IN UN LIBRO DI PAOLO LEONE, LA STORIA DEI CAMPI DI PRIGIONIA ALLEATI IN ITALIA -
di Gianandrea de Antonellis
Si parla
di campi di concentramento ed il pensiero corre subito alla Germania
nazista. In realtà l’utilizzo di campi per raccogliere i prigionieri
risale all’Ottocento e è proprio l’Italia ad avere questo triste
primato: infatti, ben prima che i Britannici ne realizzassero per
internarvi gli Afrikaneer durante la Seconda Guerra Anglo-Boera
(1899-1902), il neonato Stato italiano utilizzò alcune fortezze, come
San Maurizio Canavese e Fenestrelle, per deportarvi nel 1861 i militari
borbonici che avevano rifiutato di prestare giuramento al nuovo re,
Vittorio Emanuele II.
Durante
la seconda guerra mondiale anche l’Italia vide sorgere alcuni campi di
concentramento nel periodo dell’occupazione tedesca ed in quello della
conquista alleata; ma se è ben nota la vicenda dei prigionieri italiani
nei lager tedeschi e lo sta diventando anche quella nei campi di
concentramento statunitensi, molto meno nota è la vicenda dei campi di
prigionia alleati in Italia.
Unica,
relativa eccezione è il caso di Coltano, nei pressi di Pisa, celebre per
aver “ospitato” in una gabbia esposta alle intemperie il più grande
poeta statunitense del XX secolo, Ezra Pound, prima che i suoi
connazionali decidessero di etichettarlo come pazzo, unico mezzo per
giustificare la sua simpatia nei confronti del regime di Mussolini.
Considerando
l’Italia “cobelligerante” e non “alleata”, nell’armistizio le autorità
alleate posero una clausola per cui avevano la facoltà di internare
tutte le persone che a loro insindacabile giudizio potevano essere
sospettate di pericolosità per le forze armate, stabilendo tre categorie
di soggetti “a rischio”: al primo posto gli alti funzionari (ex
gerarchi fascisti, ministri e sottosegretari, funzionari di partito,
podestà delle città più popolose, giudici superiori, segretari comunali,
etc.) da internare e a disposizione dell’autorità italiana; al secondo i
funzionari di secondo grado (rettori di università, presidenti delle
Corti di Cassazione, dei Conti e dello Stato, podestà delle città
inferiori a 50.000 abitanti, etc.), parimenti da internare, ma non a
disposizione delle autorità italiane; infine una terza categoria
(docenti universitari, giudici inferiori, viceprefetti, etc.), per cui
era previsto il licenziamento, ma non la prigionia.
Gli
arresti iniziarono immediatamente dopo lo sbarco in Sicilia ed in pochi
mesi il numero di prigionieri salì tanto da far nascere piccoli campi
improvvisati in Puglia.
Ma il problema era divenuto tale che nacque l’idea di un campo capace di contenere migliaia di prigionieri. E a tale scopo fu individuata la Certosa di Padula (SA), in cui sorse il campo “371 PW”, che arrivò ad ospitare oltre 2.500 persone, stipate a gruppi di 20 per ogni cella (in origine pensata per un solo monaco). In mezzo a pezzi grossi (ex ministri, sottosegretari, alti gradi dell’esercito e della polizia, etc.), ma soprattutto ad una folla di lavoratori e di modesti impiegati, i prigionieri più famosi furono Achille Lauro e lo scrittore Paolo Orano (che vi trovò la morte). Il trattamento loro riservato non differiva molto da quello dei lager tedeschi per militari, soprattutto nel periodo del primo comandante, il maresciallo Marshall, che si affidò a brutali truppe indiane per mantenere la disciplina.
