di Filippo Giannini
Per la verità mi stavo accingendo a preparare un articolo riguardante,
ancora “un altro miracolo italiano,
avvenuto sempre nell’Italia dei miracoli, al tempo del male assoluto”, poi,
dopo aver ascoltato, su Rai 1, alle sette circa dell’11 maggio (2012), in
merito ad un incontro tra un giovane ambasciatore sloveno e lo storico Giordano
Bruno Guerri, ho cambiato idea. Ho deciso, quindi, di rimandare in altra
occasione l’articolo del miracolo.
I lettori avranno notato che dalla fine del conflitto del 1945, per
decenni l’argomento foibe era
praticamente sconosciuto, in quanto criminalmente nascosto – nascosto perché
altrimenti che liberazione sarebbe stata?
-. Poi avvenne che, come sempre accade nella Storia, anche in questo caso
quanto celato venne alla luce e fu veramente accecante tanto che illuminò,
anche se parzialmente, i misfatti compiuti dai comunisti italiani in combutta
con i loro associati slavi nelle
terre orientali a danno di cittadini italiani. Di conseguenza i comunisti
nostrani si trovarono a fronteggiare la gravissima accusa di genocidio. E mò che famo? Mi pare di
sentirli esclamare, e trovarono la soluzione: Colpa del fascismo!
D’altra parte dal 1945 i media possono affermare
su questo, e su mille altri argomenti tutte le menzogne che a loro fanno comodo
e farle passare per verrtà. Da sempre, amici lettori ci avrete fatto caso che,
dieci o venti volte al giorno si parla di Mussolini e del fascismo e mai,
ripeto MAI che dall’altra parte ci sia qualcuno che contesti tante fesserie.
Così è accaduto che di fronte
al ricordo delle foibe l’ambasciatore sloveno ha puntualizzato che la causa di
cotanto orrore è da imputare alle atrocità commesse dal fascismo in quelle
terre.
E vediamo di ricordare al giovane ambasciatore quanto Guerri ha taciuto.
A questo punto è necessario, prima di addentrarci nel tema, fissare dei
punti cardini:
1) Il 25 marzo 1941, la
Jugoslavia firmava a Berlino, tramite il suo ministro
Cvetkovic, la sua adesione al Patto
Tripartito. Due giorni dopo una sommossa militare capeggiata dalla classe
dirigente serba, rovesciava la situazione, annullava l’adesione all’Asse e cambiava completamente le
alleanze. Si può immaginare il pericolo che poteva creare una Jugoslavia
alleata degli inglesi sul Mare Adriatico. Il 6 aprile scattava l’operazione
offensiva dell’Asse contro la Jugoslavia e in due
settimane l’esercito slavo fu sconfitto.
2) La Jugoslavia
era composta da 14 etnie diverse e numerose minoranze, da quattro contrastanti
religioni, da secoli in lotta di sterminio fra loro, civiltà diverse con nuclei
d’estrazione rumena, magiara, tedesca, italiana, dalmata, slovena, croata,
serba, bosniaca, macedone, albanese, montenegrina, voivojdinese, greca e diverse
altre minoranze, come zingari, ebrei, cristiani, ortodossi, musulmani, maroniti
e tutti, come detto, contro tutti gli altri, una lotta ultrasecolare
accompagnata da stragi e atrocità inimmaginabili.
3) Dopo l’occupazione da parte dell’Asse
della Jugoslavia, questa venne suddivisa in tre Stati indipendenti: a) Croazia
– zona d’influenza italiana, designata come trono ad un Savoia-Aosta (Re
Tomislav II), nominalmente retto dal feroce Ante Pavelic, di ispirazione
fascista, ma che abbandonò Mussolini per schierarsi con la Germania. b) Serbia –
zona d’interesse tedesca con a capo il generale Nedic, un governo filo Asse. c) Montenegro – sotto tutela
italiana con a capo esponenti della casata Petrovic – Njegos, imparentati con la Regina Elena di
Savoia. Le altre zone erano suddivise fra Italia, Germania, Ungheria, Bulgaria
e Croazia. Immediatamente si palesò, per gli eserciti occupanti, la quasi
impossibile condizione di portare la pace fra quei popoli così diversi gli uni
dagli altri.
