Mariolina
Spadaro, calabrese, è
ricercatrice presso l’Università Federico II di Napoli ed è autrice di numerosi
saggi sulla storia del Regno delle Due Sicilie, a partire dall’epoca spagnola.
Il testo raccolto in questo fascicolo è stato presentato al convegno Quando il Sud era libero e forte,
nell’ambito della Festa Onomastica di S. M. Ferdinando II, organizzata dal Giglio
a Gaeta, il 25-26 maggio 2002.
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uando, alcuni decenni fa, si
consumò, ai danni dei calabresi, la beffa che riuscì per qualche tempo a far
credere come cosa fatta la realizzazione del 5° centro siderurgico,
nessuno o quasi ricordava che la siderurgia aveva avuto precedenti illustri
nella regione e non rappresentava affatto la “novità” che si voleva
prospettare.
Naturalmente, del centro
siderurgico non se ne fece nulla, ma neppure si approfittò dell’occasione per
recuperare almeno la memoria storica delle ferriere che a tante generazioni di
calabresi avevano dato lavoro. Sembrò, anzi, che il progetto si insabbiasse
ancora più rapidamente quando alcuni studiosi, incaricati di tracciare un
quadro di fattibilità ed “impatto ambientale” dell’idea, si trovarono tra le
mani una mole di documenti che richiamavano il passato industriale della
regione e tentarono, perciò, di approfondire la conoscenza di quella vicenda e,
soprattutto, le ragioni per le quali, da un certo momento e di punto in bianco
quel passato era stato sepolto e non se ne era saputo più nulla. È, comunque,
grazie al loro contributo che sono stati individuati alcuni fondi documentari
presso l’Archivio di stato di Catanzaro, interamente dedicati alla vicenda
delle ferriere calabresi nella fase di passaggio dal periodo borbonico al nuovo
stato unitario.
Le ferriere sorgevano
nell’area del territorio calabrese che è oggi la più emarginata e depressa:
comuni come Nardodipace - che detiene il triste primato di comune più povero
d’Italia; Mongiana - pressoché spopolata dall’emigrazione; più in generale tutta l’area dell’entroterra vibonese e la zona
posta a confine tra le province di Catanzaro e Reggio Calabria (altopiano delle
serre) è oggi nota soprattutto per essere, in una delle regioni più povere d’Italia,
l’area certamente più sottosviluppata.
Eppure, Mongiana, Stilo,
Ferdinandea costituivano il “triangolo industriale” della penisola italiana,
prima che l’unificazione del Paese spostasse tale baricentro verso le città del
Nord.
Parlare di “polo siderurgico” in Calabria può forse
apparire presuntuoso e persino irriverente, oltre che irreale, tanto più se si
considera la parte di territorio presa in considerazione che è oggi tra le più
povere ed emarginate della penisola italiana.
Eppure,
non è stato sempre così ed i documenti, fortunatamente sopravvissuti al
tentativo, perseguito pervicacemente, di cancellare ogni traccia di memoria
storica, ce ne danno vivida testimonianza.
Un avviso
del 25 giugno 1874 (ultima “voce” delle Ferriere calabresi) conservato tra i
documenti dell’Archivio di Catanzaro, annunciava la vendita all’asta dello
Stabilimento di Mongiana con i beni pertinenziali, in unico lotto, col sistema
del pubblico incanto ed aggiudicazione al maggiore offerente. Il prezzo base dell’asta
era quello di Lire 524.667, 21 centesimi e le offerte in aumento non potevano
essere inferiori a Lire 500.[1]
Il “lotto” comprendeva circa quaranta alloggi,
nonché caserme e quartieri di truppa, officine, fabbriche, forni di prima e di
seconda fusione, boschi e segherie, terreni e miniere: tutti disseminati in un
territorio vastissimo, compreso tra Mongiana, Pazzano e Ferdinandea[2].
Alcuni
secoli prima, un altro documento, datato 1094 e conservato nella biblioteca
della Certosa di Serra San Bruno, attestava la concessione fatta a San Brunone
di Colonia, fondatore dell’Ordine dei Certosini, dal Conte di Calabria Ruggero
il Normanno, relativa ai proventi delle miniere di ferro e dei forni fusori
esistenti nel circondario.
In mezzo,
tra i due documenti che parlano di ferro e di ferriere nella zona delle Serre
calabre novecento anni di storia[3].
Essi
furono improvvisamente cancellati, anche dalla memoria dei calabresi, quel 25
giugno 1874, giorno in cui si diede via libera all’acquisto da parte di privati
di quello che fu il più importante nucleo industriale del Regno delle Due
Sicilie, con circa 1.500 unità lavorative.
Novecento
anni, durante i quali l’estrazione del ferro
calabrese e la sua lavorazione attraversarono alterne vicende, ma non
cessarono mai di essere attive.
Procedendo per saltum, per
arrivare ai tempi più recenti, é solo a
metà del ‘700, con Carlo III di Borbone, che si avvia un deciso processo di
ristrutturazione ed ammodernamento delle Ferriere calabresi, che saranno al
centro dell’attenzione della politica carolina: le esigenze di potenziamento
dell’esercito daranno particolare impulso alla produzione della ghisa e dei
manufatti in ferro per l’industria statale militare, che le Ferriere sono in
grado di fornire.