Fu il successore, il colonnello Menchin, che tra l’altro era cattolico, a migliorare la situazione dei prigionieri, facendoli trattare più umanamente. E, a proposito di religione, ed il memoriale di un ex detenuto, riproposto integralmente in appendice, sottolinea come in una simile situazione proprio l’assistenza spirituale fosse fondamentale per i prigionieri: «Vi è chi intensifica le pratiche religiose e chi le smette; chi crede e chi dubita per la prima volta; anime che si salvano ed anime che si perdono. […] La fame di letture che distingue il prigioniero indurrebbe a leggere e meditare questi libri [di preghiere] anche ai più restii, anche agli increduli, purché il libro fosse fatto bene […]» (p. 189).
Ma il problema era divenuto tale che nacque l’idea di un campo capace di contenere migliaia di prigionieri. E a tale scopo fu individuata la Certosa di Padula (SA), in cui sorse il campo “371 PW”, che arrivò ad ospitare oltre 2.500 persone, stipate a gruppi di 20 per ogni cella (in origine pensata per un solo monaco). In mezzo a pezzi grossi (ex ministri, sottosegretari, alti gradi dell’esercito e della polizia, etc.), ma soprattutto ad una folla di lavoratori e di modesti impiegati, i prigionieri più famosi furono Achille Lauro e lo scrittore Paolo Orano (che vi trovò la morte). Il trattamento loro riservato non differiva molto da quello dei lager tedeschi per militari, soprattutto nel periodo del primo comandante, il maresciallo Marshall, che si affidò a brutali truppe indiane per mantenere la disciplina.
Fu il successore, il colonnello Menchin, che tra l’altro era cattolico, a migliorare la situazione dei prigionieri, facendoli trattare più umanamente. E, a proposito di religione, ed il memoriale di un ex detenuto, riproposto integralmente in appendice, sottolinea come in una simile situazione proprio l’assistenza spirituale fosse fondamentale per i prigionieri: «Vi è chi intensifica le pratiche religiose e chi le smette; chi crede e chi dubita per la prima volta; anime che si salvano ed anime che si perdono. […] La fame di letture che distingue il prigioniero indurrebbe a leggere e meditare questi libri [di preghiere] anche ai più restii, anche agli increduli, purché il libro fosse fatto bene […]» (p. 189).
Un campo di sterminio a Genova?
A fianco
dei campi per civili, di cui Padula non fu l’unico esempio, sorsero
campi per i militari: il più noto fu quello di Coltano, che arrivò ad
accogliere oltre 32.000 prigionieri, mentre il più famigerato fu il POW S
Camp di S. Andrea, nei pressi di Taranto, che funzionò fino al 1946,
dove furono rinchiusi oltre 10.000 prigionieri militari italiani e dove
le condizioni di internamento erano pessime – esisteva anche una “zona
di punizione” consistente in un campo interamente ricoperto di sassi
aguzzi dove i prigionieri venivano relegati senza scarpe per giorni
interi.
L’autore
individua 101 campi per militari, attraverso cui transitarono oltre
50.000 prigionieri. Ci fu anche un “campo di eliminazione”: la
cosiddetta “Colonia degli orrori”, a Rovegno, presso Genova, gestito non
dall’autorità militare, ma dai partigiani, in cui vennero eliminati e
fatti sparire almeno 160 militari.
Ma su questo punto Leone non si sofferma, forse volendo affidarne l’approfondimento ad un’opera autonoma: del resto non si trattava di un campo di concentramento, ma di un vero e proprio campo di sterminio.
Ma su questo punto Leone non si sofferma, forse volendo affidarne l’approfondimento ad un’opera autonoma: del resto non si trattava di un campo di concentramento, ma di un vero e proprio campo di sterminio.
Ovviamente
l’autore non vuole mettere sullo stesso piano i campi di concentramento
con i lager o con i gulag, ma ritiene ingiusto «ignorare le condizioni
di vita e di internamento, per molti mesi fuori dalle garanzie stabilite
dalla convenzione di Ginevra, in cui furono costretti migliaia di
italiani, anche successivamente al termine del conflitto» (p. 177).
Nessun commento:
Posta un commento