di: Valentino Quintana
Dopo aver trattato qualche mese fa su Rinascita, l’argomento “Finanza e
politica bancaria durante il Fascismo”, è giusto parlare anche della
legislazione sociale che in quel periodo ha portato la nazione a vette
mai viste nel mondo civile, soprattutto in un periodo durante il quale
si sta tentando di distruggere completamente tutto ciò che ha tale
carattere.
Ricordo, qualche anno fa, durante la trasmissione Rai “Annozero”, uno
sfegatato Bertinotti difendere a spada tratta le conquiste dello Statuto
dei Lavoratori, frutto, secondo il suo ragionamento, “dei trent’anni di
vittoria sul nazi – fascismo”. Non mi risulta affatto che lo stesso
personaggio si sia prodigato per la salvaguardia dell’articolo 18, né
tantomeno abbia citato i progressi economico – sociali fatti dal 1922 al
1945 compreso. E’ tempo di rinfrescare la memoria, ordunque, al caro ex
presidente della camera dei Deputati, nonché a tutti i “tecnici”.
Il fondamento della politica sociale del Fascismo è in questa
proposizione mussoliniana: “ci siamo già sganciati dal concetto troppo
limitato di filantropia per arrivare al concetto più vasto e più
profondo di assistenza. Dobbiamo fare ancora un passo innanzi:
dall’assistenza dobbiamo arrivare all’attuazione piena della solidarietà
nazionale”. Tutta la politica sociale è stata concepita dal Duce in
funzione di questa solidarietà nazionale, che doveva poi trovare la sua
piena formulazione nella Carta del Lavoro. Presupposto tale di tale
politica è la nuova dignità riconosciuta al lavoro (e non la sua
mercificazione). Il lavoro, non viene più considerato per la prima volta
una “merce”, bensì una dignità, la più alta manifestazione della
personalità. Da oggetto diventa soggetto dell’economia, e si è cittadini
in quanto si è produttori. La tutela del lavoro non avrebbe avuto
senso, se non fosse stata accompagnata da una costante tutela del
cittadino. Da qui, la politica demografica, formulata da Mussolini nel
discorso dell’Ascensione del 27 maggio 1927. Essa obbediva ad una
concezione morale della vita e ad una visione dei fini nazionali.
Inflessibile è stato il Regime nella lotta contro il malthusianesimo.
“Massimo di natalità, minimo di mortalità”. Questa la sua formula.
Inutile replicare che alla flessione delle nascite si può opporre la
riduzione della mortalità. Per il Fascismo si trattava di un sofisma. Se
la natalità e la mortalità diminuiscono insieme, la popolazione subisce
un profondo cambiamento nella sua composizione: aumenta la percentuale
degli anziani e riducendosi quella dei bambini e dei giovani, si va
verso l’invecchiamento. Senonché l’indice della mortalità non è
comprimibile all’infinito: si può protrarre la durata media della vita
umana, ma fino ad un certo limite. Viceversa, l’indice della natalità
può regredire indefinitamente, fino allo zero.
Ed i fatti seguirono immediatamente alla dottrina. Ecco “l’Opera per la
protezione della Maternità e dell’Infanzia”, istituita dal Duce con la
legge del 10 dicembre del 1925. A mezzo di 94 Federazioni provinciali,
di oltre 7300 Comitati di Patronato, di un vero esercito di medici,
assistenti sanitarie, visitatrici, patronesse, patroni, l’Opera
penetrava in ogni casa di città e di campagna, allo scopo di vigilare
sulla salute oltre che sulle condizioni sociali, educative, morali
dell’infanzia e di prevenire ogni suo male mediante visite consultoriali
a domicilio, frequenti e pronti interventi assistenziali. Una fitta
rete di istituzioni funzionava ovunque: 3592 consultori ostetrici; 4347
consultori pediatrici; 167 asili nido; 1126 dispensari di latte; 1080
refettori materni e 300 Case della Madre e del Bambino svolgevano un
lavoro in profondità oltre che in estensione. I numeri citati
appartengono all’anno 1942, e paragonati ai nostri giorni, non possono
che suscitare una certa invidia. La mortalità infantile che nel 1922 era
di 126 per mille, nel 1940 è discesa al 97. I nati morti nel ‘22 erano
il 4,5%, nel 1940 sono stati del 3%.
