La storia mai raccontata: l’impresa dei Mille di Garibaldi fu una truffa nei confronti dei Siciliani, ed ebbe lo scopo di annettere la Sicilia ad uno Stato che ancora non esisteva, in nome di una Unità che portava benefici soltanto al Nord
Carpita la buonafede del popolo isolano
l’analfabetismo fu la carta vincente di Cavour e dei suoi soci piemontesi
di Giuseppe Parisi
di Giuseppe Parisi
Alla
luce di così tanto interesse sulla questione siciliana che si è
accentuata in questi ultimi tempi, vogliamo narrare quanto accadde
in Sicilia quel famoso 21 ottobre del 1860, anniversario che è ricorso
proprio nei giorni scorsi, poiché ancora sono in tanti a non conoscere
la “verità” guardata da un diverso di punto di vista da quello
ufficiale, di quella pagina di storia che ci ha portato a ciò che siamo
oggi.
Al fine di essere il più possibile
chiari sulla questione, non possiamo esimerci d’iniziare senza
brevemente accennare ad alcune realtà sullo sbarco di Garibaldi, azione
che lo storico Mack Smith ha definito “la donchisciottesca spedizione di
Garibaldi e dei suoi Mille”, circa il modo rocambolesco di come avvenne
l’operazione. Innanzitutto, apparve chiaro che le operazioni
paramilitari di Garibaldi furono prive di validità giuridica perché a
quell’impresa mancò la credenziale di uno Stato ufficialmente
costituito e, quindi, la necessaria copertura di una bandiera.
Si trattò dunque, a nostro avviso, di
un’avventura paramilitare, personale e piratesca assolutamente illegale,
per usare un linguaggio in voga oggi. Sin dal primo momento, il popolo
siciliano ebbe seri dubbi sull’azione: si voleva realmente liberare la
Sicilia dalla dominazione borbonica, oppure si voleva compiere un’altra
vera e propria invasione?
Infatti,
quel giorno di maggio, quando a Marsala giunse Garibaldi con le sue
navi, in rada e alla fonda del porto trovò due cannoniere
della “Mediterranean Fleet” inglese: le HMS. “Argus” e “Intrepid”,
formalmente in visita di cortesia in Sicilia, ma in realtà giunte lì su
precise istruzioni del gabinetto Palmerston Russel; e mentre i
garibaldini del Piemonte erano già sbarcati e gli altri del “Lombardo”
si accingevano a imitarli, sopraggiunsero a Marsala la
pirocorvetta “Stromboli”, comandata da Guglielmo Acton, e due altri
piroscafi armati della stessa flotta borbonica, che si accorsero della
presenza sul molo di uomini in giubbe rosse e li scambiarono per i red
coats delle truppe inglesi. Allora, il comandante Acton, che aveva già
fatto armare i pezzi, fece chiedere agli inglesi se gli uomini armati
che si vedevano sul molo fossero truppe britanniche. Gli inglesi
risposero di no, e nel contempo, avvertirono Acton che i loro comandanti
si trovavano a terra. Acton, che rabbrividì al solo pensiero che una
scheggia di granata potesse colpire un ufficiale della regina
Vittoria, decise di attendere il loro ritorno sulle loro navi, e
solo dopo un’ora buona poté aprire il fuoco. Ma a quel punto, gli uomini
intravisti sul molo erano già al sicuro e ben nascosti dai tiri dello
“Stromboli” e dei piroscafi “Partenope” e “Capri”. Questi episodi della
prima ora di Garibaldi e dei Mille in Sicilia, la dicevano già allora
lunga e c’inducono oggi a ritenere che, se il capitano di fregata Acton
non fosse stato troppo fiducioso nella lealtà britannica e avesse
adempiuto al suo dovere di soldato, almeno la metà della spedizione che
approfittò di quell’ora per abbandonare il “Lombardo”, avrebbe fatto la
stessa fine che fecero nel 1857 i 300 di Carlo Pisacane, e forse la
storia che portò la Sicilia dall’una all’altra dominazione sarebbe
ancora tutta da scrivere.
