lunedì 7 maggio 2012

Comunismo e cannibalismo.

Il cannibalismo era largamente diffuso nelle più importanti dittature comuniste e, contrariamente a quanto si pensi, i motivi non erano solo dovuti alla fame provocata dalla dissennate riforme comuniste, ma all’ideologia.
A dirlo non è Silvio Berlusconi, oggetto di irrisione per avere più volte ripetuto il vecchio slogan  secondo cui "i comunisti mangiavano i bambini".
Esiste, infatti, una vasta letteratura al riguardo.
Ne ha parlato il Prof. Massimo Introvigne in un articolo che riporto di seguito con il consenso dell'Autore che per questo ringrazio.
Eppure i comunisti mangiavano davvero i bambini, di Massimo Introvigne
Ripubblico un mio testo di qualche anno fa, avendo letto dichiarazioni - di chi vuole giustificare alleanze elettorali con reduci del Partito Comunista - secondo cui "neanche più Berlusconi crede che i comunisti mangiassero i bambini". Io ci credo. Ci credevano anche Stalin e i giudici della Repubblica Popolare Cinese: leggere per credere.

Isola di Nazino, Siberia, 1933: nel cuore di ghiaccio di Kostia Venikov, uno degli aguzzini della polizia politica sovietica GPU (e un personaggio per altri versi dimenticato, così che se ne ignorano le date di nascita e di morte), spunta un sentimento umano. La guardia s’innamora di una giovanissima deportata, poco più di una bambina. Conoscendo i suoi commilitoni, quando si allontana dall’isola teme il peggio: e il peggio succede. Violentata? No: mangiata. «Le hanno tagliato il petto, i muscoli, tutto quello che si mangia, tutto, tutto...» (Werth 2006, 10). Parole di Silvio Berlusconi, un uomo politico oggetto di un’irrisione quasi passata in proverbio per avere più volte ripetuto il vecchio slogan di campagne elettorali democristiane d’altri tempi secondo cui «i comunisti mangiavano i bambini»? No: di Iosif Stalin (1878-1953), o meglio di una commissione da lui nominata per accertare se è vero quanto gli scrive il compagno siberiano Vassilii Arsenievich Velichko (1908-?) a proposito di guardie – e deportati – che si mangiano altri deportati in Siberia, donne e bambini compresi. La campagna lanciata da Stalin nel 1932 che incita i membri del Partito a scrivergli personalmente e denunciare i loro superiori non è mera propaganda: Stalin legge le lettere, e nel caso di quella di Velichko indaga. Ma solo nel 2006 dalla miniera di orrori degli archivi sovietici sono usciti i lavori di quella commissione d’indagine, utilizzati in Francia da uno dei massimi storici dell’URSS, Nicolas Werth per il suo volume L’isola dei cannibali (Werth 2006).

I fatti di Nazino si inquadrano nel progetto della Gpu di affiancare ai campi di lavoro – i famosi GULag – un secondo girone infernale di località inospitali della Siberia dove assegnare a domicilio coatto, muniti solo di un sacco di utensili e sementi, due milioni di «elementi antisovietici» non condannati ai campi. Si tratta di «purificare la società socialista» espellendo dalle grandi città e dalle località di villeggiatura – dove la loro vista infastidisce gerarchi e visitatori – non solo eventuali «nemici di classe» superstiti (ex proprietari, sacerdoti, dissidenti) ma anche gli invalidi, i vecchi decrepiti, i mendicanti. La tecnica per prelevare milioni di persone e mandarle ai luoghi di domicilio coatto è la «passaportizzazione»: diventa obbligatorio circolare con il passaporto dovunque e a qualunque ora, e chi è troppo vecchio, debole o ignorante per procurarsi un passaporto è deportato.