L’azione del Regime non conosceva soste in quel campo. In una seduta del
3 marzo del 1937 il Gran Consiglio del Fascismo fissava le direttive
della politica demografica ispirandosi alle idee ripetutamente enunciate
già da Mussolini ed in parte attuate. Decideva, tra l’altro,
un’assoluta preferenza nei lavori e negli impieghi ai padri con numerosi
figli, “poiché sulle famiglie numerose ricadono, in tempi eccezionali
per la Patria, i pesi dei sacrifici e il maggior contributo di uomini”;
una metodica politica del salario famigliare (a pari categoria di lavoro
e a pari rendimento, reddito proporzionato agli oneri di famiglia); una
revisione delle provvidenze demografiche in atto per imprimere loro un
carattere più efficace ad assicurare stabilmente la vita delle famiglie
numerose; l’istituzione di prestiti per matrimoni e di assicurazioni
dotalizie per giovani lavoratori, già previste dalla Carta del Lavoro;
la costituzione di una Associazione nazionale per le famiglie numerose;
la revisione delle circoscrizioni provinciali e comunali in base ai
risultati del censimento del 1941, sopprimendo Comuni e Province dove
una popolazione invecchiata e rarefatta non avesse avuto più bisogno di
pubblici istituti; la costituzione di un organo centrale di controllo e
di propulsione della politica del Regime nel settore demografico. Queste
direttive davano ragione dell’azione organica intrapresa dal Fascismo
sin dai primi tempi. Le imposte di successione colpivano soltanto le
trasmissioni dei beni in favore del figlio unico e fra gli sposi senza
prole, mentre erano esenti da ogni tributo quelle che si riferivano a
due o più figli (!). Non diversamente per le imposte, che erano
notevolmente alleggerite o addirittura abolite (!) per le famiglie
numerose. Nell’assegnazione dei case popolari la preferenza alle
famiglie numerose era assoluta. Un po’ come oggi, quando ai richiedenti
si preferisce un’altra cittadinanza o parametri impossibili.
Il celibato non era ben visto nella vita pubblica fascista. Infatti, i
celibi fra i 25 e i 65 anni venivano colpiti da imposte personali e
progressive, ed erano esclusi da numerosi uffici pubblici; non potevano,
ad esempio, essere podestà, vicepodestà o consiglieri comunali,
presidenti e vicepresidenti delle assemblee provinciali nonché
consiglieri nazionali. Nelle amministrazioni dello Stato, i celibi non
potevano essere promossi oltre un certo grado.
La difesa della famiglia era il fondamento della politica demografica,
che, per essere veramente efficace, doveva favorire la formazione di
nuovi nuclei. A questo miravano due istituzioni: i premi di nuzialità e
di natalità e i prestiti famigliari. Questi provvedimenti interessavano
una vastissima zona della popolazione: dipendenti statali, operai,
impiegati privati, professionisti, artisti, piccoli proprietari, piccoli
commercianti. Qualunque cittadino italiano, che avesse contratto
matrimonio entro l’età stabilità (32 anni per gli ufficiali e gli
impiegati, 30 per i salariati) poteva ottenere il premio di nuzialità,
qualora fosse appartenuto alla numerosa classe dei dipendenti dello
Stato, o il prestito famigliare, qualora non fosse appartenuto a tale
classe e il suo reddito globale non avesse superato le 12.000 lire
annue. La concessione dei prestiti famigliari, secondo le precise e
categoriche disposizioni del Governo dell’epoca, doveva effettuarsi con
la massima larghezza, a norma di una circolare ministeriale del 23
novembre del 1937.