D’altronde,
la perfidia e l’egoismo della diplomazia inglese, le sue riserve
mentali sul destino coloniale della Sicilia, nel maggio 1860, non
vennero compresi soltanto da quell’ufficiale borbonico che, dopo tutto,
passò al nemico prima ancora della capitolazione del proprio re, ma non
lo furono dagli stessi Siciliani nel 1812, nel ‘48, nel ‘60, e anche
nel 1943-45. La narrazione di quei fatti non ha lo scopo di fare
filosofia politica o di rifare la storia dell’impresa siciliana di un G
Garibaldi a cui il Foreign Office credette di riconoscere la stoffa del
Bolivar, di San Martin, di Artigas, di Espartero, la stoffa del
libertador sudamericano o iberico, anglofilo per inclinazione o per
necessità; né di dare spazio alla sterile e odiosa polemica
sull’estrazione tipicamente italica e nordista del contingente
originario dei cosiddetti Mille. Lo scopo è invece di chiarire lo status
che il nuovo invasore rivesti in Sicilia, succedendo
all’occupante borbonico. Giuseppe Garibaldi non prese mai in
considerazione il sacrosanto diritto dei siciliani alla libertà, né
volle riconoscere l’esistenza di quel partito costituzionale che
rappresentava l’opinione politica maggioritaria di essi. Non di meno,
i testi scolastici e la storiografia tradizionale tentano ancora, nel
2006, di far passare per verità la grossolana menzogna secondo cui egli
sbarcò nell’isola per aiutare il popolo siciliano a riprendere in mano
la disponibilità del proprio destino. Infatti, nel primo decreto fatto a
Salemi due giorni dopo lo sbarco, egli si autoproclamò “comandante in
capo delle forze nazionali in Sicilia” e affermò di “assumere nel
nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia,la Dittatura in Sicilia”.
Cioè, si attribuì, senza mezzi termini e
senza alcun equivoco, la posizione giuridica dell’occupante bellico e,
in particolare, dell’invasore il quale, per delega più o meno espressa
del non ancora re d’Italia, intendeva succedere al precedente invasore.
È dunque inoppugnabile che fin da questo suo primo decreto, egli
scartasse ogni pur minima concessione alla libertà dei siciliani, poiché
con la forza acquistava la sovranità del territorio che gradualmente
andava occupando. Contrariamente alla sua conclamata sensibilità di
“eroe della libertà dei popoli”, che avrebbe dovuto indurlo a scegliere
di concedere la legislazione e l’organizzazione che lo Stato di
Sicilia si era dato nel 1848-49, si comportò da invasore, sfruttando il
territorio occupato, distraendone le risorse finanziarie per i bisogni
di altri territori, di altre popolazioni, di altri Stati.
Gli eventi di quella triste pagina di
storia del popolo siciliano, che fu rapinato, saccheggiato,
umiliato, reso servo e trucidato dai liberatori garibaldini, non trova
spazio di approfondimento in questa brevissima narrativa che,
principalmente, è rivolta all’atto ben congegnato di annessione della
Sicilia. Infatti, il 2 giugno, il governo provvisorio garibaldino aveva
emanato da Palermo un decreto sulla divisione dei demani; ma non appena i
contadini passarono a reclamarne l’attuazione e a rivendicare anche
la quotizzazione delle terre demaniali acquistate illegalmente dai
commercianti e dai borghesi, fu proprio quel governo che cominciò ad
applicare contro di essi quegli altri decreti emanati dallo stesso
Dittatore in difesa della proprietà e degli interessi agrari della
borghesia e, per di più, adottando contro i poveri disillusi la
procedura sommaria dei Consigli di guerra distrettuali, istituiti con il
decreto del 20 maggio.
E se ciò costituì da un lato una
garanzia per la classe aristocratico-borghese, la quale inclinò subito
all’annessione pronta ed incondizionata, determinò dall’altro
la frattura definitiva tra quello pseudo-liberatore e il proletariato
dell’isola.
Inoltre,
le stragi contadine che Bixio e gli altri comandanti delle
colonne garibaldine consumarono a Bronte, a Nicosia, a Mascalucia, a
Nissoria, a Leonforte e a Biancavilla, sono il suggello e le
prove storiche più schiaccianti della politica filo-borghese e
reazionaria adottata fin dal primo momento dall’Eroe della libertà dei
popoli. Garibaldi mise subito in atto il desiderio del re che
“si compisse senza ritardo l’annessione”, e Depretis (pro-dittatore con
il decretò di Milazzo del 21 luglio) cominciò ad emanare tutta una serie
di provvedimenti allo scopo di far scomparire ogni residua possibilità
di autodeterminazione dei siciliani.