In Siberia – ma anche altrove – le strutture di accoglienza per i deportati sono inesistenti, e le guardie della GPU sono spesso sadici criminali. Nell’isola di Nazino, dove nel 1933 si ammassano seimila deportati e ne muoiono cinquemila, la commissione scoprirà che il comandante s’ingozza di dolci di fronte a persone che non mangiano da giorni, e il suo vice usa i deportati come «cani da riporto» gettandoli nelle acque gelide del fiume perché vadano a riprendergli le anatre che ha abbattuto (Werth 2006, 130). Peggio, giacché il cibo manca anche per le guardie, si passa senza vergogna al cannibalismo, prima sui cadaveri, poi anche sui vivi: una donna cui sono stati staccati i seni per mangiarli sarà trovata ancora viva dalla commissione ma passerà il resto della sua vita in manicomio.

Si potrebbe dire che in questo caso almeno il sistema reagisce, e Stalin stesso indaga. Ma la conclusione del tiranno sarà terribile. Se i deportati non riescono a sopravvivere, per evitare episodi incresciosi c’è una soluzione semplicissima: fucilarli tutti. Nel luglio 1937, il famigerato Ordine 00447 distingue i deportati sopravvissuti in due categorie. La maggioranza – ottocentomila persone – è fucilata nei mesi successivi, gli altri sono condannati a dieci anni di GULag.

Deviazioni dello «stalinismo», che non toccano l’essenza del comunismo? Trent’anni dopo il comunismo ha prodotto gli stessi frutti nella Cina di Mao Tse-tung (1893-1976). Nell’agosto 1966 comincia in Cina la rivoluzione culturale, cioè la distruzione sistematica della cultura cinese. Tre milioni d’intellettuali e membri di gruppi sociali «sospetti» sono uccisi, e cento milioni di cinesi incarcerati o deportati. Basta avere in casa un libro non marxista per rischiare la deportazione o peggio.

Agghiacciante è in particolare la lettura del capitolo sulla rivoluzione culturale della mirabile biografia Mao la storia sconosciuta della grande scrittrice cinese Jung Chang, scritta in collaborazione con Jon Halliday (Chang e Halliday 2006) – una lettura obbligatoria nonostante la mole (960 pagine) per chiunque voglia capire il comunismo cinese –, che rimanda a un’opera, purtroppo mai tradotta in italiano, del dissidente cinese Zheng Yi pubblicata nel 1996 negli Stati Uniti dall’autorevole Westview Press (Zheng Yi 1996).

Dopo la morte di Mao, senza troppa pubblicità, alcune commissioni d’inchiesta indagano sulle atrocità della rivoluzione culturale. Una lavora nel 1983 sulla contea di Wuxuan. Lo stesso Zheng Yi, un giornalista comunista che ha militato nelle Guardie Rosse, è inviato da un giornale di partito di Pechino con lettere di accreditamento ufficiale che invitano le autorità locali a mettersi a sua disposizione per un’inchiesta. All’epoca, Deng Xiao Ping (1904-1997), che al tempo della rivoluzione culturale era stato estromesso dalla dirigenza del partito, malmenato e mandato a lavorare in una fabbrica di trattori di provincia, dove è sfuggito per miracolo a un tentativo di assassinio, è diventato il padrone della Cina e ha interesse sia a screditare la «banda dei quattro» che ha promosso gli eventi del 1966, sia a far filtrare qualche cauta critica allo stesso Mao Tse-tung che non lo ha certamente protetto.

Regnante Deng Xiao Ping, s’indaga sugli eccessi della rivoluzione culturale e migliaia di militanti che si sono resi colpevoli di atrocità sono incriminati. Il lavoro dei tribunali sembra serio, e molti vedono una franca indagine su quest’orribile passato come il preludio all’inevitabile democratizzazione. Ma la classe dirigente del Partito Comunista Cinese e lo stesso Deng la pensano diversamente. La repressione del movimento degli studenti in Piazza Tiananmen nel 1989 segna la fine della breve primavera di speranze democratiche in Cina.