La tutela del lavoratore è stata attuata secondo norme rigorosamente
scientifiche. In linea pregiudiziale,moccorre segnalare l’umana
preoccupazione di contenere il lavoro in termini fisiologici. In altre
parole, si era voluto che la quantità di energia spesa nello sforzo
quotidiano fosse subordinata a due condizioni. In primo luogo, che fosse
in relazione all’età del soggetto; in secondo luogo, che potesse essere
normalmente reintegrata con l’alimentazione e col riposo. Leggendo ora
questi criteri faranno sorridere, ma per l’epoca si tratta di
un’avanguardia assoluta.
Gli orari di lavoro sono stati oggetto di speciali provvedimenti. Nel
1933 l’Italia aderì alla Convenzione di Washington, che stabiliva la
giornata di otto ore e la settimana di quarantotto. Successivamente,
nell’intento di addivenire ad una più razionale distribuzione della
manodopera, le Confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori
dell’industria firmavano una convenzione (5 novembre del 1934) che
riduceva l’orario di lavoro entro il limite di quaranta ore settimanali;
aboliva il lavoro straordinario; sostituiva, laddove fosse necessario e
possibile, la manodopera femminile con quella maschile, la minorile con
l’adulta; limitava nel campo impiegatizio il lavoro delle donne e dei
fanciulli alle prestazioni ad essi più convenienti; sostituiva il
personale appartenente alla categoria dei pensionati con i disoccupati
(l’opposto di oggi, dove un pensionato deve lavorare fino alla morte);
integrava il salario dei prestatori d’opera che lavoravano ad orario
ridotto o che avessero una famiglia a carico, mediante la costituzione
di una Cassa nazionale di integrazione per assegni famigliari. Il riposo
settimanale era di ventiquattro ore consecutive, per la prima volta
obbligatorio, e doveva, laddove non lo vietassero ragioni di forza
maggiore essere praticato di domenica (anche in questo caso, l’opposto
dei nostri giorni, viste le neo – tendenze “tecniche”). Un’apposita
legge (26 aprile 1934) disciplinava il lavoro delle donne e dei
fanciulli. Questi ultimi non potevano essere adibiti al lavoro dove non
risultasse, in base a certificato medico, che non fossero sani ed idonei
al lavoro; era vietata l’occupazione dei fanciulli e delle donne
minorenni in lavori pericolosi, faticosi ed insalubri; erano vietati il
trasporto ed il sollevamento di pesi eccessivi. Egualmente vietato,
nelle aziende industriali, era il lavoro notturno per tutte le donne e
per i minori di 18 anni. Per quanto riguardava la durata del lavoro dei
fanciulli e delle donne, la legge fissava a sei ore la durata massima
senza interruzione.
Severamente tutelata era l’igiene del lavoro, in virtù del R.D. Del 14
aprile 1927. Chiunque intendesse “costruire, ampliare o adattare un
edificio od un locale per adibirlo a lavorazioni industriali in cui
debbano presumibilmente essere addetti più di cinque operai”, ne doveva
dare notizia al competente Ispettorato corporativo (art. 40).
La tutela morale del lavoratore trovava una garanzia nel “Libretto del
Lavoro”, istituito con la legge del 1° gennaio 1935. In quel documento
venivano indicate e specificate tutte le condizioni del prestatore
d’opera, compresi il grado di istruzione, l’idoneità al lavoro, la
qualifica professionale, l’attività esplicata, l’ammontare delle
retribuzioni, gli infortuni subiti, le malattie professionali contratte
in servizio e la durata delle assenze conseguenti.