4) Ė bene ricordarlo di nuovo: la Jugoslavia fu creata a Versailles nel 1919 da
Francia, Inghilterra e Stati Uniti in funzione anti-italiana.
5) Dalla frammentazione di cui al punto 3) nacquero formazioni partigiane
le quali, sin dall’inizio combattevano contro tutte le altre etnie.
6) Di nuovo, a questo punto, è indispensabile ricordare, una volta
ancora, le Convenzioni Internazionali di
Guerra dell’Aja del 1899, del 1907, di Ginevra del 1927, ribadite con R.D.
il 1939. Brevemente: le suddette Convenzioni
stabilivano le differenze fra il Legittimo
combattente e l’Illegittimo
combattente. I primi, per essere riconosciuti tali, dovevano rispondere a
quattro condizioni indispensabili: a) indossare una divisa riconosciuta dal
nemico; b) portare apertamente le armi; c) rispondere ad ufficiali
responsabili; d) riconoscere le Convenzioni
di Guerra. L’illegittimo combattente
(cioè il partigiano o, ancora più propriamente, il franco tiratore), per il quale le Convenzioni Internazionali prevedono testualmente: “Gli illegittimi combattenti vengono dovunque
perseguiti con pene severissime e sono generalmente sottoposti alla pena
capitale in caso di cattura; lo stesso dicasi per i sabotatori”. Ma non è
tutto, I legislatori erano talmente fermi
su questi principi che, per l’osservanza di quanto stabilito,
statuirono: “La rappresaglia si qualifica
innanzitutto come un “atto legittimo” (…). La rappresaglia, condotta
obbiettivamente illecita, diventa, per le particolari circostanze in cui viene
attuata, condotta lecita (…). (La rappresaglia è) cioè una reazione all’atto
illecito e non un mero atto lecito, la cui liceità deriva dall’esistenza di
un precedente atto illecito”.
Ed ora entriamo nel merito, osservando che quanto sopra dovevano essere
le obiezioni che Bruno Guerri, in quanto storico, avrebbe dovuto presentare
all’ambasciatore sloveno nel corso dell’incontro.
Sin dai primi giorni di occupazione, le
varie bande slave che si vennero a formare erano impegnate a sterminarsi fra
loro più che affrontare le forze occupanti. Così la nostra 2a Armata, accolta con favore dalla popolazione
civile, fu impegnata a frapporsi fra le varie bande per evitare il compiersi di
stragi. Questo fino a quando non si formarono le bande partigiane comuniste di
Tito, come detto, foraggiate e obbedienti (almeno in quel momento) agli ordini
di Stalin.
Il 7 giugno 1941, Mussolini nominò Giuseppe Bastianini governatore della
Dalmazia. Bastianini era un fascista della prima ora e si era distinto come
uomo della diplomazia e certamente questa caratteristica gli valse l’incarico.
Bastianini dovette immediatamente affrontare una situazione piuttosto
complessa (ma l’ambasciatore sloveno queste cose non le conosce?). Sin dal
primo dopoguerra, quando l’Italia occupò Zara e alcune isole dalmate
(1918-1919), vi erano state, da parte di alcuni abitanti locali, manifestazioni
di violenza contro gli italiani. Si trattava di andare a governare un
territorio che aveva per confinante
l’alleato croato Ante Pavelic, capo degli ustascia, che mal aveva accettato
l’occupazione italiana della Dalmazia.
Le prime azioni di Bastianini furono improntate alla massima tolleranza,
intraprendendo un’azione di “pace e di
penetrazione pacifica verso coloro che gli italiani consideravano, a torto o a
ragione, fratelli”.
Intanto le bande
partigiane di Tito, dopo aver sterminato i cetnici di Mihajlovic (bande slave
anticomuniste), iniziarono una serie di atti terroristici mirati non solo
contro le forze dell’Asse, ma anche
contro i contadini locali, colpevoli di non rispondere al reclutamento
partigiano: “Le bande appiccano il fuoco
alle case dei reticenti” annota Bastianini “Si uccidono o si prendono in ostaggio i genitori di coloro che non si
presentano o lasciano il domicilio per nascondersi (...)”.