Dopo Tiananmen, il regime si chiude su se stesso. Su Mao, responsabile secondo Jung Chang di settanta milioni di morti, si applica la «regola delle dieci dita», che sembra usata anche in Italia dai superstiti ammiratori del «Grande Timoniere» di Pechino: nove dita, insegnano i libri di scuola cinesi, lavoravano per il bene del popolo, una sfuggiva al controllo e deviava. Come ricordano Roderick MacFarquhar e Michael Schoenhals nella loro summa storica sulla rivoluzione culturale, Mao’s Last Revolution (MacFarquhar e Schoenhals 2006), gli storici cinesi e stranieri che indagano sulle atrocità, fino ad allora incoraggiati dal regime di Deng, improvvisamente trovano ostacoli. Gli archivi, che si erano miracolosamente aperti, si chiudono. Le istruttorie sono concluse frettolosamente e le condanne sono sorprendentemente lievi: meno di cento condanne a morte in tutta la Cina – un Paese che ha il record di pene capitali nel mondo, applicate anche a reati che non implicano la perdita di vite umane – per i massacri di massa della rivoluzione culturale, pene da cinque a quindici anni per i responsabili di autentici eccidi.

Un dramma nel dramma è quello costituito da una forma di cannibalismo che un sociologo non può non chiamare rituale, dove i «nemici del popolo» sono mangiati in adunate di massa, un fatto che in questa forma non ha precedenti neppure nella storia del comunismo. Gli archivi non sono più aperti ma molti documenti esistono ancora. A Zheng Yi dopo Tiananmen è vietato di pubblicare il suo libro in Cina. Ma riesce a farlo pubblicare a Taiwan prima di fuggire, ormai da ex-comunista, negli Stati Uniti. Il suo volume Scarlet Memorial resta così un monumento alle vittime di una delle peggiori atrocità del secolo XX, anche se l’indagine riguarda solo alcune prefetture, in particolare quella di Wuxuan, nella provincia sud-occidentale di Guangxi. Come riassume Jung Chang, a Wuxuan (e non solo lì) «il cannibalismo di solito veniva praticato nelle adunate di denuncia, il pezzo forte del regime maoista: le vittime venivano macellate e alcune parti scelte dei loro corpi, il cuore, il fegato e talvolta il pene asportate, spesso prima che i poveretti fossero morti, cucinate sul posto e mangiate in quelli che all’epoca erano chiamati “banchetti di carne umana”» (Chang e Halliday 2006, 639). Nel solo Guangxi, Zheng Yi calcola in almeno diecimila il numero dei «cannibalizzati» (Zheng Yi 1996).

Il caso del Guangxi è particolarmente clamoroso – e ha suscitato dopo la rivoluzione culturale il maggiore interesse a Pechino, con inchieste e processi – ma è certo che, forse non sulla stessa scala, il cannibalismo rituale comunista abbia celebrato i suoi orrendi fasti anche in altre province della Cina. L’aspetto straordinario delle vicende del Guangxi nasce però dal fatto che tutto è documentato non da una propaganda anticomunista, ma da inchieste e processi promossi all’epoca di Deng dallo stesso Partito Comunista Cinese.

Ove leggessero questi testi, i nostalgici di Mao italiani potrebbero ripensare alla loro reazione indignata quando nella campagna elettorale del 2006 Silvio Berlusconi parlò di cannibalismo con riferimento appunto alla Cina maoista. Romano Prodi chiese scusa alla Cina, e anche qualche esponente del centro-destra parlò di esagerazioni. La stessa difesa dei sostenitori di Berlusconi su qualche giornale era incompleta: si riferiva ai casi di cannibalismo nell’epoca precedente del Grande Balzo in Avanti, dovuti alla fame, non all’ideologia, anche se la fame era stata provocata dalle dissennate riforme di Mao. L’unicità degli episodi documentati da Zheng Yi e Yung Chang – anche rispetto ai casi della Russia staliniana più sopra evocati, dove certo erano le guardie a mangiare i detenuti e non viceversa, ma non è che avessero molto altro da mangiare – sta nel fatto che nella Cina della rivoluzione culturale nessuno moriva più di fame come negli anni 1950. I «banchetti di carne umana» non miravano a placare la fame, ma erano definiti «dimostrazioni esemplari di eliminazione», il cui scopo era terrorizzare ogni potenziale dissidente e infliggere al «nemico», cioè a chiunque la pensasse diversamente da Mao, e ai suoi figli, un trattamento che mostrasse a tutti che il regime non li considerava persone umane.