Carlo III manda in Calabria i migliori mineralogisti sassoni ed
ungheresi per l’aggiornamento delle maestranze locali e l’ammodernamento dei
processi di produzione. Ma sarà specialmente Ferdinando IV ad attuare con
determinazione il programma paterno. La riorganizzazione delle ferriere
calabresi è ritenuto compito urgente ed inderogabile del governo: la produzione
delle ghise ed i sistemi di fusione nel
regno sono basati ancora sul cd. “metodo catalano” che comporta forti sprechi
di carbone vegetale; il disboscamento intensivo costringe a spostare
continuamente le ferriere (cd. ferriere itineranti), con grave disagio (man
mano che i boschi sono distrutti, le strutture vengono trasferite verso le zone
alberate) e pericoli di dissesto
idrogeologico, che già all’epoca non viene affatto sottovalutato.
Nell’intento di evitare danni al territorio, il sovrano emana nel 1773
un decreto “salvaboschi” con il quale, nel disporre il trasferimento delle
vecchie ferriere di Stilo verso la valle dell’ Allaro, decreterà la nascita
delle nuove Ferriere di Mongiana, a
carattere stabile e collegate a quelle di Stilo secondo un progetto di
continuità di ciclo produttivo (oggi diremmo di “filiera”): a Stilo si attua la
fase di prima fusione, a Mongiana il processo di affinazione ed elaborazione
dei manufatti.
Dopo un
periodo di stasi, è sotto il regno di Ferdinando II che si realizza pienamente un efficiente
modernizzazione degli stabilimenti.
La
stabilità politica e monetaria, il riassetto delle strutture statali, lo
sviluppo dei commerci determineranno, oltre
ad un miglioramento delle condizioni generali di vita nel Regno, un
decisivo slancio del settore siderurgico
e metalmeccanico.
A suo modo
determinante sarà la polemica che investe, sulla carta stampata, una delle
maggiori industrie private del Regno nel settore siderurgico, la “Zino & Henry”.
In pochi anni
essa amplia talmente la sua produzione da diventare industria di
importanza nazionale, ma si viene a
trovare al centro di una bufera politica. Nel 1834 il Giornale di Commercio
pubblica un violento attacco contro i due soci, colpevoli di privilegiare la
ghisa inglese anziché servirsi di quella nazionale: l’articolo,
firmato da Giuseppe Del Re e lo strascico delle polemiche hanno il merito di mettere
il dito sulla piaga e riportano
l’attenzione su Mongiana. I due soci si
difendono, sostenendo che la ghisa ed il ferro inglesi risultano di qualità
migliore e di costo inferiore. Il governo segue la polemica e decide di
affrontare e risolvere, una volta per tutte, i problemi legati alla siderurgia
statale: ciò che rende più gravosi i costi della produzione interna é il
trasporto, a causa della scarsa rete di collegamenti viari. Immediatamente
viene decisa, perciò, l’apertura della strada tra Mongiana ed il mare e,
contemporaneamente, si accelerano i tempi di realizzazione del primo tronco
ferroviario italiano. Nel 1837 viene varato il progetto di collegamento
Mongiana-Pizzo; nel 1839 è inaugurata la Napoli-Portici. Intanto
nell’anno successivo si impianta il primo nucleo delle Officine di Pietrarsa,
che naturalmente daranno un impulso notevolissimo alle ferriere calabresi.
Nel 1833
Ferdinando II visita le Ferriere calabresi (vi tornerà anche nel 1852) ed
inaugura, in tale occasione la
“Ferdinandea”, il terzo punto strategico, dopo Stilo e
Mongiana, del complesso siderurgico calabrese, “un interessante connubio tra casino di caccia e ferriera, cittadella in
cui vivono in simbiosi altiforni, caserme, stalle, chiesa ed appartamenti
reali”.
La Ferdinandea, in realtà, prima ancora
che un luogo di villeggiatura – secondo l’immagine stereotipata trasmessaci da
una storiografia incline a mettere in evidenza piuttosto l’aspetto
“ludico” che quello utilitaristico a
fini pubblici, in certe “architetture” statali come Caserta, San Leucio,
Ferdinandea - è innanzitutto uno
stabilimento di prima fusione che fa da supporto alla Mongiana, distante una
decina di km. Nella fabbrica, predisposta per più forni e forge, si erige un
solo altoforno, il Sant’Antonio, di
undici metri di altezza e tre di diametro. La fonderia ha un impianto
razionale: la fasi lavorative sono distribuite a vari livelli; è inoltre
suscettibile di ampliamento (nel 1860, quando ne sarà decretata la chiusura
stava per essere ultimata la costruzione di un secondo forno cilindrico). La
prima campagna fusiva è del 1833-34, dura cinque mesi e produce 5.000 cantaia
all’anno.
La
qualità del ferro impiegato nella fabbricazione delle armi ha davvero pochi
rivali, ma resta, invece, ancora scarsa l’efficienza della rete di
distribuzione. Nel 1839 la Giunta dei
Generali ottiene dal Filangieri, Ministro della Guerra, uno stanziamento di
60.000 ducati da investire nella costruzione di strade, nuove ferriere di
dolcificazione, sviluppo ed ammodernamento delle miniere. Nello stesso tempo,
vengono inviati in Francia dei tecnici
come “agenti segreti” per carpire i segreti
dei sistemi in uso all’estero.
Le
informazioni ricavate sono interessanti, ma non lasciano del tutto soddisfatto
il tenente colonnello Niola, che nel 1839 dirige a Mongiana il lavoro di
ben 742 operai: egli stesso, perciò, “perfeziona” i suggerimenti avuti e riesce
ad avere un prodotto soddisfacente. Si scopre anche, grazie alle osservazioni
fatte in Francia, che il fattore determinante della purezza del ferro
mongianese è il carbone di faggio, esente da residui inquinanti. Possedere
vaste estensioni di boschi di faggio è, per ora, il grosso vantaggio della
ferriera calabrese.
