lunedì 14 maggio 2012

I CAMPI DEI VINTI


IN UN LIBRO DI PAOLO LEONE, LA STORIA DEI CAMPI DI PRIGIONIA ALLEATI IN ITALIA -

di Gianandrea de Antonellis

Si parla di campi di concentramento ed il pensiero corre subito alla Germania nazista. In realtà l’utilizzo di campi per raccogliere i prigionieri risale all’Ottocento e è proprio l’Italia ad avere questo triste primato: infatti, ben prima che i Britannici ne realizzassero per internarvi gli Afrikaneer durante la Seconda Guerra Anglo-Boera (1899-1902), il neonato Stato italiano utilizzò alcune fortezze, come San Maurizio Canavese e Fenestrelle, per deportarvi nel 1861 i militari borbonici che avevano rifiutato di prestare giuramento al nuovo re, Vittorio Emanuele II.
Durante la seconda guerra mondiale anche l’Italia vide sorgere alcuni campi di concentramento nel periodo dell’occupazione tedesca ed in quello della conquista alleata; ma se è ben nota la vicenda dei prigionieri italiani nei lager tedeschi e lo sta diventando anche quella nei campi di concentramento statunitensi, molto meno nota è la vicenda dei campi di prigionia alleati in Italia.
Unica, relativa eccezione è il caso di Coltano, nei pressi di Pisa, celebre per aver “ospitato” in una gabbia esposta alle intemperie il più grande poeta statunitense del XX secolo, Ezra Pound, prima che i suoi connazionali decidessero di etichettarlo come pazzo, unico mezzo per giustificare la sua simpatia nei confronti del regime di Mussolini.
Considerando l’Italia “cobelligerante” e non “alleata”, nell’armistizio le autorità alleate posero una clausola per cui avevano la facoltà di internare tutte le persone che a loro insindacabile giudizio potevano essere sospettate di pericolosità per le forze armate, stabilendo tre categorie di soggetti “a rischio”: al primo posto gli alti funzionari (ex gerarchi fascisti, ministri e sottosegretari, funzionari di partito, podestà delle città più popolose, giudici superiori, segretari comunali, etc.) da internare e a disposizione dell’autorità italiana; al secondo i funzionari di secondo grado (rettori di università, presidenti delle Corti di Cassazione, dei Conti e dello Stato, podestà delle città inferiori a 50.000 abitanti, etc.), parimenti da internare, ma non a disposizione delle autorità italiane; infine una terza categoria (docenti universitari, giudici inferiori, viceprefetti, etc.), per cui era previsto il licenziamento, ma non la prigionia.
Gli arresti iniziarono immediatamente dopo lo sbarco in Sicilia ed in pochi mesi il numero di prigionieri salì tanto da far nascere piccoli campi improvvisati in Puglia. 
Ma il problema era divenuto tale che nacque l’idea di un campo capace di contenere migliaia di prigionieri. E a tale scopo fu individuata la Certosa di Padula (SA), in cui sorse il campo “371 PW”, che arrivò ad ospitare oltre 2.500 persone, stipate a gruppi di 20 per ogni cella (in origine pensata per un solo monaco). In mezzo a pezzi grossi (ex ministri, sottosegretari, alti gradi dell’esercito e della polizia, etc.), ma soprattutto ad una folla di lavoratori e di modesti impiegati, i prigionieri più famosi furono Achille Lauro e lo scrittore Paolo Orano (che vi trovò la morte). Il trattamento loro riservato non differiva molto da quello dei lager tedeschi per militari, soprattutto nel periodo del primo comandante, il maresciallo Marshall, che si affidò a brutali truppe indiane per mantenere la disciplina. 
Fu il successore, il colonnello Menchin, che tra l’altro era cattolico, a migliorare la situazione dei prigionieri, facendoli trattare più umanamente. E, a proposito di religione, ed il memoriale di un ex detenuto, riproposto integralmente in appendice, sottolinea come in una simile situazione proprio l’assistenza spirituale fosse fondamentale per i prigionieri: «Vi è chi intensifica le pratiche religiose e chi le smette; chi crede e chi dubita per la prima volta; anime che si salvano ed anime che si perdono. […] La fame di letture che distingue il prigioniero indurrebbe a leggere e meditare questi libri [di preghiere] anche ai più restii, anche agli increduli, purché il libro fosse fatto bene […]» (p. 189).

Un campo di sterminio a Genova?

A fianco dei campi per civili, di cui Padula non fu l’unico esempio, sorsero campi per i militari: il più noto fu quello di Coltano, che arrivò ad accogliere oltre 32.000 prigionieri, mentre il più famigerato fu il POW S Camp di S. Andrea, nei pressi di Taranto, che funzionò fino al 1946, dove furono rinchiusi oltre 10.000 prigionieri militari italiani e dove le condizioni di internamento erano pessime – esisteva anche una “zona di punizione” consistente in un campo interamente ricoperto di sassi aguzzi dove i prigionieri venivano relegati senza scarpe per giorni interi.
L’autore individua 101 campi per militari, attraverso cui transitarono oltre 50.000 prigionieri. Ci fu anche un “campo di eliminazione”: la cosiddetta “Colonia degli orrori”, a Rovegno, presso Genova, gestito non dall’autorità militare, ma dai partigiani, in cui vennero eliminati e fatti sparire almeno 160 militari. 
Ma su questo punto Leone non si sofferma, forse volendo affidarne l’approfondimento ad un’opera autonoma: del resto non si trattava di un campo di concentramento, ma di un vero e proprio campo di sterminio.
Ovviamente l’autore non vuole mettere sullo stesso piano i campi di concentramento con i lager o con i gulag, ma ritiene ingiusto «ignorare le condizioni di vita e di internamento, per molti mesi fuori dalle garanzie stabilite dalla convenzione di Ginevra, in cui furono costretti migliaia di italiani, anche successivamente al termine del conflitto» (p. 177).

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