.G. Fichte nella Rivendicazione della libertà di pensiero del 1792. Egli partiva dal presupposto che la storia fosse un necessario progresso verso la libertà dell’uomo; un processo che però poteva assumere due modalità di svolgimento: poteva attuarsi “con un processo graduale, lento ma sicuro, oppure con salti violenti… A violenti sbalzi, con gravi scuotimenti e sconvolgimenti sociali, un popolo può in mezzo secolo avanzare più di quanto avrebbe fatto in dieci secoli; ma questo mezzo secolo è anche misero e pieno di sofferenze. Le rivoluzioni violente sono sempre un colpo d’audacia per l’umanità; se riescono, la vittoria conseguita compensa pienamente il disagio da esse arrecato, se falliscono ci si precipita di miseria in miseria ancora maggiore. Più sicuro è il procedere gradualmente verso un sempre maggiore progresso dei lumi e così verso il miglioramento della costituzione politica”.
Fichte appare lacerato fra le due opzioni: se la rivoluzione ha il pregio di accelerare il processo storico, affrancandolo da ogni impedimento, ha nel contempo il difetto di scatenare forze violente incontrollate. Idealmente e moralmente sarebbe preferibile un processo più lento, graduale, ma sicuro. Alla fine Fichte riconosce però, realisticamente e politicamente, l’ineluttabilità dei “salti violenti” e della rivoluzione che accelera, pur scatenando violenza, qualora il progresso storico verso la libertà sia ostacolato da forze conservatrici: “Quando s’impedisce il progresso dello spirito umano solo questi due casi sono possibili: il primo, più inverosimile, che noi ce ne restiamo inerti dove eravamo… il secondo, molto più verosimile, quando il corso della natura che si vuole ritardare irrompe violentemente e distrugge tutto ciò che si trova sul suo cammino, ed allora l’umanità si vendica dei suoi oppressori nel modo più spietato e le rivoluzioni divengono necessarie”. Dunque se il procedere ineluttabile della storia verso la sua meta viene impedito dalla resistenza di forze conservatrici, scoppia una rivoluzione violenta, con tutti i rischi che le sono inerenti, che travolgerà qualsiasi ostacolo, sul modello di un fiume in piena cui si vuole impedire lo sbocco verso il mare.
Il quadro concettuale fichtiano, come si nota, addebita le responsabilità di “rivoluzioni” alle forze della conservazione e lascia spazio alla ricerca di sviluppi pacifici nella storia universale. Va rilevato che esso non rimase confinato nelle astrusità di molti testi e momenti della Filosofia Classica Tedesca, com’è, ad esempio, il caso delle polemiche speculative di Fichte contro Hegel e Schelling del 1807. Anzi la concezione fichtiana della rivoluzione, come necessità motivata dalla resistenza delle forze conservatrici, entra in pieno nella circolazione sanguinea interna al movimento socialista con L’idea generale della rivoluzione nel XIX secolo, del 1851, di JP Proudhon, che la ripropone negli stessi termini in cui l’aveva elaborata Fichte e in cui noi l’abbiamo sintetizzata.
Un caso di vero plagio, per altro utile storicamente, reso probabilmente possibile dalla conoscenza diretta che il socialista francese aveva avuto, negli anni precedenti, del figlio di Fichte. Forse, a questo punto, non sarà un caso che l’ultimo tentativo del PCI di sintetizzare leninismo e via democratica al socialismo fosse proprio, sino agli inizi degli anni ’70, l’idea della necessità della violenza organizzata, qualora fossero arrivati “i colonnelli”, come ad Atene nel 1967. Non sono arrivati e il PCI, come tutti i nostri “bolscevichi” e rivoluzionari da salotto, si sono facilmente adattati alla trasformazione radicale della società capitalistica, gestita abilmente, con genio malefico e mefistofelico, da Pannella, Bonino e soci!