La
produzione migliora notevolmente: Ferdinandea e Mongiana producono una quantità
di ghisa calcolabile in 18.000 cantaia annue, di cui una metà viene lavorata
nelle ferriere sparse lungo la valle dell’Allaro, il resto spedito nelle
fonderie del napoletano ed alle manifatture militari di Poggioreale e Torre Annunziata.
Oltre al tipico assortimento militare (cannoni,
affusti, proiettili), si comincia a produrre materiali ferroviario (sarà lo
stesso Ferdinando a dare avvio a questa produzione commissionando alla ferriera
calabrese il pezzo più importante dei macchinari installati a Pietrarsa): è una
risposta diretta alla “Zino & co.” Saranno quindi gli stessi militari a
dimostrare la superiorità dei prodotti mongianesi, confutando le osservazioni
fatte sulla scia della polemica Zino-Del Re: dimostreranno la superiorità degli
attrezzi da marina (ancore, catene, tubi, docce, pompe, stufe), busti per
monumenti e si fregeranno delle perfette fusioni delle travi da getto occorse
per il ponte sul Calore.
Tutto il complesso siderurgico calabrese, dislocato
in una vasta zona del territorio e con diversi punti “strategici” da tenere
sotto controllo, ha un’organizzazione abbastanza semplice e funzionale,
affidata, fino al 1840, a
cinque ufficiali dirigenti (rispettivamente preposti alla Dirigenza, al
Dettaglio, ai Lavori, alla Fabbrica d’Armi, alle Miniere e scelti in base alla
competenza del singolo, indipendentemente dal grado militare rivestito).
L’Ufficiale Direttore comanda sia i civili che i militari, è responsabile della
gestione, della contabilità, dello stato giuridico-amministrativo di ogni
militare e operaio e dipende, a sua volta, da una delle Direzioni d’Artiglieria
e dal Comando dell’Arma in Calabria; l’Ufficiale al Dettaglio (“economo”) cura i rifornimenti (legnami,
carboni, viveri e materiali di prima necessità), spedisce i manufatti ai vari
depositi di smistamento e vendita, comanda carbonari e mulattieri; l’Ufficiale
ai Lavori sorveglia i processi fusivi, guida il lavoro dei fonditori, ai quali
dà consigli tecnici, è responsabile della qualità dei ferri e dei manufatti;
l’Ufficiale alle Armi ha l’incarico di smistare le armi ai vari corpi militari
e di provvedere sulle richieste di lastre per fucile inoltrate dalle
manifatture di Poggioreale e Torre; l’Ufficiale alle Miniere (un “geologo”) cura
il lavoro di scavo ed estrazione, segue le ricerche di nuovi filoni, ordina
l’apertura di nuove gallerie e la chiusura di quelle esaurite, sorveglia le
fortificazioni, comanda le squadre dei minatori. A Ferdinandea le competenze
amministrative e di sorveglianza sono affidate ad un solo Ufficiale, demandando
ogni altra questione ai competenti dei
vari settori di stanza a Mongiana.
Agli inizi
degli anni ‘40, a fianco di costoro compare la figura dell’Ingegnere
Costruttore: Mongiana si avvarrà di Domenico Fortunato Savino, sconosciuto alle
cronache ma personaggio chiave della storia edilizia e tecnica della ferriera.
“Sarà lui a curare i restauri dei vecchi
immobili, a redigere in nuovi progetti, a concludere i contratti d’appalto; è
il progettista della Fabbrica d’Armi, della nuova caserma, della fonderia,
delle strade, del cimitero, delle nuove officine, di ponti e canali. E’ il
realizzatore dei carrelli degli altiforni mossi da una macchina a vapore che
utilizza a recupero i gas in uscita, una tecnica che prenderà piede
nell’industria siderurgica molto tempo dopo. Le sua innegabili capacità e la
sua inventiva lo porteranno a migliorare i sistemi di produzione, a
convertirli, ad ideare soluzioni e meccanismi inediti; è l’uomo dalle mille
risorse che modifica macchine difettose e ne corregge il funzionamento” [4]: un
uomo che certamente avrebbe meritato di essere ricordato, ma di cui si ignora,
oggi, persino il nome.
Nel 1846
Savino ottiene via libera per introdurre a Mongiana i più moderni metodi di affinazione, installa
un nuovo laminatoio acquistato in Inghilterra, che egli stesso perfeziona in
maniera originale, consentendo allo stabilimento di diventare completamente
autosufficiente: da quel momento Mongiana si costruirà tutto l’occorrente. La
nuova fabbrica d’Armi è interamente progettata e costruita sul posto: neanche una lima sarà mai più importata.
