Maurizio
Blondet 26 Giugno 2012
Dopo lo F-4 SuperPhantom abbattuto dalla contraerea siriana il 22
giugno, un altro aereo turco (di soccorso) è stato preso di mira: così dice il
governo di Ankara, con l’aggiunta: l’azione «non resterà impunita». La
situazione si arroventa di nuovo, dopoche sembrava essersi placata. Con strani
ondeggiamenti da parte del governo Erdogan. Da una parte, la proclamata
decisione di invocare gli articoli della NATO che obbligano i membri
dell’alleanza a entrare in guerra accanto all’alleato colpito; dall’altra
qualche ammissione che sì, l’aereo abbattuto era entrato nella spazio aereo
siriano, però «per sbaglio», e «solo per cinque minuti».
Con
curiosa insistenza si ripete che l’F-4 era un aereo da ricognizione. Invece è un
caccia-bombardiere supersonico, vecchio sì, ma rammodernato nell’avionica dagli
israeliani.
Ciò che
non si dice, e che non troverete sui nostri media, è che l’aereo turco stava
partecipando ad una delle più grandi manovre militari congiunte tenute dagli
americani e dai suoi alleati musulmani nell’area, Arabia Saudita e Turchia,
Giordania e persino Pakistan, francesi, italiani, eccetera. Si parla di 12 mila
uomini di 19 Paesi, navi e aerei tutti a ridossso della Siria . La colossale
esercitazione si chiama qualcosa come «Leone all’Erta», ma ha un nome arabo,
«El-Assad
el-Mutaahib», tanto per mandare un messaggio al dittatore di
Damasco, che si chiama Bashar Al-Assad. La parte che riguarda i turchi si chiama
Anatolian Eagle
2012/2 (una Anatolian Eagle
2012/1 è già avvenuta a marzo: queste manovre si susseguono senza
sosta) e, come si legge nel comunicato ufficiale del Pentagono, il suo scopo è
il seguente:
«Condurre tutta una serie di
missioni aeree comprese l’interdizione (sottinteso di sorvolo, ossia
la «no fly zone»),
l’attacco, la superiorità aerea, la soppressione della difesa aerea, il ponte
aereo, il rifornimento in volo, la ricognizione» . Un programma
completo di invasione – naturalmente umanitaria.
Ecco, il
F-4 turco ben fornito di elettronica rasentava lo spazio aereo siriano «in
ricognizione».
Interessante anche il comunicato della US Air Force, che non
troverete sul Corriere della Sera, e che spiega il gioco di guerra: «La Forza Blu, che comprendono
gli Usa, l’Italia, gli Emirati, la Spagna, la Turchia e la NATO, perfezioneranno
le capacità delle loro forze allargate contro la Forza Rossa di F-16, F-4 e F-5
guidati da piloti turchi». (L’Avion Turc Abattu En Syrie Ses Deux Pilotes
UneTentative Avortée De Pénétrer La Défense Aérienne
Syrienne)
Farà
piacere ai patrioti sapere che anche le nostre forze aeree partecipano a questo
programma di intimidazione; e che siamo i «Blu», il che nelle manovre militari è
il colore dei Buoni.
«Una
provocazione capace di scatenare una guerra», così su RiaNovosti ha detto Leonid
Ivashov, il noto presidente dell’Accademia dei problemi geopolitici a Mosca:
«Hanno
utilizzato la stessa tattica in Libia e in Yugoslavia (...) Se
il governo turco non cede alle pressioni americane, questo incidente sarà
risolto per via pacifica. Ma se approfittano di questa provocazione per
scavalcare le forze di sicurezza dell’Onu ed attaccare, la guerra sarà
inevitabile».
Che non si
tratti di una valutazione privata di Ivashov (generale dell’epoca sovietica,
nello Stato Maggiore), lo ha confermato il ministro della Difesa russo Sergei
Lavrov: «Una
replica dello scenario libico in Siria non sarà ammesso, e noi (i
russi) lo possiamo
garantire». E non ha mostrato alcuna simpatia quando, dopo
l’abbattimento, il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu gli ha telefonato
a Mosca. Se sperava che da Mosca venisse una censura a Damasco, è rimasto a
bocca asciutta.