A tale proposito, ricordiamo in modo
specifico i provvedimenti politicamente e psicologicamente incisivi del
13 giugno, con il quale si abolì l’emblema nazionale
dell’Isola, sostituendolo con lo stemma sabaudo, come se la Sicilia
dovesse essere considerata d’ora innanzi un bene di quella Corona o
addirittura parte del patrimonio privato di quei re; quello del 16
giugno, che revocò le dogane tra l’Isola e le province italiane; quello
del 17 giugno, che impose alle navi siciliane la bandiera dello Stato
sabaudo; quello del 2 luglio, con il quale si stabili che gli effettivi
dell’esercito siciliano andavano a costituire la XV e la XVI divisione
dell’esercito piemontese; quello del 6 luglio, che dispose
l’intestazione di tutti gli atti pubblici a “Vittorio Emanuele II Re
d’Italia”, quando ancora non lo era; quelli del 5 e del 14 luglio, con i
quali gli uomini della Marina Militare siciliana furono incorporati
negli organici di quella Sarda.
Dal 3 agosto ad oltre la metà di
ottobre, anziché dare la pro-dittatura ad Antonio Mordini, si attuò una
vera e propria buriana di provvedimenti: l’estensione all’isola dello
Statuto Albertino; l’adozione della formula del giuramento di fedeltà a
Vittorio Emanuele Il e ai suoi reali successori; l’intestazione delle
leggi “in nome di S.M. Vittorio Emanuele Re d’Italia”; l’unificazione
monetaria; il riconoscimento alla pari dei gradi accademici conseguiti
fuori della Sicilia e nei pubblici concorsi svoltisi nell’isola. Vennero
recepiti pure i decreti piemontesi sull’ordinamento degli uffici di
Questura e sulla Pubblica sicurezza, come anche le leggi e i regolamenti
della marina mercantile sarda. Vennero estesi all’isola la legge
comunale e provinciale sarda del 23 ottobre 1859, il Codice penale
militare piemontese e la legge piemontese 16 novembre 1859 sulla
composizione degli uffici di Governo e d’Intendenza, sui gradi, le
classi, gli stipendi dei funzionari, degli impiegati e del personale di
segreteria. Questa pesante messe di disposizioni, è stato giustamente
osservato da De Stefano e Oddo, “metteva l’isola né più e né meno sul
medesimo piano delle province che avevano votato l’annessione al regno
sardo, e annullava e trasformava radicalmente istituzioni, uffici,
metodi inveterati e adeguati alle tradizioni isolane”. La
flebile opposizione radicale del gruppo crispino affogava dunque nella
marea di quei decreti e di quel “riordinamento amministrativo” che
costituirono la base politica e psicologica per il plebiscito di
annessione immediata. Quando però il 14 settembre Garibaldi si vide
costretto a Napoli, ad accettare le dimissioni di Depretis per
sciogliere il nodo del contrasto insorto tra la politica di quest’ultimo
e quella temporeggiatrice del gruppo dei radicali – contrasto che
aveva portato alle dimissioni dello stesso cervello politico del
Dittatore dal governo presieduto dal Depretis sembrò che tra il nuovo
prodittatore Mordini e i democratici e i moderati autonomisti chiamati
al ministero si potesse giungere alla mediocrità di un accordo di
massima sul futuro assetto costituzionale dell’Isola.
E in questo senso va interpretata la
decisione del 5 ottobre del Consiglio dei ministri, in base alla
quale Mordini decretò e promulgò la convocazione dei comizi elettorali
per l’elezione dei deputati che avrebbero dovuto stabilire in Palermo,
«in Assemblea, le condizioni dell’annessione».
Alle elezione avrebbero potuto
partecipare ora “tutti i cittadini” alfabetizzati e non esclusi dal
titolo di elettore, dai 21 anni in poi, come d’altronde aveva proposto
il decreto dittatoriale n 57 del 23 giugno, con il quale si richiamarono
ancora le stesse norme della legge elettorale promulgata dal Governo
siciliano del ’48 e caddero tutte quelle categorie del censo che erano
state ripristinate invece dal Borbone dopo il maggio ’49. Nel decreto
del 5 ottobre si premise che quei comizi avevano lo scopo di
«stabilire le condizioni di tempo e di modo, per entrare in seno alla
grande famiglia Italiana», e mentre l’art. 1 fissava le elezioni per il
21 ottobre, all’art. 14 si diceva: «Un’altro prossimo decreto indicherà
il giorno ed il luogo in cui i deputati eletti si debbano riunire
in Assemblea, nella città di Palermo». Non appena infatti pervenne anche
l’assenso definitivo del Dittatore che si trovava ad attendere sul
Volturno l’avanzata dell’esercito piemontese, il 9 ottobre il
governo Mordini decretò addirittura che alla data fatidica del 4
novembre “L’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo Siciliano” avrebbe
dovuto riunirsi in Palermo.