Gli
eventi rivoluzionari del 1848 non sconvolgono la vita delle Ferriere e neanche
quella di Savini, che pure mostra simpatie verso i liberali: la Direzione delle
Ferriere lo difende ad oltranza. Ma non sono solo le sue indubbie capacità a metterlo al riparo da qualunque ritorsione;
é vero altresì che Mongiana non accoglie, anzi respinge, l’appello dei liberali
di unirsi in colonne per contrastare il generale Nunziante. I ribelli non
troveranno nella fabbrica un solo fucile assemblato, da poter utilizzare e
saranno costretti a ritirarsi con le sole armi personali requisite agli
ufficiali e con due cannoni, che però nessuno metterà in funzione: gli operai
delle Ferriere si rifiutano di collaborare con quelli che considerano “nemici”
Non sarà
questa l’unica volta. Nel 1860, in occasione
dell’annessione al Piemonte, Mongiana è teatro di una sommossa contro il nuovo
governo, guidata dagli operai delle Ferriere: scendono in piazza, assaltano la
sede della Guardia Nazionale, calpestano il tricolore, quindi, sequestrata la tromba al capomulattiere, chiamano a raccolta l’intera
popolazione, che si riversa per le strade inalberando la bandiera bianca con i
gigli, infrange lo stemma sabaudo posto nella casa delgovernatore, scende alla
fonderia, prende la statua di Francesco
II e la porta in processione per il paese, collocandola nella sua vecchia
posizione. Al colonnello garibaldino Massimino desta viva impressione
soprattutto la partecipazione delle donne. Scriverà: “Nelli scorsi mesi, varie feste si celebrarono in Mongiana per
Garibaldi, per Vittorio Emanuele, con musiche, luminarie, fuochi artificiali.
Nessuna donna compariva, il che a me, nuovo in questi paesi, faceva meraviglia.
La mattina del 31, quando insorse il paese al grido di Francesco II, e con armi
onde potevamo temere anche stragi, tutte le donne, vecchie, giovani, maritate e
zitelle, correvano per la città armate di bastoni e spiedi, furenti come
baccanti, gridando abbasso Vittorio Emanuele, viva Francesco II ed esse
animavano gli uomini ed insultavano fino a stracciare la barba alla spagnuola
ad alcuni che credevano affetti al nuovo governo”[5]
.
Per avere un’idea delle dimensioni del
complesso di Mongiana, basti pensare che le officine erano comprese in un solo
stabile esteso per oltre 2 km
lungo i fiumi Ninfo ed Allaro. La ferriera comprendeva tre altiforni (Santa Barbara, San Ferdinando, San Francesco);
la fabbrica d’armi era costituita da un imponente edificio di tre piani, al cui
ingresso si trovavano (e sono ancora oggi conservate) due alte colonne
scanalate in ghisa sormontate dalle statue del Re e della Regina. All’interno
dell’edificio vi erano le officine dei forgiatori di canne di fucile, baionette
e piastrine, che si estendevano su un’area di 4000 mq.
Il sito di Mongiana forniva alla Real Casa 2mila
cantaia di proiettili, mortai e bombe; vi si costruivano enormi ruote di ferro
fuso, pezzi di macchine, docce, tubi, campane, attrezzi militari e rotaie. La
spedizione dei manufatti a Napoli veniva effettuata utilizzando il porto di
Pizzo, cui si arrivava attraverso un sentiero che passava da San Nicola di
Crissa e dal bivio dell’Angitola, sentiero che poi sarebbe divenuto la regia strada borbonica delle Serre.
Non si deve pensare, peraltro, che il fermento
industriale riguardasse solo l’industria statale. Non lontano dal sito regio di
Mongiana, nella vicina Cardinale sorse quello che, a ben ragione, fu definito
il più grande complesso siderurgico privato del regno: si tratta delle Ferriere
del Principe di Satriano, lungo il fiume Ancinale (in prossimità di Soverato)
Insomma, le Calabrie rappresentavano il fulcro
dell’industria siderurgica del regno, sia statale che privata e certamente una
delle zone più produttive e con la maggiore occupazione di manodopera.
Com’era
organizzato il lavoro all’interno della Ferriera?
Il
regolamento per le miniere del ferro dei Reali Stabilimenti di Mongiana, datato
13 aprile 1845, è un documento abbastanza raro, poiché in molte nazioni,
riguardate oggi come più progredite,
spesso non esisteva alcun
regolamento e le condizioni di lavoro dei minatori non erano sicuramente
invidiabili. Generalmente, si provvedeva mediante avvisi pubblici a
stabilire i doveri, più che i diritti
dei minatori.
L’organizzazione operaia a Mongiana era
ovviamente piramidale, dai garzoni al capo-galleria, ed aveva al vertice il
Capitano delle miniere, responsabile dell’esplotazione.
Il Regolamento rappresenta un’interessante fusione
tra la logica militare-burocratica e la volontà di coinvolgere gli stessi
operai nella gestione della produzione, soprattutto per quanto riguardava il controllo delle varie
fasi lavorative.
Al Direttore spettava il compito di coordinare circa
800 persone in varie specializzazioni di lavoro: nel decennio tra il 1850 ed il
1860, giunsero a 1.500 unità. A partire dal 1852, anno in cui Mongiana divenne
Comune autonomo, al direttore colonnello toccò il compito di prendersi cura anche
della popolazione civile, poiché a lui furono demandate anche le cariche di
sindaco e di giudice supplente del circondario.
L’incarico di
Direttore della Mongiana era un impegno arduo da assolvere che,
tuttavia, i vari Direttori che si succedettero seppero sempre gestire con
competenza, anche nei momenti più difficili.
D’altra parte, le norme che regolavano
l’organizzazione del lavoro erano quanto mai avanzate e soddisfacenti per
l’epoca e le paghe erano discrete.
La giornata lavorativa era già di sole otto ore, ben
lungi dalle sedici applicate in altre nazioni (es. l’Inghilterra) e di poco
inferiore alle dieci-undici vigenti nel Regno. Per i compiti più disagevoli
questo limite poteva essere ulteriormente ridotto.
