sabato 3 marzo 2012

Socialismo e Socializzazione













di Franco Morini

Da tempo ormai acquisito che a partire dalla primavera del ’44 e fino alla caduta militare della Rsi, vi furono diretti e costanti contatti fra esponenti di sinistra, socialisti e formazioni della stessa resistenza (v. brigate “Matteotti”), con alcuni ambienti fascisti più spiccatamente socialrivoluzionari quali la “Muti”.
Infatti, proprio nell’abitazione milanese dell’ex direttore de “La Sera” e poi capo ufficio stampa della “Muti”, Gastone Gorrieri, si avviarono i primi colloqui ben presto seguiti da una vera e propria intesa ratificata in seguito dallo stesso Mussolini.
Tali rapporti vennero facilitati dal fatto che proprio nell’appartamento sovrastante l’abitazione del Gorrieri, in via Montenapoleone n. 24, operava da tempo la redazione clandestina - si fa per dire - dell’”Avanti!”.
I primi d’area più o meno fascista ad istaurare contatti diretti con i socialisti tramite Gorrieri, furono Ugo Manunta e poi Edmondo Cione, quindi il giro si allargò direttamente o indirettamente, al prefetto di Milano, Parini e al questore Bettini, e poi su-su fino al ministro Biggini, al capo della polizia, Montagna e infine, come accennato, allo stesso Mussolini il quale mantenne con i socialisti contatti indiretti tramite il prefetto a disposizione Nicoletti, più direttamente tramite il socialista nazionale, Carlo Silvestri.
Scrisse a suo tempo Manunta che, invitato nel luglio del ’44 a casa di Gorrieri, lo trovò in compagnia di uno sconosciuto che gli si presentò come tal “Marino” (Gabriele Vigorelli), membro dell’esecutivo del Partito Socialista (Psiup), costui entrò subito in argomento avanzando l’ipotesi di una tregua politica finalizzata ad una successiva collaborazione politica fra gli elementi socialrivoluzionari delle due parti.
L’esponente socialista si dichiarò, infatti, del tutto favorevole, qualunque cosa avvenisse, alla salvaguardia delle recenti conquiste sociali varate dalla Rsi e di voler pertanto difenderle da qualsiasi azione contraria interna od esterna sia al fascismo che all’antifascismo e, proprio a quel fine, proponeva di gettare un ponte… fra i vostri uomini e tra i nostri [poiché] il Paese non è tanto diviso dal fascismo e dall’antifascismo quanto dalla guerra. 
Metà degli italiani punta su un esercito straniero, metà sull’altro. 
Quale sarà la carta vincente lo diranno gli avvenimenti. 
L’importante è che dalla sconfitta di uno dei due eserciti stranieri, l’Italia e gli italiani escano con il minor danno possibile; questo deve essere lo scopo del “ponte”: mettere tutte le forze di cui dispone il paese sotto un comando unico, che sarà vostro nel momento cruciale se la vittoria sarà dei tedeschi, nostro se vinceranno gli angloamericani [1].

L’accordo avrebbe dovuto così sostanziarsi: in caso di vittoria dell’Asse, i socialisti si sarebbero aggregati ai repubblicanosociali a difesa e consolidamento delle nuove avanzate conquiste come la socializzazione e quindi nel fronteggiare insieme gli eventuali sabotatori interni o esterni alla Rsi; qualora l’avessero spuntata gli angloamericani riuscendo a forzare l’ultima linea di difesa, identificata a quel tempo in quella del Po, le varie brigate Matteotti col supporto dalle ex milizie fasciste avrebbero proclamato nell’intero triangolo industriale Milano-Torino-Genova, prima dell’arrivo degli Alleati a seguito della ritirata tedesca, la Repubblica socialista del Nord Italia. [2]

Ovvio che un tal progetto, se giudicato col senno di poi, non poteva che apparire velleitario con tutto che non abbiamo ancora aggiunto il particolare più curioso rappresentato dal fatto che, qualora non fosse stato accettato il fatto compiuto della proclamata Repubblica socialista del Nord, da parte di Alleati e sub governo del Cln, si era perfino ipotizzato d’inviare un appello all’Urss perchè intervenisse in qualche modo a difesa della neoproclamata repubblica socialista del Nord.

Velleitari o meno, sicuramente non furono pochi coloro che in campo antifascista, a fronte del topos di coniugare socialismo e nazione, finirono inevitabilmente con amalgamarsi se non politicamente, quanto meno socialmente, al modello economico fatto proprio dal loro schmittiano“nemico assoluto”.