Lo stesso Mordini, nella nota
illustrativa del precitato decreto-diretta ai Governatori
dell’isola, dopo aver affermato che “il suffragio universale diretto è
la più irrecusabile consacrazione della volontà di un popolo”, volle
mettere in risalto il motivo per il quale il governo da lui presieduto
aveva scelto il ricorso all’Assemblea dei Rappresentanti e non
il suffragio diretto, abbandonandosi a queste candide confessioni: “Nel
ricevere dalle mani del Dittatore la delegazione dei suoi poteri
sull’Isola, io riconobbi la esistenza di elementi di discordia alla
superficie, non al fondo della società siciliana”, per cui,
convintosi che “dalla massa emerge la classe che non ragiona soltanto
col cuore e che discute i problemi dell’avvenire con calcoli freddi e
maturi”, il Governo da lui presieduto aveva deciso per la convocazione
dell’Assemblea, in quanto la stessa apriva “larghissimo il campo alla
classe intelligente e colta di svolgere, in un terreno libero,
indipendente, non soggetto a coazione alcuna, i propri studi, le proprie
vedute, i concetti che ognuno crede meglio conducenti a consolidare il
benessere generale”. E l’opinione pubblica, come rileva Mack Smith in
“Cavour e Garibaldi nel1860”, “aveva accolto con favore il suo progetto
di Assemblea”, giacché a tutti pareva giusto che si discutessero le
forme e i modi di quella non invisa richiesta di adesione alla “grande
famiglia Italiana”. Come però era da attendersi, Cavour reagì
immediatamente anche perché aveva già respinto la stessa proposta
fattagli al principio di luglio dal gruppo moderato autonomista guidato
da Emerico Amari, da Francesco Ferrara e dal conte Michele Amari; e,
deciso a scongiurare il pericolo delle aumentate pressioni di Mazzini,
Cattaneo, Conforti e Crispi su Garibaldi per la convocazione delle
Assemblee costituenti di Sicilia e di Napoli, quando il 2 ottobre
si aprì a Torino la seconda e ultima sessione di quella VII Legislatura,
presentò alla Camera un disegno di legge in cui si autorizzava il
Governo ad accettare per regi-decreti le “annessioni incondizionate da
farsi con i plebisciti”. L’11 ottobre,la Camera approvò la proposta
quasi ad unanimità e così, il 16, il Senato e, a questo punto, il genio
politico di Garibaldi, partorì quel decreto di S. Angelo del 15 ottobre,
nel quale addirittura sancì, sei giorni prima della data già fissata in
Sicilia per quegli altri ben diversi comizi elettorali, l’annessione
sic et simpliciter della Sicilia e del Napoletano al Regno di
Vittorio Emanuele Il. “Le Due Sicilie», dice l’unico articolo del
madornale decreto, «… fanno parte integrante dell’Italia una ed
indivisibile, con Re costituzionale Vittorio Emanuele e i suoi
discendenti. I Pro-dittatori sono incaricati dell’esecuzione del
presente Decreto”.
E se questa non fosse la storia sulla
quale è tessuto il dramma della Sicilia dal 1860, saremmo tentati
di credere che ci si trova di fronte ad una pochade o a un vaudeville.
Ma non è ancor tutto, perché nello stesso giorno, Torino indusse il suo
eroe sudamericano ad annullare il decreto, spiegandogli forse
discretamente che per salvare almeno la faccia di fronte all’Europa si
sarebbe dovuto procedere all’annessione coi plebisciti e non con un
decreto dittatoriale.
E così, i due pro-dittatori, Pallavicino
a Napoli e Mordini a Palermo, ricevettero dal loro capo
politicamente esautorato la libertà di rimescolare ancora le carte.