Esisteva una cassa di previdenza per gli infortuni
sul lavoro.
In media un minatore adulto, non capo-galleria,
guadagnava circa 4 ducati ogni cento cantaia di minerale lordo consegnato alla
bocca della miniera; le paghe dei capo-officina, limatori, tornitori,
modellatori, potevano giungere anche a 12 ducati al mese; la paga di un operaio
non specializzato si aggirava sui 7 ducati, agli allievi ne toccavano 4. Dal
1820 al 1864, anno della chiusura, le tariffe aumentano di poco, ma ciò è
dovuto anche alla stabilità della moneta che non comportò praticamente alcuna
inflazione.
Le paghe migliori erano quelle dei “ferrazzuoli”,
che ricevevano il ferro acre e venivano
compensati con 20 carlini per ogni cantajo, oltre al rimborso del carbone in
misura di 40 grani a salma. Il “ferrazzuolo” doveva conferire per ogni cantajo
di ferro dolce 16 rotola di ferro, che gli veniva pagato a 7 grani il cantajo.
Poco
frequenti gli infortuni ed abbastanza contenuta la percentuale di morte sul
lavoro, per nulla paragonabile ai tassi dell’industria privata.
A partire dal 1840 fu destinato a Mongiana un
chirurgo, ma dai documenti non si evince che abbia avuto particolarmente da
fare. A parte l’epidemia di colera del 1848, che non investì, comunque, la sola Mongiana, non
vi è traccia di malattie epidemiche, né risulta che la popolazione risentisse
delle malattie tipiche della maggior parte delle imprese industriali
dell’epoca.
Da rilevare, poi, l’assoluta assenza di alcolismo.
Manca totalmente lo sfruttamento delle donne, mentre
il lavoro minorile è limitato a funzioni gregarie, con orari di lavoro molto
miti.
Oltre al chirurgo, risiedeva a Mongiana stabilmente
un farmacista con funzioni di medico, nonché alcuni insegnanti che istruivano i
figli degli operai all’interno della Fabbrica di armi[6].
Cos’è
rimasto oggi di Mongiana? Il tessuto urbano del paese, oggi pressoché
spopolato, é rimasto intatto, assolutamente identico a come si presentava a metà Ottocento: esso ci indica che le abitazioni erano sorte
in modo spontaneo, interamente costruite dai suoi abitanti-operai, tranne
alcuni corpi di fabbrica più importanti, disegnati da tecnici. A differenza di
San Leucio o di altri villaggi realizzati nell’ambito di un progetto
industriale, Mongiana fu, invece,
costruita da diverse generazioni di operai, liberi di esprimersi
individualmente e che adottarono, man mano, tecniche, materiali e soluzioni
lontane da qualunque logica pianificatrice. Gli operai di Mongiana ebbero la
grande opportunità di conciliare il vecchio ed il nuovo, di assimilare le
esperienze dei vicini paesi e, quindi, di amalgamare senza traumi eccessivi la
nuova condizione operaia con quella che la precedeva e che aveva radici nella
vita agricola e montanara.
L’architettura delle case, che sono tutte su due livelli, rispecchia le tradizioni manifatturiere
locali e non è raro trovare edifici di buon granito e lavorazioni in ferro
battuto che arricchiscono molti balconi e ringhiere (la zona era molto fiorente
di scalpellini, oltre che di artigiani del ferro).
Quindi,
ancora una volta e con forza, sono
queste testimonianze vive del passato a smentire decisamente i racconti
dei viaggiatori stranieri, soprattutto inglesi e francesi, che hanno deturpato
l’immagine della Calabria e del Mezzogiorno con raccapriccianti quanto
infondati “quadri” descrittivi di improbabili condizioni di vita, ai limiti del
sottosviluppo e delle bestialità, nel tentativo di “dimostrare” la
presunta crudeltà del governo borbonico, oltre che l’arretratezza e
l’inciviltà delle popolazioni.
Che tali
condizioni fossero davvero molto lontane dalle Calabrie e dal Regno lo rivelano
anche i documenti “interni” dell’amministrazione del nuovo Regno d’Italia. Le
memorie e le relazioni ufficiali del
colonnello Massimino, primo amministratore della ferriera dopo l’Unità, forniscono
il quadro reale delle potenzialità offerte dalla ferriera e del sistema razionale di collegamenti tra i diversi
settori della produzione: “… qui lavorano
tre Alti forni ventilati da una macchina a vapore della forza di 50 cavalli…
Questa fonderia può dare 40.000 cantari di ferro fuso l’anno. Evvi poi un altro
forno a manica per la seconda fusione… sonvi pure tre raffinerie di ferro nelle
quali il ferraccio si riduce in ferro fucinoso. La Fabbrica delle canne è
incipiente… A tre ore di distanza nei monti
evvi un’altra fonderia che possiede un altro forno in un locale capace di
averne quattro. A tre ore da Ferdinandea sono le miniere del ferro con tre
gallerie producenti un ottimo minerale ed alle quali è addetto un Capitano
d’Artiglieria… si conosce il personale esistente in questo stabilimento e si
rileva come più di 1.500 persone traggano la loro esistenza dai lavori dello
stabilimento…”.
Quando
scrive questa relazione, il 4 settembre 1860,
il colonnello Massimino ha preso possesso della Mongiana, in nome di
Garibaldi, da soli quattro giorni[7].