Tanto più
che – come ha subito precisato il sito israeliano DEBKA Files – a centrare il
SuperPhantom turco è stato uno dei nuovi sistemi di contraerea fornito dai russi
anche per difendere la loro base navale di Tartus (l’abbattimento è avvenuto
sopra Latakia, che sta a 90 chilometri dalla base russa). (Newly-supplied Russian Pantsyr-1 anti-air missile
used to down Turkish warplane)
Si tratta
«dei missili Pantsyr-1, autopropellenti e a medio raggio», ha scritto DEBKA,
«un’arma capace di tirar giù un aereo che voli a quota superiore a 12
chilometri, come un missile da crociera. L’unità responsabile dell’agguato (sic)
è la 73ma brigata della 26ma Divisione Anti-Aerea dell’esercito siriano...». E
poi il sito ebraico aggiunge: «siccome questo sofisticato armamento è stato
consegnato al regime di Assad solo da poche settimane, si deve ritenere che
l’equipaggio locale non abbia finito l’addestramento e sia ricorso
all’assistenza degli istruttori russi per spararlo (...) ultimamente, aviogetti
militari turchi compiono missioni quasi quotidiane lungo la costa siriana.
Apparentemente,
Mosca e Damasco hanno deciso che era tempo di finirla con queste missioni, che
fra l’altro spiavano i rifornimenti di armi russe transitanti dalle basi russe
di Tarus e Latakia».
Giudiziosa
deduzione.
È da mesi
– da quando Vladimir Putin è stato rieletto alla presidenza – che Washington (e
i suoi servitorelli) tratta il governo russo come se non ne riconoscesse la
legittimità, anzi se nemmeno esistesse. La Cia ammette pubblicamente di armare i
cosiddetti ribelli in Siria. Hillary Clinton accusa il Cremlino di inviare ad
Assad elicotteri da combattimento «per stroncare la rivolta» (mentre in realtà
sono consegne di un vecchio contratto). I legittimi interessi della Russia in
Siria non vengono riconosciuti. All’interno stesso della Russia, l’ambasciatore
americano McFaul (un esperto in rivoluzioni colorate) coltiva ostentati rapporti
con la variegata «opposizione» anti-Putin, la quale viene in molti casi
finanziata da fondazioni americane collegate ai due partiti, repubblicano e
democratico. Da ultimo Londra, obbedendo con zelo alla richiesta americana, ha
cancellato l’assicurazione di una nave russa partita dal porto baltico di
Kaliningrad sospettata di portare armamenti in Siria.
Una serie
di umiliazioni deliberate, inflitte perchè a Washington si calcola che Mosca,
potenza in declino, non possa nè voglia rischiare una guerra guerreggiata con
l’immane superpotenza.
Eppure il
calcolo s’è mostrato ripetutamente sbagliato.
Nel 2008,
quando Usa e Israele armarono la Georgia fino ai denti, addestrandone le truppe,
e spingendola a riprendersi manu militari le
due provincie russofone di Abkazia e Sud-Ossetia, sicuri che Mosca avrebbe
subito con la coda fra le gambe; e Mosca invece accettò la sfida con mano
pesante, con mezzi aeronavali e di terra imponenti, non limitandosi e difendere
le due enclaves ma passando all’offensiva nella Georgia stessa con l’occupazione
della città di Gori, e praticamente schiacciando l’esercito georgiano coi
suoi «istruttori» israeliani (anche allora l’attaco era stato preceduto da una
grande manovra militare americo-israeliana in Georgia, chiamata Caucasian
Milestone: ciò aveva messo sull’avviso i russi, che per questo avevano già
posizionato notevoli forze a ridosso della zona).
Un’altra
lezione dimenticata fu l’audace colpo di mano russo in piena guerra del Kossovo,
mentre la NATO bombardava Belgrado ed entrava con le sue truppe nel Kossovo. Era
il giugno 1999, e la vittoria occidentale sembrava completa, quando 200
commandos russi (originariamente stanziati in Bosnia-Erzegovina come Caschi Blu)
operarono una penetrazione-lampo ed occuparono di sorpresa l’aeroporto di
Pristina (la capitale kossovara), impedendo di fatto l’atterraggio degli aerei
logistici americani e occidentali.