La condizioni dell’operaio italiano, dopo venti anni di Fascismo, erano
grandemente migliorate, sotto ogni punto di vista. Innanzitutto, il suo
suo salario medio era adeguato al costo della vita. Tuttavia, accanto al
salario apparente, ne esisteva uno effettivo, che lo superava in
maniera sensibile. Alla formazione del salario reale concorrono numerose
prestazioni in natura e facilitazioni di ogni genere nei diversi
servizi sociali. E proprio queste il regime ha curato maggiormente. Fra
queste facilitazioni, alcune sono dei capolavori di genialità e di
praticità. Ad esempio, il Dopolavoro, rappresentava una delle più belle
ed originali creazioni del Fascismo. Veniva fondato da Mussolini nel
maggio del 1925. L’enunciazione del suo programma era semplice e chiara,
dovendo “promuovere la costituzione, il coordinamento e la propulsione
di istituti atti ad elevare fisicamente, intellettualmente e moralmente i
lavoratori intellettuali e manuali nelle ore libere”. Gli iscritti
all’O.N.D. potevano contarsi nel 1942 in 4.612.294 persone e le
organizzazioni dipendenti 23.362. La previdenza e l’assistenza ai
lavoratori erano due capisaldi della Carta del Lavoro, che in quattro
dichiarazioni (26, 27, 28, 29) ne precisava i fini e le modalità. Il
Fascismo attuava nella maggior misura questi imperativi della
solidarietà sociale. All’istituto nazionale fascista per la previdenza
sociale (per chi non intendesse, l’odierno I.N.P.S., vivo e vegeto,
senza la “f” di fascista) venivano affidate l’assicurazione contro la
disoccupazione, l’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi,
l’assicurazione obbligatoria per la maternità, la previdenza per la
gente di mare. Le legge riguardante l’invalidità e la vecchiaia dei
lavoratori veniva riformata nel 1939, in occasione del ventennale del
Fascismo. “Intendo – dichiarava il Duce – che la celebrazione del primo
ventennale del Fascismo coincida con un forte passo innanzi sulla strada
della legislazione sociale, accorciatrice delle distanze”.
L’assicurazione si estendeva a tutti coloro che lavoravano alle
dipendenze di altri, esclusi gli impiegati il cui stipendio mensile
avesse superato le 1500 lire. Essa comprendeva, quindi, i lavoratori
salariati senza limite di guadagno e i piccoli impiegati appartenenti
all’industria, al commercio, ai servizi pubblici, all’agricoltura
(esclusi i mezzadri e i piccoli affittuari) e ai servizi domestici. Per
volere del Duce il limite di età per le pensioni veniva abbassato da 65 a
60 anni per gli uomini (per alcune categorie 55), da 60 a 55 per le
donne. Lo annotino “i tecnici”, gentilmente! Contrariamente a quanto era
stabilito nelle legislazioni straniere, la pensione alla vedova non era
condizionata né al requisito di una data età raggiunta, né al requisito
dell’incapacità di lavoro. L’assicurazione per l’invalidità e la
vecchiaia e per i superstiti acquistava, così, uno stretto carattere di
assicurazione di famiglia.
Di fronte al problema della disoccupazione involontaria, il Fascismo ha
scelto direttive di marcia differenti da quelle degli altri paesi. Ha
contenuto in limiti modesti il sussidio di disoccupazione. Con ciò ha
voluto impedire che potesse venire, in pratica, un comodo surrogato del
salario. Nel campo agricolo la disoccupazione che non beneficiava
dell’assicurazione obbligatoria, è stata efficacemente combattuta
mediante una severa distribuzione della manodopera, imponente alla
proprietà fondiaria di assumere dei lavoratori in proporzione
all’estensione dei terreni.
Ma è nella lotta contro la tubercolosi, dimenticata dalla storiografia,
che il Fascismo ha attuato i suoi principi totalitari. La Carta del
Lavoro, nella Dichiarazione XXVII, aveva nettamente enunciato il
programma, disponendo “l’assicurazione della malattie professionali e
della tubercolosi come avviamento all’assicurazione generale contro
tutte le malattie”. Il problema si presentava come uno dei più gravi.
V’erano gli aspetti profilattico, organizzativo e finanziario. Il Regime
l’ha affrontato risolutamente e con metodo. Ha deciso, innanzitutto,
l’assicurazione obbligatoria. Nel 1942 erano di fatto assicurati circa
otto milioni di lavoratori dell’industria, dell’agricoltura, del
commercio e delle altre categorie professionali.; ma l’assicurazione
avrebbe mancato al suo scopo se non avesse incluso nella sua sfera
d’azione anche i famigliari degli assicurati. Raggiungeva così, i
quindici milioni il numero delle persone tutelate contro la tubercolosi
dall’ordinamento assicurativo. Sono da aggiungere 400 mila famiglie
mezzadrili e coloniche – con un complesso di tre milioni di componenti –
i maestri delle scuole elementari e i direttori didattici.