Trova tutto in ordine e loda sia la precisa contabilità che la corretta
gestione dei borbonici, ma deve subito fare i conti con la reazione
popolare. Quasi immediatamente i beni
della Ferriera sono sottoposti a saccheggio, si registrano numerosi furti di
carbone, molti animali vengono introdotti abusivamente al pascolo, si
verificano molti incendi dolosi. L’ufficiale piemontese si trova a dover
gestire una situazione che diventa sempre più incontrollabile, anche perché a
partire da agosto, ossia da quando la Ferriera è stata “liberata”, non vengono
più pagati i salari agli operai, fino a quel momento regolarmente retribuiti.
Il 5 e 6
ottobre i mulattieri si sollevano al grido di “Viva Francesco II”. Pochi giorni dopo nei boschi compaiono due
bande, una capeggiata da un ex artigliere dello stabilimento, un’altra formata
di soldati sbandati. I plebisciti del 21 ottobre vedono i mongianesi nettamente
contrari all’annessione: in tutta la provincia di Catanzaro, caratterizzata
dalla vittoria dei “sì”, escono dalle
urne 615 “no”, di cui ben 220
appartengono agli abitanti di Mongiana e Fabrizia e, caso rarissimo, in questo
collegio la vittoria dei “no” è
schiacciante (il dato è tanto più rilevante ove si pensi che, votandosi in base
al censo, quasi tutti gli operai dello stabilimento restano esclusi dal voto).
E’ questo
il primo “contrasto” con quell’Italia che, per ritorsione, decreterà il lento
disfacimento dello stabilimento e del territorio. Non è certo un caso se oggi
questo territorio e questa provincia sono le più povere d’Italia.
Duecentoventi elettori che sfidano la piazza e la Guardia Nazionale,
schierata davanti alle urne, per dire “no”
al nuovo governo non sono pochi; ma molti di più sono coloro che manifestano il
loro dissenso con l’assenteismo.
Tanto per
cambiare, l’anno si chiude per Mongiana con una sommossa, che trova la
Direzione assolutamente sguarnita. Si diffonde la notizia – ovviamente falsa –
di uno sbarco di borbonici a Pizzo, mentre Massimino é a Napoli per tentare di
trovare una soluzione: gli operai scendono in piazza, prendono d’assalto una
quarantina di guardie Nazionali, sottraggono loro i fucili, calpestano il
tricolore. In prima linea sono le donne, che incitano gli uomini al grido di “Viva Don Cicciu” (naturalmente si tratta
di Re Francesco, ma, più tardi, per difendersi nei processi diranno che
intendevano lodare Francesco Morabito, un proprietario terriero che li aveva
aiutati a sopravvivere).
La sommossa
si conclude con sette arrestati e con l’allontanamento di Massimino, “incapace di procurare la pace”.
Ferdinandea cessa di funzionare immediatamente, poco tempo prima
dell’inaugurazione del secondo altoforno all’inglese di Mongiana. I loro nomi
vengono, naturalmente, mutati in “Cavour”
e “Garibaldi”. Quando si chiamavano “San Francesco”
e “San Ferdinando” producevano in
coppia una media di 13.000 cantaja di ghisa all’anno; divenuti “unitari” vanno
a scartamento ridotto: nel 1860 la loro produzione è già dimezzata; nel 1863
l’intero complesso mongianese sforna soltanto 5.000 quintali.
L’annessione porta ai meridionali un forte aggravio del carico fiscale;
se nel 1863 le tasse sono aumentate già del 40%, nel 1865 raggiungono l’87% in
più rispetto al 1860. All’industria vengono a mancare drammaticamente i
capitali, mentre le commesse non verranno mai. Nel decennio 1860-70 lo Stato
commetterà all’industria siderurgica meridionale solo il 5-7% del fabbisogno
militare e non più del 6% di quello ferroviario. Delle 600 locomotive previste
per le linee del Sud, solo 1/6 toccherà a Pietrarsa; neppure una rotaia verrà
più prodotta nei laminatoi napoletani. Lo Stato unitario privilegia subito,
spudoratamente, la componente piemontese-ligure: l’Ansaldo che prima del 1860
contava la metà dei dipendenti di Pietrarsa, con l’Unità li raddoppia mentre,
contemporaneamente, si dimezzano quelli del meridione; un meridione che verrà,
da allora in poi, considerato soltanto degno di vocazione agricola e dove
sembrerà innaturale lo sviluppo industriale.
Si dirà
che l’industria siderurgica meridionale
sfornava manufatti di scarsa qualità, che le maestranze erano poco istruite: si
tratta di pretesti accampati in malafede per giustificare il dirottamento delle
commesse al Nord e che troveranno
clamorose smentite. I cantieri di Castellammare di Stabia varano in tre anni la pirofregata Messina, al cantiere
S. Rocco di Livorno ne occorreranno quattro per la gemella “Conte Verde”; in tre anni i cantieri stabiesi varano la prima monocalibra
del mondo, la “Duilio”,
all’Arsenale di La Spezia non ne basteranno quattro per la gemella “Dandolo”.
La Mongiana conquista all’ Esposizione industriale
di Firenze (1861) una medaglia con diploma; l’anno successivo ghisa, ferro,
lame damascate, carabine di precisione, sciabole ed armi varie prodotte dalla
ferriera calabrese sono premiate all’Esposizione internazionale di Londra.