Come si è spiegato, queste logiche politiche e comunicative si sono sviluppate a partire sì dagli eventi della Rivoluzione francese, ma non trovano certo la loro definizione completa nel suo arco cronologico. Per arrivare ad essa, che sommariamente è quella entro la quale si pongono i grandi eventi della storia del Novecento, è decisivo l’Ottocento, in modo particolare la seconda metà del secolo, successiva alle rivoluzioni del 1848-1849 dopo la Comune di Parigi e la crisi di fine secolo. In questo periodo nascono la questione operaia e il movimento socialista, di conseguenza le forze del liberalismo e del patriottismo borghese, all’opposizione e al governo, non possono continuare a dividersi semplicemente in monarchici e repubblicani, liberali e democratici. Ad esempio l’estrema destra autoritaria, in Italia, nasce con la crisi di fine secolo e con l’ex democratico ed ex garibaldino Francesco Crispi, che intende proprio domare una crisi economica e un decennio di agitazioni sociali con la forza dell’esercito e introducendo nel Paese il modello bismarkiano. Dopo il trauma rivoluzionario del 1871, analoghi movimenti politici agitano la Francia, sino a far pensare che la cruenta repressione della Comune debba sfociare in una nuova restaurazione monarchica.
Di rilievo riferire in questo contesto la tesi di Costanzo Preve, secondo la quale la sinistra rivoluzionaria che si forma a fine Ottocento, sostanzialmente dopo la Comune di Parigi, non è soltanto una sinistra proletaria e socialista, ma nasce dalla convergenza delle istanze socialiste del proletariato con le istanze estetiche e libertario individualiste di larghi settori dei ceti intellettuali di origine borghese, decadentisti, scapigliati, e poi le avanguardie artistiche del primo Novecento. Si forma dunque una sinistra rivoluzionaria che è la convergenza fra la sinistra socialista operaia, che pone il problema di trasformare su basi collettivistiche i rapporti di produzione, e una sinistra “estetica”, intellettuale, orientata a distruggere i valori familisti e religiosi della società borghese tradizionale. Ecco il ’68 in provetta, l’humus di Lotta continua, il cui operaismo era una maschera per sviluppare una lotta pannelliana, poi vincente, su divorzio, aborto, liberazione sessuale, femminismo, infine mobbing, stalkink, ecc.
Detto questo sulla lenta maturazione delle categorie politiche sorte dalla Rivoluzione francese, poniamoci un altro quesito: i contemporanei, cioè i protagonisti dei suoi eventi, dalla Costituente a Napoleone, ragionavano solo in termini di destra e sinistra, oppure queste nuove categorie convivevano con altre più tradizionali? Il Settecento non è solo il secolo in cui si affinano le basi teoriche della modernità liberalcapitalista, è anche un secolo fortemente improntato al classicismo. Le categorie del classicismo, soprattutto in Francia, vengono utilizzate in chiave molto politica, spingendo i contemporanei a leggere i classici del pensiero politico e della storiografia greco-latina (soprattutto Plutarco, Platone, Polibio). Quindi nel posizionamento, nel pensiero e nel linguaggio dei protagonisti della Rivoluzione occorre tenere presente anche questo aspetto, che riguarda soprattutto i concetti di democrazia, di dittatura e di repubblica.
La democrazia per la quale si batterono la sinistra giacobina e il Movimento popolare, contro Foglianti, Girondini, ecc., aveva poco a che fare con quanto intendono i democratici dei nostri giorni con questo termine, e non solo perché ne videro il necessario carattere sociale (A. Mathiez, in una sua prolusione del 1920 su Robespierre, mise proprio in evidenza una sua affermazione del 1792 che suonava nel modo seguente: “la democrazia o è sociale o non è!”). Il sistema democratico cui facevano riferimento era desunto dal classicismo politico di Rousseau (teniamo in conto che, come evidenziano Vovelle e Derathé, Il contratto sociale, già prima degli eventi rivoluzionari, è ampiamente letto, conosciuto e dibattuto fra gli ambienti artigiani delle città e fra i loro garzoni di bottega: la base sociale e i quadri politici del movimento sanculotto).