Il vostro
sottoscritto giornalista era lì, e si ricorda ancora l’aria strafottente, da
veterani, dei soldati russi a cavalcioni sui loro vecchi cingolati, e fu
impressionato della loro – come definirla? – attitudine bellica: sapevano quel
che facevano, quel che rischiavano, ed erano pronti ad andare fino in fondo, se
ne ricevevano l’ordine. Di fatto, erano circondati dalle forze Nato,
assolutamente preponderanti. Ma i nostri soldati, al confronto, sembravano
soldatini di piombo: belli, con le loro mimetiche ed automezzi nuovi fiammanti e
mai usati, prontissimi ad una grande esercitazione militare; ma quelli a
cavalcioni sui vecchi cannoni, non stavano facendo un’esercitazione. Facevano la
guerra.
Sappiamo
adesso che il comandante supremo americano della Nato, Wesley Clark, fuori di sè
(una carriera rovinata...), ordinò di riconquistare l’aeroporto con la forza –
ingiungendo l’attacco a 500 teste di cuoio britanniche e francesi; ma allora
furono gli inglesi a disobbedire all’ordine, e il generale britannico Mike
Jackson disse a Clark: «Non ho intenzione di
cominciare la terza guerra mondiale per voi».
Anche
quella volta la Russia reagiva ad una umiliazione deliberata: aveva chiesto di
partecipare alla operazione di peacekeeping (successiva alla sconfitta serba) in
un suo settore indipendente dalla Nato – a garanzia del regime di Belgrado – e
ricevuto un oltraggioso rifiuto – dopotutto, la Russia era economicamente un
paese in rovina, debole e costretto alla passività, secondo le valutazioni Usa.
Invece, col colpo di mano di Pristina, Mosca rovesciò la situazione ed inflisse
una umiliazione vergognosa a chi voleva umiliarla.
Temo che
gli americani non capiranno mai queste genere di lezioni, per via
dell’ineliminabile «angolo cieco»
insito nel loro iper-militarismo. Dall’episodio di Pristina, è parso evidente a
chi scrive che nelle accademie di Russia le sorprese temerarie, le astuzie
audaci, gli stratagemmi sostenuti dal coraggio estremo sono imparati come
parte integrante
del mestiere delle armi, e vi si apprende «l’arte della
guerra» secondo Lao Tsu e secondo Clausewitz, ossia senza mai
dimenticare che la guerra deve giungere ad un risultato politico. Insomma
tutto ciò di cui manca la dottrina militare americana, e che cerca di sostituire
con la forza schiacciante e la superiorità assoluta, la tecnologia avanzata e
costosissima, e – da ultimo – la forza bellica non come strumento, bensì come
surrogato
unico della politica.
L’abbattimento dell’F-4 turco da parte dei siriani (o meglio, dei
loro istruttori russi) ha dimostrato che Mosca ha piazzato in Siria un sistema
anti-aereo dall’archiettura a maglie mobili, dunque
non facilmente localizzabili (ciò ha sorpreso gli occidentali) – e capace di
sfidare la loro pretesa supremazia aerea. Ha mostrato che non occorre una forza
assoluta per strappare un successo politico. Ha
intaccato la presunzione su cui si basa tutta l’aggressività americana nei
numerosi teatri in cui opera, di possedere la assoluta dominance del
cielo, e certo ha fatto tremare qualche alto burocrate in divisa al Pentagono
che pensa alla carriera: «far paura», dopotutto, non è il cuore dell’arte della
guerra?
Inoltre,
per dirla con Bhadrakumar (che è stato ambasciatore indiano ad Ankara ed oggi è
un acutissimo analista), «ha mandato una serie di segnali alla Turchia e ai suoi
alleati occidentali»:
«Che il
sistema di difesa anti-aerea siriano è efficace e letale», e può infliggere
gravi perdite ad una no-fly zone sul
modello di quella attuata in Libia;
«Che la
Turchia pagherà un prezzo se intensifica la sua interferenza in Siria; che la
superiorità turca ha dei limiti, e che la crisi siriana può far esplodere una
crisi bellica regionale». (Syria puts double whammy on
Turkey)
Ovviamente
questo è il rischio: che il gioco combinato dell’astuzia audace contro la
presunzione di superiorità totale occidentale finisca per scatenare anche senza
volerlo la «terza guerra mondiale» paventata dal generale britannico che si
rifiutò di attaccare i russi a Pristina. Del resto, il sistema di comando
occidentale, in questa fase di crisi profondissima dell’impero americano, non è
affatto unitario: e se certo Obama non vuole una nuova guerra mentre affronta le
elezioni presidenziali, e persino Israele è prudente sulla questione siriana,
non mancano forze (Da Wall Street alla lobby petrolifera) a cui invece una crisi
«regionale» pare utile – se non altro perchè il prezzo del petrolio cala e,
siccome la quotazione del dollaro è agganciata al greggio, è necessario
rincararlo. C’è da tremare quando si comprende che ad Obama, queste forze non
obbediscono e puntano sul suo successore, un qualunque guerrafondaio
repubblicano che prosegua le politiche neocon. È ancor più agghiacciante
constatare che gli uni e gli altri poteri americanisti sono mossi da motivazioni
futili, senza visione.