Ė poco nota (sicuramente non è nota neanche all’ambasciatore sloveno) la
direttiva del Primo Corpo Partigiano
Bosniaco emessa nel 1943: <Spesso
la confisca dei beni non è una punizione sufficiente per le regioni fedeli ai
cetnici. Vi sono casi in cui è necessario incendiare interi villaggi e
distruggere la popolazione (…)”. Quante volte queste crudeli operazioni
furono attribuite ai malvagi fascisti? Vero signor ambasciatore?
A queste azioni terroristiche rispondevano, con pari ferocia, gli
ustascia di Pavelic, sicchè facilitate dalla disposizione a macchia di leopardo
nel territorio delle varie etnie, le
stragi raramente potevano assumere una chiara connotazione di responsabilità.
Serbi, croati, bosniaci, sloveni, ognuno massacrava gli altri: a Livno
furono uccisi 12 cittadini, a Glivna 650, a Knin vennero impiccati tutti i
quarantasette rabbini e gli ebrei superstiti della zona vennero posti in salvo
trasferendoli in Calabria (nel dopoguerra questa opera di salvataggio fu
descritta come deportazione, vero
signori antifascisti?).
Senza soluzione di continuità il terrore si
estese nei mesi seguenti. Gli abitanti dei villaggi chiedevano la protezione
delle nostre truppe. A Knin e dintorni i cittadini presentarono una petizione
con centomila firme con la quale chiedevano l’annessione all’Italia e la
cittadinanza italiana. Molti giovani si arruolarono nel Regio Esercito e tanti
di loro, circa un migliaio, dopo l’8 settembre 1943, continuarono la lotta
antipartigiana nelle file della Rsi.
All’incirca, verso la metà del 1941, iniziarono gli attentati contro le
nostre truppe causando decine di morti e feriti. A metà novembre 1942 fu
portato a termine un attentato che, per la sua efferatezza fu il peggiore dei
precedenti. Nei pressi di Capocesto (Spalato), a seguito di una imboscata, vennero
massacrati 21 soldati italiani (17 marinai e 4 genieri). Si può solo intuire il
disgusto e la rabbia che provarono i soccorritori quando giunti sul luogo,
videro i corpi dei propri camerati orrendamente straziati, i bulbi degli occhi
al posto dei testicoli e questi posti nelle orbite.
Come reazione, che oggi possiamo definire inumana e irrazionale, ma
allora comprensibile e legittima, il generale Cigala Fulgosi, comandante della
piazza di Spalato, dette ordine di attaccare dal cielo e da terra Capocesto. I
morti furono circa 150. Questa fu l’unica grave rappresaglia condotta dal
nostro Esercito.
Quando Bastianini venne a conoscenza del grave fatto, impartì l’ordine
di soccorrere e, per quanto possibile, riparare il danno subito dalla popolazione.
Qualche anno fa un lettore
napoletano de Il Giornale d’Italia scrisse che nel 1942, per ordine di Mussolini su un’isola prospiciente Fiume, furono fatti
morire di fame 30 mila donne e bambini. Questa notizia, a detta del
lettore, fu riportata da uno dei tanti
periodici che illuminano di verità
storiche distorte il nostro Paese. Risposi al lettore che se fosse stato in
grado di dimostrare l’asserto, avrei rivisto completamente la mia opinione su
Mussolini. Benché lo stesso lettore, sullo stesso quotidiano, si sia
presentato successivamente più volte
sostenendo tesi dello stesso livello, fino ad oggi non ha fornito quanto
richiesto e mai sarà in condizione di farlo, tanto è grossolana la panzana.
Però, dato che la fantasia e le favole possono
avere un fondo di verità, la mia curiosità di modesto ricercatore è stata
sollecitata e ciò mi ha spinto ad indagare. Dopo una breve visita all’Archivio
dello Stato Maggiore Esercito, ho chiesto un incontro ad uno dei più validi
studiosi delle vicende dalmate (da poco, purtroppo scomparso), l’avvocato
Oddone Talpo, autore della monumentale opera: Dalmazia – una cronaca per la Storia. E le notizie che ne ho ricavato, come d’altronde mi
attendevo, risultano essere assolutamente diverse. L’isola prospiciente
Fiume di cui si è accennato, è Arbe,
oggi Rab. Continuiamo la storia.