La democrazia era potere popolare indivisibile, esercitato dal popolo in continue assemblee pubbliche ove si doveva discutere del bene comune e definirne i contorni, secondo il modello dell’Atene di Clistene e di Pericle: il popolo doveva disporsi a cerchio nell’agorà e trovarvi “nel mezzo” l’interesse generale. Su queste basi concettuali la “democrazia” giacobina e sanculotta si dimostra ostile al principio della tutela di opinioni che riflettano interessi particolari, profondamente legata al principio della virtù come dedizione permanente al bene pubblico e allo Stato, in difficoltà a mediare fra la partecipazione diretta e il principio della deputazione (che si rendeva necessario per governare un Paese che non aveva le dimensioni di una città stato). Non a caso, su quest’ultimo punto, insorsero, fra il ’93 e il ’94, gravi contrasti fra robespierristi, da un lato, Arrabbiati e hebertisti, dall’altro lato: i primi trovarono la mediazione sulla base delle indicazioni dell’ultimo Rousseau politico, istituendo la deputazione revocabile dagli elettori (che entrò poi nel dettato costituzione del 1793, della Comune di Parigi e delle Costituzioni sovietiche sino al 1989-1991); Arrabbiati e hebertisti insistevano per incentrare la democrazia sulla mobilitazione continua, spontanea e anarcoide delle sezioni popolari.
Ci troviamo comunque agli antipodi della prassi costituzionale inglese, cui si ispirarono la Costituzione americana e la Costituzione francese del 1791: divisione dei poteri, deputazione che rappresenta gruppi d’interesse diversi, schieramenti alternativi di governo, libertà d’espressione individuali; ma anche molto lontani dalla concezione della democrazia dei democratici dei nostri tempi. La concezione odierna di democrazia in fondo nasce dalla democratizzazione dello Stato liberale oligarchico dell’Ottocento, che era in sintonia con la citata prassi costituzionale inglese; un processo che si verifica soprattutto dopo la prima e la seconda guerra mondiale, con la formazione dei partiti di massa, del welfare e del potere d’interdizione, assunto nei rapporti economici, a partire dai luoghi di lavoro, da forti sindacati politicizzati.
La “democrazia” classica, giacobina e sanculotta, non era in antitesi alla dittatura, anzi, soprattutto in riferimento alla tradizione romana, le due forme politiche erano strettamente interdipendenti: incentrandosi la “democrazia” su un presunto bene comune, era naturale che, in caso di necessità, essa si affidasse ad una dittatura di salute pubblica per difendersi: non erano quindi ambizioni personali le proposte di Saint Just, affinché Robespierre assumesse la dittatura, né una completa forzatura istituzionale il passaggio dal Direttorio alla dittatura di Napoleone. Ne abbiamo una riprova nella storia del nostro Risorgimento. Secondo quanto ricostruisce lo storico inglese Mack Smith, nella sua biografia su Garibaldi, questi (emblema del patriota, del “democratico”, del rivoluzionario ecc. dell’Ottocento), dopo la proclamazione del Regno d’Italia, invita esplicitamente Vittorio Emanuele II a proclamarsi “dittatore”, onde meglio tutelare quel bene comune e nazionale, che l’Eroe dei due Mondi riteneva l’essenza della “democrazia”
E, tornando a Napoleone, va rilevato che egli era tutt’altro che uno sprovveduto, un rozzo ed efficiente soldato. Napoleone aveva anche lui una precisa base culturale classicista, che privilegiava Platone e Polibio: questo significava, nel suo pensiero politico, una visione della repubblica non come democrazia e partecipazione popolare (che potevano precipitare nel caos e nello scontro fra fazioni rivali); la repubblica era primato del bene comune nell’ordine e nella pace interna; la repubblica era ordine. Su queste basi culturali, evidentemente condivise da molti contemporanei, operò per costruire un regime autoritario, prima in forme repubblicane, poi in forme imperiali. Del resto, Roma non aveva forse stroncato le guerre civili prima con il compromesso di Ottaviano, e subito dopo con l’Impero?