Le reti
dedicate alla «demolizione soft» della Russsia di Putin sono pienamente
all’opera, continuano a mestare per il «regime change» a Mosca, e sono fra
quelle che non obbediscono ad Obama (ma chi gli obbedisce, dopotutto, in
America?). La loro psicologia è ben illustrata da un articolo di tale Pavel
Felgenhauer, un pubblicista russo molto (troppo) esperto di cose militari che
ora è passato nella Jamestown Foundation (un think tank americanista molto
ostile a Putin) ed ospitato in Asia Times: Internal crisis shapes Putin's foreign
policy
In breve,
Felgenhauer punta il dito sulla situazione sociale interna alla Russia, che
ritiene gravissima ed esplosiva; cita a sostegno della sua tesi un Center for
Strategic Studies (CSS) basato a Mosca – creazione di Mikhail Dimitriev, un
economista ed ex parlamentare russo oggi anti-Putin, il quale è stato uno dei
capi del Carnegie Center di Mosca – un’emanazione della Fondazione Carnegie
americana: praticamente, uno dei centri della sovversione anti-russa cita un
altro dei suoi centri, e per concludere quanto segue:
Vladimir
Putin sta «cercando
di compensare i suoi fallimenti politici interni con una politica estera
populista» e aggressiva, rendendo la suddetta politica estera
«meno realistica e
sempre più dottrinaria», anzi «erratica e
irrazionale». Senti chi parla, verrebbe da dire. Ma non
basta.
«Invece di
perseguire pragmaticamente gli interessi nazionali russi di lungo termine,»,
scrive Felgenhauer, «il Cremlino di Putin tende a sfidare cocciutamente gli
Stati Uniti praticamente su ogni questione regionale o globale, sapendo che il
pubblico russo approverà. Il Cremlino cerca di raffigurare il movimento
pro-democrazia in Russia come una trama occidentale (americana) e parte di un
complotto globale anti-Russia (...) È possibile che lo stesso Putin creda a
questa narrativa».
È
un’accusa comica, dato che è Washington a sfidare cocciutamente il cremlino, e
visti comprovati finanziamenti che i «movimenti pro-democracy» ricevono dalle
fondazioni Usa. Ancor più comica se si riflette alle «narrative» che le centrali
americane, israeliane e neocon hanno fatto digerire all’Occidente: l’11
Settembre come mega-attentato compiuto a New York e Washington da 17 sauditi
guidati da un Bin Laden rifugiato in una caverna in Afghanistan, le famose «armi
di distruzione di massa» di Saddam Hussein, il pericolo per la sicurezza
nazionale rappresentato da «Al Qaeda in Africa», l’attentato «islamico» nel
metrò di Londra nel 2005 di cui il Mossad sapeva tutto prima, il rischio mortale
che la fantomatica atomica iraniana fa’ correre al mondo intero... e via
paranoicamente inventando, per giustificare sovversioni, guerre preventive,
assassinii mirati illegali ed invasioni continue da dodici
anni.
Ma c’è
poco da ridere, perchè l’articolo di Felgenhauer mostra che, negli ambienti da
cui è pagato, la diagnosi è sempre quella che gli americani hanno visto smentire
tante volte: non solo Putin è un illuso irrazionale (come Ahmadinejad?), e la
sua autorità è transitoria, perchè minata dalla vittoriosa opposizione interna;
non solo gli occidentali gli possono dare con degnazione dei consigli sugli
«interessi nazionali» russi da perseguire; la Russia non conta nulla, il suo
arsenale è un vecchiume, la si può mortificare e non riconoscere
impunemente.
È questo
angolo cieco invincibile ad essere sommamente pericoloso. Magari, il petrolio
rincarerà secondo gli auspici. Se ci sarà un dopo.
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