Nell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, il Fascismo ha
capovolto il tradizionale concetto del risarcimento, riguardato
unicamente come riparazione del danno individuale. Secondo la sua
concezione, il risarcimento è uno dei momenti, e nemmeno il più
saliente, dell’intero processo riparatore dell’unità lavorativa,
innestata nel grande quadro delle forze produttive della Nazione. Esso
chiudeva un trentennio di sterili discussioni e riconosceva nettamente
“l’identità sostanziale” di una causa lesiva concentrata (infortunio) e
di una causa lesiva diluita nel tempo (malattia professionale). Ha
pertanto ammesso la necessità di risarcire anche l’usura e il
deperimento lenti, dovuti, al pari della lesione istantanea, a
particolari influenze del ciclo produttivo.
Fin dal suo sorgere, il Fascismo poneva al primo piano il problema della
mutualità per le malattie. La Carta del Lavoro, nella Dichiarazione
XXVIII stabiliva che “nei contratti collettivi di lavoro sarà decisa,
quando sia tecnicamente possibile, la costituzione di Casse mutue per
malattia, con contributo dei datori di lavoro e dei prestatori d’opera,
da amministrarsi da rappresentati degli uni e degli altri, sotto la
vigilanza degli organi corporativi”.
I lavoratori iscritti alle Casse mutue nel settore industriale,
superavano, nel 1942, i tre milioni e i loro famigliari assommavano a
cinque milioni. Ma è nell’agricoltura che si manifestava la più intensa
attività assistenziale. Alla fine del 1939 u lavoratori agricoli ed i
loro famigliari iscritti alle Casse mutue toccavano la cifra di oltre
sette milioni. I contributi riscossi superavano i 109 milioni contro i
50 dell’anno precedente. Nel luglio del 1936 l’assicurazione
obbligatoria di maternità, già in vigore per le lavoratrici
dell’industria e del commercio, veniva estesa a tutte le categorie
addette ai lavori agricoli, compresi fra i 55 e i 60 anni di età.
Quest’opera che possiamo definire imponente di assistenza e solidarietà
sociale ha comportato l’erogazione di somme imponenti. Tuttavia non
c’era nessuno “spread” a fare da ricatto. Durante i venti anni del
Regime le somme erogate per invalidità e vecchiaia, tubercolosi,
disoccupazione, nuzialità e natalità, assegni famigliari, trattamenti
degli impiegati privati richiamati alle armi, trattamenti operai
dell’industria richiamati, integrazione guadagni operai industria
lavoranti ad orario ridotto, prestiti matrimoniali, hanno toccato la
cifra di 25 miliardi, 896 milioni e 787.962 lire. Per la mutualità
malattie sono stati erogati 3 miliardi, 841 milioni e 6321.462 lire. Per
le assicurazioni infortuni 4 miliardi, 413 milioni e 114.486 lire. La
differenza tra i fondi, in una nazione che all’epoca era più povera
forse di oggi, e la nostra, è forse la BCE? Il FMI?
Questo grandioso programma di legislazione sociale non esaurisce l’opera
spiegata dal Regime solo nella solidarietà nazionale. La bonifica
integrale, l’autarchia, la Carta della Scuola, l’organizzazione
giovanile, le opere pubbliche, la colonizzazione della Libia (volenti o
dolenti), la riforma dei Codici, sono altrettanti aspetti di
quell’azione, vasta e profonda, che Mussolini ha voluto, indicato ed
attuato per il rinnovamento e la prosperità dell’Italia. E ciò non si è
fermato al Fascismo Regime, bensì è continuato durante la Repubblica
Sociale Italia, le cui conquiste sociali sono spiegate molto spesso ed
in maniera eccellente da Maurizio Barozzi.
Bertinotti, tecnici vari, tecnocrati, mi auguro che possiate leggere. Tacere ed ammirare.
http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=14296http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=14296
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