Le nostre truppe catturarono migliaia di partigiani, la maggior parte di
loro passibili per le citate Leggi di guerra, di essere passati per le armi. Il
Tribunale Straordinario, appositamente istituito per la lotta contro i
partigiani, emise solo 58 sentenze capitali e di queste 47 eseguite. Gli altri
partigiani furono inviati in appositi campi di internamento e, fra questi,
finalmente troviamo l’isola di Arbe a cui il lettore napoletano aveva fatto
riferimento. Per evitare nuove
situazioni di pericolo per i nostri militari, per ordine di Bastianini furono
internati nell’isola anche le famiglie dei ribelli. Questi nuclei familiari
trovarono ospitalità in baracche, forse mal riscaldate, forse il cibo non era
sufficiente o non appropriato al clima dove imperversava la gelida bora, e
forse tutto ciò causò la perdita di 350/400 internati.
Le vicende che hanno per palcoscenico l’isola di Arbe proseguono grazie
a quanto ha scritto Rosa Paini, ebrea, nel suo libro I sentieri della speranza, pag. 130: “Quando nel maggio ’43 durante la visita di Himmler a Zagabria, furono
deportati a Auschwitz gli ultimi ebrei che si trovavano in mano ai tedeschi e
agli ustascia, gli italiani si rifiutarono ancora una volta di consegnare i
loro. Anzi, per proteggerli meglio, decisero di raccoglierli, quelli della
Dalmazia e delle isole vicine, in una sola zona: l’isola di Arbe facente parte
della provincia di Fiume”. Quindi nessun massacro di donne e bambini da parte italiana, anzi un lodevole
intento di salvare migliaia di vite umane. I partigiani slavi ed ebrei,
internati ad Arbe e nelle molte altre località, dopo l’8 settembre caddero in
mano dei tedeschi e degli ustascia e la loro sorte fu diversa. Di questo, però,
si deve dare atto ai vari Pietro Badoglio e a Sua Maestà il Re Vittorio
Emanuele III…
La storia di Arbe, oggi Rab, si arricchisce di un’appendice e ci è stata
resa nota da un documentario trasmesso dalla RAI/TV l’8 luglio 1997 che ci ha informato
che a Rab, nell’immediato dopoguerra, il lager
c’era ed era il più famigerato campo di
sterminio di Tito. Nell’isola transitarono 30 mila persone, di queste 4.000
vennero bruciate o massacrate, molte si suicidarono e altre impazzirono. Questa
è una delle tante storie dove la verità viene capovolta, ma è sufficiente
addentrarsi nella materia per riportare i fatti nell’effettiva realtà.
L’ambasciatore sloveno ne prenderà atto?
La storia delle atrocità commesse nel corso della guerra e nel dopoguerra
in quelle terre non potrebbe terminare con queste poche righe. Ma lo spazio a
mia disposizione è terminato. Però, prima di chiudere, vorrei ricordare un
fatto che io stesso ho vissuto. Da ragazzo frequentavo assiduamente Villa
Borghese e lì incontravo ripetutamente un giovane di circa venticinque anni.
Vedevo che camminava come fuori di sé, molto impedito e se gli si rivolgeva una
domanda rispondeva con parole senza senso. Seppi i motivi della sua disgrazia.
Aveva partecipato alla guerra in Jugoslavia e un giorno con altri camerati
venne rimorchiato da alcune ragazze
slave. Queste con lusinghe e vezzi femminili invitarono tutti in un casolare.
Fu una trappola: dopo che i militari italiani si erano spogliati, vennero fuori
dei partigiani che li catturarono e, immediatamente iniziarono le torture e
seguì la morte. Il nostro riuscì a
fuggire, ma rimase talmente stravolto da quanto aveva visto che, in pratica
impazzì, tanto che fu ritenuto non più valido al servizio militare e rispedito
in Italia. Quanto ricordato è solo un esempio di come i partigiani intendevano
la lotta, la guerra (?). Qualcuno di voi ricava da questo impressioni di lealtà
o di eroismo? Ripeto: è solo un esempio, ma ce ne sono di molto, ma molto più
gravi. A presto.
Avrei voluto trattare, anche se sommariamente le eroiche gesta dei partigiani slavi (non solo slavi), mi vedo
costretto a rimandare la trattazione in un prossimo futuro.
Nessun commento:
Posta un commento