Mordini, infatti, con un proclama dello stesso 15 ottobre, ritrattò la
convocazione di quei comizi indetti per eleggere i Rappresentanti
dell’Assemblea che avrebbe dovuto “stabilire le condizioni”
della Sicilia per entrare a far parte della “grande famiglia Italiana”, e
dopo avere puerilmente affermato che in quel giorno “nuovi casi”
avevano “cambiato le condizioni nel decreto”, pubblica in calce al buffo
e sconcertante proclama: “Art. 1° – I comizi elettorali convocati per
il 21 ottobre, in luogo di procedere all’elezione dei deputati, dovranno
votare per plebiscito sulla seguente proposizione: “Vogliamo
l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale ed i
suoi legittimi discendenti». Art. 2° – Il voto sarà dato per bullettino
stampato o scritto portante la scritta «Si» o «No»; ogni altro
bullettino sarà reputato nullo… ”. S’immagini, dunque, quanta confusione
produssero questi reiterati contraccolpi sul già disorientato spirito
pubblico di un Popolo che contava ancora un numero di analfabeti che
toccava il 90%, e che raggiungeva il 100 % tra le popolazioni rurali e
nei quartieri più popolosi delle stesse città. Come osserva Mack Smith
nell’opera citata, “fu proprio l’ignoranza generale, di fatto, che in
Sicilia garantì a Cavour il voto popolare”. Le nuove modalità dettate
da Mordini per esprimere il “voto plebiscitario” erano tra l’altro
profondamente differenti dalle modalità adottate l’11 e il 12 marzo
del1860 in Emilia e in Toscana dai Governi provvisori annessionisti
del Farmi e del Ricasoli, i quali, sempre in adempimento alle istruzioni
di Cavour, avevano chiamato gli ex-sudditi di quegli ex-ducati
assolutisti e senza storia a scegliere una di queste due proposte:
“Annessione alla monarchia costituzionale del Re Vittorio Emanuele Il”
oppure “Regno separato”. Come invece abbiamo visto, per i siciliani la
necessaria chiarezza di questa legittima alternativa non ebbe spazio. Da
parte di alcuni dei tanti giornali annessionisti che fiorivano ormai in
ogni Comune con i soldi della Società Nazionale, in quei giorni si
scrisse pure che l’eliminazione dell’espressione “annessione alla
monarchia di Vittorio Emanuele” dalla formula plebiscitaria proposta,
sottintendeva già la considerazione dei diritti particolari dei
siciliani, e che dunque si votava solo “per entrare a far parte di un
nuovo Stato italiano e non per annettersi a uno Stato già esistente e in
possesso di una costituzione già interamente redatta”. Questa
grossolana menzogna dei gazzettieri era, però, smentita dallo stesso
testo della formula plebiscitaria, ma di per sé illumina la
preoccupazione del nuovo occupante e del suo mandante, che ricorreva ad
ogni mezzo per piegare al plebiscito la “libera volontà” del Popolo.
Torino, infatti, ben sapeva che l’occupazione bellica, pur se si
estende alla maggior parte del territorio nemico, non può spiegare da sé
alcuna efficacia giuridica in ordine al suo acquisto e rimane sempre un
fatto puramente militare che non può dar luogo a nessun mutamento di
sovranità. Era pertanto necessario che all’occupazione si aggiungesse un
titolo giuridico tale da non revocare il fondamento dell’intero
processo acquisitivo della sovranità territoriale: un titolo il quale,
facendo seguito alla conquista del territorio e alla debellatio del
Regno di Napoli, avesse appunto come effetto formale e sostanziale
l’estinzione dello Stato annesso e di tutti quei suoi diritti e doveri
che ne presuppongono l’indipendenza o sovranità. Quel plebiscito di
natura mista che la conquista piemontese impose ai siciliani nella
complessa situazione del 1860, altro non fu, come vedremo, se
non l’attuazione di un progetto accuratamente elaborato per sanzionare
l’annessione attraverso il metodo, in principio ineccepibile, del
ricorso al “suffragio universale”. Non vi era molto da aspettarsi; ma
poiché il 17 e nei giorni seguenti erano stati emanati anche alcuni
decreti che allargavano e rafforzavano le piante organiche dei vari
ministeri di quel governo pro-dittatoriale, come confessò nel 1868 lo
stesso ex-unitario pentito Paolo Gramignani nello scritto intitolato “I
Regionisti”, «si accreditò e ribadì sempre di più l’idea che si sarebbe
stabilito e mantenuto in Sicilia un importante Governo locale”. Furono
anzi queste implicite pattuizioni, dice il Gramignani, a spingere
“fiduciosi e compatti i siciliani alla votazione del plebiscito”. Nei
precedenti centocinquanta giorni dall’invasione, ogni mossa politica,
legislativa e amministrativa era stata peraltro finalizzata a preparare
il rito dell’adesione totalitaria alla proposta di una formula che, come
ha osservato di recente anche Sandro Attanasio in “Gli occhiali di
Cavour”, “non offriva alternativa… o Vittorio Emanuele e i suoi
legittimi discendenti, oppure niente”. E a questo scopo, capipopolo e
propagandisti politici, mafiosi di ogni calibro e piccoli
burocrati desiderosi di far carriera, indigenti e possidenti, arrivisti e
mestatori d’ogni genere erano stati mobilitati con qualunque mezzo
dai Governi dei due pro-dittatori e dai loro organi provinciali e
comunali. Erano stati distribuiti a iosa posti, prebende, incarichi e
gradi che, in verità, durarono in moltissimi casi fino all’indomani
della celebrazione di quella kermesse, ma risultarono oltremodo
efficaci ad alimentare tutte le illusioni e le allucinazioni di quel
momento. A questo giuoco, d’altro canto, si prestava mirabilmente
l’odio covato per lungo tempo dal Popolo contro la dominazione del
governo di Napoli, sicché la sua strumentalizzazione contribuiva in
maniera determinante a far dimenticare che la posta ora non era il
cambio dei cavalli governativi, ma il destino medesimo dello Stato di
Sicilia, esistito nella sua più sostanziale integrità dal 1131 al 1815 e
risorto ancora nel 1848-49.