Un altro problema che nasce con la Rivoluzione francese è quello di definire il concetto stesso di Rivoluzione. Come suggerisce il Dizionario critico della Rivoluzione francese di Furet-Ozout (storici decisamente antigiacobini!) alla voce “Rivoluzione”, l’idea di costruire con la violenza un nuovo ordine, distruggendo il vecchio, non esisteva sino a tutto il Settecento. Quando si parlava di “rivoluzione”, o gli si conferiva un significato astronomico (e su questo l’autore del saggio cita il comunista Mably), oppure si faceva riferimento ad una situazione di violenza e di caos, di anarchia, dalla quale non poteva nascere nulla di positivo e che si doveva evitare. In questo quadro, le rivoluzioni inglesi del Seicento e la guerra d’indipendenza americana di fine secolo erano interpretate, già prima che comparisse il saggio di Burke del 1790, come “reazioni”, cioè lotte motivate dalla violazione arbitraria, da parte della corona britannica (prima Carlo I, poi Giorgio III), di antichi diritti e privilegi, e quindi finalizzate a restaurarli. La responsabilità della violenza non spettava dunque a Cronwell, né a Whasington, ma a Carlo I e a Giorgio III; né questa violenza avrebbe creato un ordine nuovo, solo ristabilito ciò che era implicito e funzionante nella tradizione.
Ma in Francia la situazione si sviluppò subito in forme diverse; sin dal 1790 era chiaro che una violenta spallata all’ancien régime stava per far nascere nuove relazioni economico sociali, una nuova costituzione.
Proprio nel 1790, oltretutto, uscirono le Riflessioni di Burke, prontamente recensite da Rehberg in Germania; in entrambi i casi si condannavano gli eventi francesi, si faceva appello alle forze conservatrici a porvi fine. Una riflessione teorica sugli avvenimenti che ridefinisse i contorni del concetto di “rivoluzione” si imponeva come necessaria; questa riflessione impegnò protagonisti e intellettuali francesi, come di altri Paesi che si stavano imponendo come strategici, dal punto di vista dello sviluppo culturale: alludiamo alla Germania, dove il problema fu affrontato nella prima metà degli anni ’90 da Kant, da Georg Forster (che per altro si trovava direttamente impegnato nella lotta politica a Parigi e vi morì di morte naturale, prima del 9 termidoro) e soprattutto da Fichte negli scritti del 1792-1793, che costituiscono uno dei punti di partenza dell’idealismo filosofico.
Ritornando al Dizionario critico della Rivoluzione francese, ivi si afferma che il concetto di “rivoluzione” che alla fine risultò dominante nasce dalla sintesi delle idee volontaristiche giacobine e della tradizionale filosofia deterministica della storia, come necessario progresso, coltivata dagli ambienti illuministici sino a Condorcet.
Robespierre e Saint Just distinsero una legge rivoluzionaria, fondatrice di un ordine nuovo, da una legge costituzionale che si assume il compito di conservarlo. La “rivoluzione” è guerra della libertà contro i suoi nemici, che deve procedere con estrema determinazione, violenza e volontarismo sino alla vittoria. Nel contempo la storia recava in sé la necessità di giungere a questa rottura rivoluzionaria. Divenne dunque paradigmatico sino a Lenin che la rivoluzione era una necessità storica che non si poteva eludere e che, intraprendendo una rivoluzione, si gestisce, con una precisa e determinata volontà politica, una violenta lotta contro tutti coloro che si oppongono all’instaurazione di un ordine nuovo. La “rivoluzione” è violenza organizzata, giustificata dal procedere della storia, con la quale si abbatte repentinamente una società che ha esaurito ogni sua possibilità di sviluppo, per crearne una superiore. Dirà Marx, “la violenza è la grande levatrice della storia”: in questa affermazione si trova tutto! Da una lato il determinismo storico che vuole necessaria una rivoluzione, per passare da una fase all’altra della civiltà umana; dall’altro lato il volontarismo politico che spinge i rivoluzionari a cercare sempre l’occasione storica e, quando ritengono, a torto o a ragione, essa sia arrivata, ad attivarsi, a organizzarsi, a organizzare la violenza per intraprendere e portare a compimento il processo rivoluzionario.