Le
miniere di Pazzano vengono abbandonate subito dopo l’Unità, le gallerie
degradate dall’abbandono saranno chiuse (all’ingresso oggi sorge una
discarica), anche se le analisi sul minerale consiglieranno di non abbandonare
l’impresa. La Mongiana, lasciata senza mercati, privata dei suoi più brillanti
tecnici, assisterà impotente al proprio disfacimento, rea di essersi opposta
all’annessione.
Con legge
21 agosto 1862 n. 793 la Mongiana viene inclusa tra i beni demaniali da
alienare; undici anni dopo, con legge 23 giugno 1873 verrà sancita
definitivamente la vendita dello stabilimento.
A nulla
valgono le ripetute suppliche al governo della comunità mongianese che fa un
ultimo disperato tentativo con una delibera del consiglio Comunale del 28
novembre 1870, con cui viene chiesta la
ripresa dei lavori per rimettere in funzione lo stabilimento, dando conto delle
ragioni che la
giustificano. E’ un documento molto bello, dai toni accorati,
ma dignitosi e pieni di orgoglio per un passato da non dimenticare. Il
linguaggio è decisamente non
burocratico, anzi appassionato ed è
l’intera comunità che chiede allo Stato di non essere abbandonata e di
poter trovare “un mezzo di sussistenza a
tanti operai di tutti i mestieri i quali con le rispettive famiglie vennero
costretti, attesa la mancanza di lavoro, a provar quanto è cosa dura morir per
fame” : un disperato appello che, purtroppo, cadrà nel vuoto. Probabilmente
è anche l’ultima possibilità, che il
Governo non saprà cogliere, di riconciliazione con quanti sono stati defraudati
dei loro diritti di cittadini.
Purtroppo, non solo il governo non si farà minimamente turbare da queste
petizioni (altre ne seguiranno il 23 ed il 27 aprile 1872, ma ormai i giochi
sono fatti); nessuna richiesta dei mongianesi verrà accolta e nessuna commessa
per l’esecuzione di alcun lavoro
arriverà mai più allo
stabilimento.
Tutto è già
stato deciso: Mongiana deve morire.
A
Catanzaro, sul banco del banditore, prima che la candela si spenga, Achille
Fazzari, ex sarto, ex garibaldino, deputato, si aggiudica tutto il complesso.
Peggio
non poteva andare. Fazzari non è un imprenditore, anzi è assolutamente
incompetente : Mongiana è completamente abbandonata; Ferdinandea diventa
un’oasi privata dove il deputato ospiterà l’intellighenzia
del momento e sarà effettivamente quel “luogo di villeggiatura” che invece
con Ferdinando II non fu mai tale.
Ai mongianesi non rimane altra scelta che
emigrare: i più fortunati troveranno lavoro a Terni nella fabbrica d’armi
aperta in quella città nel 1884; altri meno fortunati (e saranno tanti)
aspetteranno sulle banchine del porto di Napoli il proprio turno per imbarcarsi
sui piroscafi diretti verso Stati Uniti, Argentina, Canada, Australia.
I loro
figli e nipoti oggi tornano, di tanto in
tanto, al loro paese: nessuno di loro, però, ne conosce la storia; qualcuno sa,
a mala pena, che un tempo i loro antenati erano stati più ricchi ed il loro
paese aveva vissuto tempi migliori.
Una bellissima poesia, Littira o lu’ Rre, composta da un
artigiano pazzanese, mastro Bruno Pelaggi, all’indomani dell’Unità, descrive
molto bene la condizione di quel calabresi, privati improvvisamente di tutto e
ben presto considerati dal governo “italiani di serie B”. Né è il solo
componimento che traccia un quadro significativo della situazione calabrese
dopo l’annessione al regno sardo, anzi vi è un fiorire di poeti dialettali che
affidano alla penna la protesta de popolo.
Il sacerdote Giuseppe Monaldo
di Filadelfia, perseguitato dai Borbone per le sue idee liberali, dopo l’unità
cosi protesta contro il fiscalismo dei nuovi governanti:
E tossi a li rnaiali
a ciucci ed a vaccini,
a machini e mulini,
tunnari e vucciarì (...)
E tassi a lu rosoliu,
a rapi e pistanachi,
aringhi cu sarachi,
a’ zzuccaru e cafè (...)
Vinneru scazi e nudi,
e mo’ sunnu riccuni,
galiouti brigantuni,
muli de !i zulù.
Anche il poeta Antonio Martino
di Galatro, di tendenze liberati, ammette la pesante disillusione sofferta dai
liberati calabresi e nel Paternoster dei
liberali calabresi scrive al sovrano, che sembra essersi dimenticato dei
suoi doveri di “padre di tutti gli italiani”, rappresentandogli la generale
miseria della popolazione, vessata dalle nuove tasse e dalla burocrazia:
Li sudditi su’ tutti
ammiseriti:
vui jiti a caccia, fumati e
dormiti (...)
Sindaci, segretari e
salariati,
e cunsigghieri tutti ed
assessuri,
su’ latri cittadini patentati
(...)
simu trattati peju di li cani,
pagamu supra l‘acqua chi
mbivimu (...)
Patri, cuntempra tu
chist’orazioni
Et ne nos inducas in
tentazioni:
ca di la furca passammu a tu
palu,
sed libera nos a malo.
I Piemontesi “jestimaturi orrendi e miscredenti” si
sono impadroniti dette terre e degli averi delle popolazioni calabresi, a spese
delle quali hanno approntato lauti banchetti ed ogni sorta di godimenti:
E di li fundi nostri cilonari
Nui diventammu, ed idhi
proprietari (...)
E pe di cchiu “li schiavi
conquistati”
Ndi chiamanu li facci
d’ammazzati (...)