Uno storico come Mack Smith, a cui di
certo non si può rimproverare una qualche simpatia per i Siciliani e la
loro causa, ma che non pecca di accuratezza e originalità di ricerche
negli Archivi di Stato dell’Isola, in “Cavour e Garibaldi
neI1860”precisa: “Se ci fosse stato qualche dubbio sul modo in cui
il popolo avrebbe votato, esso fu dissipato all’annuncio fatto da
Garibaldi, che le Due Sicilie formavano già parte dell’Italia una e
indivisibile e della sua proposta di cedere a Vittorio Emanuele il
potere dittatoriale che la nazione gli aveva conferito”. Dopo di che,
riassume così i dati e i fatti più significativi di quel 21 ottobre: “A
Palermo, su una popolazione totale di un quarto di milione di abitanti,
gli elettori registrati erano solo poco più di quarantamila e di
essi trentasettemila avrebbero poi effettivamente votato”.
Quella di “suffragio universale” era
evidentemente un’espressione arbitraria. Molti cittadini non si
erano affatto iscritti nei registri, per “non avere niente capito” –
come scrisse il giornale palermitano Il Regno d’Italia del 17 ottobre –
“dell’importanza del diritto di elettori… ; in cinque mesi molti hanno
smarrito il biglietto, molti non l’hanno più perché non sapevano
cosa farsene”. Il giorno precedente la votazione, i registri
dovettero essere aperti di nuovo. Il decreto originario del 21 giugno
sulla procedura del voto, aveva concesso ad ogni località di
regolarsi in proposito come volesse. Messina chiese, ma invano, altri
dieci giorni di preparazione; Siracusa non aveva compilato affatto
le liste elettorali e un proclama invitò il popolo a firmare su un
registro aperto; a Palermo grandi folle - come attesta tra l’altro il
giornale palermitano L’Annessione del 21 ottobre - “dovettero votare
senza nessuna previa formalità”.
Nella capitale c’era un’enorme
eccitazione per questo nuovo genere di feste che precedettero il grande
giorno in molte località, con illuminazioni notturne e strade - come
comunicò il viceconsole inglese Richard al suo ambasciatore a Napoli
Elliot in data 22 ottobre - bellamente decorate con tappeti e bandiere
sarde. Il 21 era domenica e la votazione si tenne in generale nelle
chiese, dopo la messa; il pro-dittatore con i ministri, gli impiegati
pubblici e l’arcivescovo votarono tutti nella cattedrale. Alla sera,
molti non si erano ancora rammentati di votare, cosi il Consiglio
comunale risolse che sarebbe stato legale lasciare la votazione aperta
anche tutto il giorno successivo.
Sarebbe facile dimostrare come, in molti
casi particolari, il sistema usato non fosse il metodo per
sincerarsi della volontà popolare. La votazione era pubblica, su un
palco, con due urne aperte perché tutti vedessero quale fosse la scelta e
davanti a un semicerchio di agenti lafariniani travestiti, con facce
scure e un’aria di mistero, seduti al centro della navata.