Un concetto diverso, ma non meno coerente di “rivoluzione”, con riferimento agli eventi francesi viene elaborato da J.G. Fichte nella Rivendicazione della libertà di pensiero del 1792. Egli partiva dal presupposto che la storia fosse un necessario progresso verso la libertà dell’uomo; un processo che però poteva assumere due modalità di svolgimento: poteva attuarsi “con un processo graduale, lento ma sicuro, oppure con salti violenti… A violenti sbalzi, con gravi scuotimenti e sconvolgimenti sociali, un popolo può in mezzo secolo avanzare più di quanto avrebbe fatto in dieci secoli; ma questo mezzo secolo è anche misero e pieno di sofferenze. Le rivoluzioni violente sono sempre un colpo d’audacia per l’umanità; se riescono, la vittoria conseguita compensa pienamente il disagio da esse arrecato, se falliscono ci si precipita di miseria in miseria ancora maggiore. Più sicuro è il procedere gradualmente verso un sempre maggiore progresso dei lumi e così verso il miglioramento della costituzione politica”.
Fichte appare lacerato fra le due opzioni: se la rivoluzione ha il pregio di accelerare il processo storico, affrancandolo da ogni impedimento, ha nel contempo il difetto di scatenare forze violente incontrollate. Idealmente e moralmente sarebbe preferibile un processo più lento, graduale, ma sicuro. Alla fine Fichte riconosce però, realisticamente e politicamente, l’ineluttabilità dei “salti violenti” e della rivoluzione che accelera, pur scatenando violenza, qualora il progresso storico verso la libertà sia ostacolato da forze conservatrici: “Quando s’impedisce il progresso dello spirito umano solo questi due casi sono possibili: il primo, più inverosimile, che noi ce ne restiamo inerti dove eravamo… il secondo, molto più verosimile, quando il corso della natura che si vuole ritardare irrompe violentemente e distrugge tutto ciò che si trova sul suo cammino, ed allora l’umanità si vendica dei suoi oppressori nel modo più spietato e le rivoluzioni divengono necessarie”. Dunque se il procedere ineluttabile della storia verso la sua meta viene impedito dalla resistenza di forze conservatrici, scoppia una rivoluzione violenta, con tutti i rischi che le sono inerenti, che travolgerà qualsiasi ostacolo, sul modello di un fiume in piena cui si vuole impedire lo sbocco verso il mare.
Il quadro concettuale fichtiano, come si nota, addebita le responsabilità di “rivoluzioni” alle forze della conservazione e lascia spazio alla ricerca di sviluppi pacifici nella storia universale. Va rilevato che esso non rimase confinato nelle astrusità di molti testi e momenti della Filosofia Classica Tedesca, com’è, ad esempio, il caso delle polemiche speculative di Fichte contro Hegel e Schelling del 1807. Anzi la concezione fichtiana della rivoluzione, come necessità motivata dalla resistenza delle forze conservatrici, entra in pieno nella circolazione sanguinea interna al movimento socialista con L’idea generale della rivoluzione nel XIX secolo, del 1851, di JP Proudhon, che la ripropone negli stessi termini in cui l’aveva elaborata Fichte e in cui noi l’abbiamo sintetizzata.
Un caso di vero plagio, per altro utile storicamente, reso probabilmente possibile dalla conoscenza diretta che il socialista francese aveva avuto, negli anni precedenti, del figlio di Fichte. Forse, a questo punto, non sarà un caso che l’ultimo tentativo del PCI di sintetizzare leninismo e via democratica al socialismo fosse proprio, sino agli inizi degli anni ’70, l’idea della necessità della violenza organizzata, qualora fossero arrivati “i colonnelli”, come ad Atene nel 1967. Non sono arrivati e il PCI, come tutti i nostri “bolscevichi” e rivoluzionari da salotto, si sono facilmente adattati alla trasformazione radicale della società capitalistica, gestita abilmente, con genio malefico e mefistofelico, da Pannella, Bonino e soci!
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