Non pensan’ autru ca mangiari
sulu
Mu fannu bonu chippu e grossu
culu
Hanno fatto razzìa di bestiame e
viveri di ogni sorta, nonché di preziosi e persino del rame delle cucine:
l’impieghi fra di loro si
spartiru:
ficiaru schiannanzìa di tu
bestiami,
gadhini ed ova e pasta
l’incariru,
tu ranu, vinu, pisci e la
fogghiami.
Senza contare la
“scristianizzazione” che il sistema piemontese ha portato ai danni di un popolo
profondamente cattolico e legato alle proprie radici religiose:
Li chiesi nostri quali li chiudiru,
quali su’ stadhi e quali su’ triati.
L’enti morali tutti sopprimiru,
li beni sagri tutti ncammarati
(...)
Ah, sì, d’Italia e sua
consorteria
parlava tu profeta Geremia.
[1] ASCZ, Mongiana,f. 49-50
[2] De Stefano Manno – Matacena, Le reali Ferriere ed officine di Mongiana,1979
[3] In realtà, già prima del 1094 il
ferro delle miniere serresi era noto e sfruttato: i primi coloni greci se ne
servirono per il conio delle monete dell’antica Kaulon. Ma fu solo in epoca più
recente che l’attività delle miniere venne istituzionalizzata con la creazione
di fabbriche per la lavorazione del metallo. Scarne sono le notizie relative
all’attività estrattiva dell’area serrese durante il periodo svevo, a causa
della totale distruzione dei registri di concessione. È certo, invece, che gli
Angioini utilizzarono e potenziarono tale attività (un rescritto del 1333
accenna al lavoro estrattivo nelle gallerie del Monte Stella e ricorda anche
come dal 1314 è in funzione a Pazzano una ferriera di proprietà del convento di
Serra San Bruno). Analoghe testimonianze si rinvengono per il periodo
aragonese, anche se l’importazione nel
Regno di ferri triestini e toscani, comprime la produzione locale. È con
Carlo V che il settore riceve nuovo impulso : nel 1523 l’imperatore dona le
Ferriere a Cesare Fieramosca, fratello di Ettore, per ripagarlo dei servigi
resi a Ferdinando il Cattolico, sollecitandolo a diventare imprenditore;
tuttavia questi, uomo d’armi, si mostra
piuttosto restìo al nuovo mestiere e tarda a prendere possesso dei nuovi
domini. Alla sua morte, analoga linea viene seguita dal figlio; sicché, per
motivi di pubblica utilità il Regio Demanio si vedrà costretto a requisire la
ferriera di Stilo. Successivamente, i Fieramosca ne reclameranno il possesso ma neanche dopo
averlo ottenuto scenderanno mai
in Calabria e preferiranno piuttosto dare in affitto la
gestione ai Ravaschieri di Cardinale. Nuovamente i Fieramosca perdono il
possesso delle Ferriere e questa volta il Fisco se ne appropria
definitivamente: nel 1642 la principessa di Scilla, che avanza pretese
successorie sul patrimonio di Cesare Fieramosca, verrà tacitata dallo Stato con
la cessione, in cambio delle sole ferriere, di vasti possedimenti agricoli ad
Atri, negli Abruzzi. Durante il periodo
viceregnale le Ferriere di Pazzano e Stilo continueranno a produrre con vicende e fasi alterne: più volte si tenterà di
vivificarle, attesa l’importanza che alle stesse viene riconosciuta
nell’economia del regno e si chiamano tecnici “stranieri” per migliorare i
processi produttivi e di raffinazione del ferro; tuttavia negli anni migliori
la produzione non supera 1200 quintali di ferro all’anno, mentre in media si
attesta sui 400-500 quintali.
[4] De Stefano Manno - Matacena, op. cit., p. 61
[5] ASCZ, Mongiana, f. 71 – Relazione 11 gennaio 1861
[6] Il verbale di esami della scuola
primaria, gratuita, di Mongiana del 1859 ci descrive due classi, in totale
venti alunni, per i quali è previsto un esame secondo uno dei tre metodi in uso
(simultaneo, mutuo o individuale), nove materie (Leggere e scrivere;
Aritmetica; Religione; Galateo; Grammatica italiana; Dettato; Disegno lineare;
Agricoltura; Arti) ed i nomi degli alunni che si sono particolarmente distinti
nella varie materie, ma anche di coloro che hanno raggiunto risultati non
soddisfacenti, con l'indicazione dei motivi.
[7] Il 30 agosto, provenienti da
Monteleone, “i signori Palù e colonnello
Massimino” con una colonna di 1.370
uomini, si presentano al maggiore Giuseppe del Bono, comandante del
distaccamento di Artiglieria a Mongiana, nonché Direttore dello stabilimento,
per prenderne possesso. Due giorni prima, all’arrivo di Garibaldi a Pizzo,
molti artiglieri avevano deciso di
abbandonare la Mongiana, demoralizzati dallo sventolìo della bandiera
piemontese: erano rimasti nello stabilimento appena 25 soldati e pochi
ufficiali, oltre al De Bono. Tuttavia, non si arrendono subito all’intimazione
di Massimino e dichiareranno di non poter sottoscrivere l’atto formale di adesione
al nuovo governo, poiché legati dal giuramento ad un Re ancora in carica; ma
una trentina di uomini non possono, evidentemente, affrontarne 1370 e quindi
sono costretti a consegnare lo stabilimento ai piemontesi.
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