Fuori dalle grandi città, nelle zone
dove i villaggi erano ancora feudali e i proprietari terrieri si
erano convinti che l’unione con il Piemonte offriva le migliori speranze
per la restaurazione dell’ordine, la pubblicità che circondò la
votazione significò un sì quasi obbligatorio. In alcuni luoghi, per
esempio a Trapani – come è attestato da un telegramma dello stesso
governatore di Trapani a Mordini in data 30 ottobre – i contadini, nella
loro ignoranza, fuggirono in montagna, avendo l’impressione che il voto
fosse solo un trucco per intrappolarli e obbligarli al
servizio militare. Il corrispondente del giornale “L’Unità Italiana” di
Palermo, in data 1 novembre descrive come, nel suo villaggio, il capo
del municipio si alzò anzitutto per spiegare il significato del sì e del
no, ma non ebbe in risposta che grida di “Non vogliamo né Vittorio
Emanuele, né Francesco, ma don Peppino”, (cioè Garibaldi); allora
l’oratore, un po’perplesso, rispose che proprio in questo caso dovevano
votare per il sì e la gente lo fece concorde. Un Governatore, quello di
Mazara, aveva scritto l’8 ottobre al Governo di fare molta attenzione a
questa sorta di problemi, e di rendersi conto che
l’analfabetismo completo di quasi tutti gli abitanti rendeva
impossibile un voto segreto; ma ebbe dal Governo, in data 11 ottobre,
questa risposta che non gli recò certo molto aiuto: “Se l’elettore
analfabeta è sottoposto all’arbitrio dello scriba, il difetto sta nel
fatto, non nella legge”. I moderati si sentivano sicuri che, con
la Guardia Nazionale che faceva il suo dovere, con una votazione
pubblica, con la direttiva personale di Garibaldi e con alla presidenza
[dei seggi] magistrati che avevano tutti giurato fedeltà a Vittorio
Emanuele, non vi potessero esser dubbi sul risultato del plebiscito.
Era però necessario unire disciplina ed
entusiasmo; per questo la Guardia Nazionale fu obbligata a votare – come
risulta dal rapporto del comandante della Guardia Nazionale di Milazzo
al suo ispettore generale a Palermo, in data 22 ottobre – “in corpore” e
in uniforme per dare l’esempio di un voto solido con bandiere e
cartelli per il Sì.
Non
solo la compilazione delle liste era stata alterata, ma in certi casi
le schede elettorali erano messe in vendita al mercato nero. P. Grofani
dà il prezzo di due scudi per ogni scheda, in una lettera a Mordini, 11
ottobre; il giornale “L’Assemblea” del 12 ottobre dà il prezzo di 5
franchi per scheda. Il governatore di Catania e quello di Messina
proibirono quella che secondo loro era la “stampa clandestina” degli
“agitatori” autonomisti. A Catania, uno del partito dell’annessione si
vantò di aver messo a tacere ogni gruppo di opposizione nella sua
provincia. Ancor più significative le parole del governatore di
Girgenti, come risulta da un suo rapporto a Mordini in data 29 ottobre. A
Noto e a Modica, e forse anche altrove, i governatori usarono una forma
veniale d’inganno: avrebbero tralasciato di continuare la coscrizione e
sospeso le operazioni di leva fino alla conclusione del voto. I votanti
furono un po’ meno del quinto della popolazione. Su un totale di 292
distretti [seggi elettorali] in Sicilia, sembra che 238 non abbiano
registrato nessun voto negativo. Non meno singolare appare forse il
fatto che solo per 18 distretti le autorità riferirono di qualche voto
nullo o di qualche scheda bianca. Altrettanto notevole, anche se più
significativo, quanto riferiscono le relazioni da Patti, cioè che su
1.646 elettori, votarono tutti, e tutti per il sì. A Palermo, su 40.000
registrati ci furono più di 4.000 astenuti e solo 20 voti negativi;
Messina, su 24.000 votanti registrò solo 8 contrari. Il giornale “La
Forbice” di Palermo, il 23 ottobre mostrava di fare un gran conto dei 14
voti negativi sui 3.000 di Alcamo, dicendo che la loro esistenza
mostrava la libertà della votazione. Alcara Li Fusi ne ebbe ancora di
più, 27 su 384; Caltabellotta, 47 su 500; ma furono casi eccezionali.
Il numero più alto di voti contrari si ebbe nel distretto di Girgenti,
con 70 no su circa 2.500 sì.