L’idea di «nemico» era molto ampia. Non erano «cannibalizzati» solo quanti erano stati iscritti a partiti diversi da quello comunista o erano discendenti di proprietari terrieri. Le stesse Guardie Rosse si erano divise in una «grande fazione» e in una «piccola fazione», e Mao stesso giocava sullo scontro per controllare meglio il movimento. Quando Mao si schiera decisamente con la «grande fazione» centinaia di membri delle Guardie Rosse, fedelissimi del «Grande Timoniere», sono a loro volta cannibalizzati. Zheng Yi considera l’aspetto più allucinante della sua inchiesta non il fatto che bambini (la cui carne è considerata più tenera e gustosa) siano mangiati di fronte ai genitori (e viceversa) e donne orrendamente torturate prima di finire sul tavolo dei «banchetti di carne umana», né che il cuore e il fegato dei «cannibalizzati» siano conservati per anni sotto sale per essere consumati più tardi quali prelibatezze dotate anche di presunti poteri curativi. No: quello che lo sconvolge è che – quando si tratta di Guardie Rosse della «piccola fazione» – queste si facciano macellare o strappare brandelli di carne mentre sono ancora vive gridando «Viva il Partito» o «Viva Mao», convinte che il Grande Timoniere ignori o disapprovi le atrocità. E invece – sul punto il libro di MacFarquhar e Schoenhals è implacabile quanto quello di Jung Chang – Mao non solo sa, ma organizza il terrore fino ai suoi limiti più estremi, nell’ambito di una complessa manovra per conservare un potere assoluto che gli sembra minacciato.

Ci sono stati altri casi di cannibalismo – come si è accennato, nei GULag siberiani e nella stessa Cina delle grandi carestie – nella storia di morte del comunismo. Ma quello della rivoluzione culturale è l’unico dove la fame non c’entra, non può essere invocata per fornire una qualunque difficile giustificazione. No: si mangiavano i bambini – e gli adulti, le donne, i vecchi – non per necessità alimentare, ma per celebrare un rito politico con toni a loro modo «religiosi». Gli unici precedenti – ma su scala numerica assai più ristretta – li troviamo nel cannibalismo, documentato dallo storico francese Reynald Secher, praticato dalle più fanatiche truppe della Rivoluzione francese ai danni dei rivoltosi cattolici vandeani (Secher 1983). Più che al governo cinese, qualcuno potrebbe chiedere scusa alle sue vittime. E, appurato che i comunisti mangiavano per davvero i «nemici di classe», bambini compresi, speriamo che non ci s’indigni più quando Mao è dipinto per quello che era: il maggiore assassino della storia, responsabile di settanta milioni di morti (Chang e Halliday 2006). Né ci si stupisca se «comunista» resterà, per molti e per sempre, una parola che odora di tortura, di strage e di sangue.

Riferimenti

Chang, Jun - Jon Halliday. 2003. Mao, la storia sconosciuta. Trad. it. Longanesi, Milano.

MacFarquhar, Roderick - Michael Schoenhals. 2007. Mao’s Last Revolution. The Belknap Press of Harvard University Press, Harvard (Massachusetts) - Londra.

Secher, Reynald. 1983. Le Génocide franco-français. La Vendée-Vengé. Presses Universitaires de France, Parigi [trad. it. Il genocidio vandeano, Effedieffe, Milano 1988].

Werth, Nicolas. 2006. L’Île aux cannibales. 1933: une déportation-abandon en Sibérie. Perrin, Parigi [trad. it. L’isola dei cannibali. Siberia, 1933: una storia di orrore all’interno dell’arcipelago gulag, Corbaccio, Milano 2007].

Zheng Yi. 1996. Scarlet Memorial. Tales of Cannibalism in Modern China. Westview Press, Boulder (Colorado).

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