Non si seppe mai quanti fossero gli
aventi diritto al voto su una popolazione di quasi 2.400.000 abitanti né
quanti furono gli astenuti. Come osserva Attanasio, “Mancò poco che i
voti favorevoli superassero il 100% dei votanti”. Il risultato del
plebiscito infatti, anche secondo quanto afferma Mack Smith nella
“Storia della Sicilia medievale e moderna”, diede «una maggioranza
favorevole del 99,5%». È vero che non si hanno esempi di plebisciti
contrari al regime che ne proponevano le risposte, ma è vero altresì che
non si hanno esempi di plebisciti in cui, come in quello di Sicilia, su
432.720 votanti si siano avuti 432.053 sì e soltanto 667 no. Ma la
radicale nullità dell’atto che i suoi promotori avrebbero voluto far
passare agli occhi del mondo come un limpido e solenne negozio di
diritto pubblico internazionale, come un vero e proprio Atto o Contratto
di valore politico reale, venne subito colta ed evidenziata sia da
osservatori inglesi, come il Mundy e il Clark, sia da tutti i consoli e i
ministri plenipotenziari accreditati ancora dai loro Governi a Palermo e
nella capitale del Regno di Napoli. E i testi di alcuni di
quei dispacci inviati alla vigilia e all’indomani del 21 ottobre
a Londra e a Napoli dal console Goodwin, che risiedeva a Palermo e a cui
faceva capo tutta la rete consolare inglese di Licata,
Messina, Catania, Marsala, come di quelli inviati dal
ministro plenipotenziario Elliot al Segretario di Stato agli Esteri Lord
Russell, come il rapporto di quest’ultimo al ministero Whig
presieduto da Lord Palmerston, sono eloquenti di per se. Elliot
scrisse in quei giorni al capo del Foreign Office: “pur
essendo moltissimi i dissidenti, sono tutti forzati a votare
per l’annessione; ed infatti la formula del voto e il modo
di raccoglierlo così disposti, assicurano la gran maggioranza possibile
per l’annessione, ma non constatano il desiderio del Paese”. E il 30
ottobre aggiunse che «il voto era stato la farsa più ridicola che si
poteva immaginare e non c’era stata nemmeno la pretesa di limitarlo a
quelli che erano qualificati, poiché gente di ogni paese e di ogni età e
anche di ogni sesso non hanno difficoltà nel far contare anche la
loro opinione». Il ministro Russell precisò al Gabinetto: “I voti del
suffragio universale in quei Regni non hanno alcun valore; sono mere
formalità dopo un rivolgimento ed una ben riuscita invasione; né
implicano in sé l’esercizio della volontà della Nazione, nel cui nome si
sono dati… ”. Il perdurare del divieto agli storici di visionare presso
il Publjc Record Office del Foreign Office tutte quelle notizie
documentali e di carattere diplomatico; il silenzio medesimo che grava
ancora sui rapporti inviati ai loro Governi dagli altri consoli e
diplomatici, dimostrano soltanto che i giudizi di tutti i rappresentanti
dei Paesi a Palermo e a Napoli furono negativi in proposito.
In questo modo si concluse l’ultimo atto
di un dramma che venne subito definito dal Popolo “lu schifiu di la
Rivoluzioni”. Ma non fu tuttavia, come si può credere, l’insignificante
plebiscito a rinviare la soluzione del problema della libertà dei
siciliani, bensì il riaccendersi, come dodici anni prima, del vecchio
contrasto franco-inglese per la supremazia nel Mediterraneo, dove
l’Isola rappresenta la più importante posizione strategica. Il risultato
di quell’intrigo che l’infaticabile Cavour seppe tessere, è
comunque inciso ad memoriam dei siciliani sulle lastre di marmo poste ad
ornamento delle facciate di tanti vecchi e gloriosi Comuni dell’isola.
L'Italia unita è stata il capolavoro della Massoneria originata nel 44 dall'ebreo Agrippa e altri otto soci. L'Italia è l'emblema del Cristianesimo (papato) anche se da 2000 anni è sotto il dominio segreto dell'Anticristo che sta riunendo il mondo sotto le sue mani. Garibaldi è uno dei tanti mercenari che ha permesso di costruire questa trama per distruggere il Cristianesimo e sottomettere le coscienze umane sotto il dominio globale dell'Anticristo Giudeo-Israelita (le 12 Tribù). La storia del mondo è profetizzata e si sta per adempiere l'ultimo atto prima del ritorno di Cristo che potrà finalmente distruggere questo empio potere "misterioso" che lavora dietro le quinte di TUTTI i governi politico-religiosi del mondo.
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