E’ il caso della formazione prevalentemente – ma non esclusivamente - laziale [3], di “Bandiera rossa”, i cui dirigenti rifiutarono di sottomettersi e riconoscere l’autorità del Cln per il solo fatto che non tutti i partiti componenti il Cln erano schiettamente repubblicani.

Oltre all’ inflessibile pregiudiziale antimonarchica, Bandiera rossa propugnava dal punto di vista economico la socializzazione dei grandi mezzi di produzione e di scambio e su queste due precise basi oppose al Cln un suo Comitato di Salute Pubblica ( d’ora in poi, C.d.S.P.) dopo aver assunto anche l’indicativa denominazione di Federazione Repubblicana Sociale [4]:
Capo dell’ala militare dei vari gruppi operativi di “Bandiera rossa – Fed. Repubblicana Sociale” era il capitano dei granatieri Aladino Govoni, futura vittima alle Ardeatine e figlio dello scrittore futurista, Corrado Govoni, già segretario del sindacato fascista Autori e Scrittori.

A proposito di Ardeatine, in una intervista di Pierangelo Maurizio ad ex esponenti di Bandiera rossa, fra i quali l’ultimo dei suoi fondatori, Roberto Guzzo, venne avanzata l’accusa che l’attentato di Via Rasella fosse stato teso più che altro a ostacolare e neutralizzare l’attività politica posta in essere a Roma dai gruppi federati in Bandiera rossa – Fed. Repubblicana Sociale [5].

Pare, infatti, non fosse un caso che giusto al momento dell’esplosione, presso una latteria di via Rasella si stesse svolgendo una riunione di militanti di Bandiera rossa.

Ed è anche volutamente poco noto il fatto che fra le vittime dirette o indirette dell’attentato gappista, oltre ai vari civili si contino anche due militanti di Bandiera rossa: Antonio Chiaretti ed Enrico Pascucci.
Circa la loro sorte, sussistono ancora due distinte versioni, nessuna delle quali suffragata da certezze, ovvero, se i due siano stati coinvolti direttamente nell’esplosione o caduti, piuttosto, in uno scontro a fuoco con i Tedeschi nel fallito tentativo di allontanarsi da via Rasella.

Nella sostanza cambia ben poco e resta in ogni caso il fatto essenziale che oltre ai due nominati, Bandiera rossa perse altri 68 militanti nella successiva rappresaglia delle Fosse Ardeatine, tra i quali lo stesso capo militare di B.r. Aladino Covoni mentre, per contro, non furono più di tre le vittime Ardeatine più o meno riconducibili ai ciellenisti.
Parimenti ignoto è il fatto che Bandiera rossa, con circa 1.200 militanti ufficialmente riconosciuti con la qualifica di partigiani combattenti, è stato il più forte e organizzato movimento politico insurrezionale del Lazio, fatto questo che dava ovviamente non poco fastidio alle mire egemoniche del Pci al quale ,infatti, si fanno risalire le numerose delazioni che portarono all’arresto di numerosi militanti di B.r. e alla loro successiva fucilazione come ostaggi nella misura complessiva di ben 181 giustiziati[6].

Stessa cosa accadde in Piemonte dove operava l’analoga formazione “Stella rossa”, che contava molti più adepti del Pci ma che.. poco alla volta grazie a segnalazioni anonime furono catturati dai tedeschi. Di chi fosse la denuncia lo si sapeva, ma era meglio non dirlo [7]
Ma c’è ben altro.

L'attentato di via Rasella servì a bloccare l’iniziativa posta in essere da Bandiera rossa…contro l’imposizione imperialistica anglo-russa-americana [ conclusasi in una trattativa diretta ] tra le sane forze del Comitato di salute Pubblica e quelle naziste [8]; per un accordo finalizzato al pacifico passaggio di poteri fra il comando tedesco - autorità repubblicane e il C.d.S.P. che, fra l’evacuazione di Roma da parte dell’Asse e prima ancora dell’arrivo degli angloamericani, contavano di proclamare la Repubblica Romana dei Lavoratori con l’intento di bloccare il rientro a Roma della dinastia Savoia col suo sub governo di Salerno e implicitamente l’ occupazione della capitale da parte delle truppe del colonialismo inglese e del capitalismo statunitense.

Progetto, questo, che era stato avviato dal C.d.S.P. nel gennaio del ’44 contattando il ministro dell’Interno Buffarini il quale delegò alla trattativa un Direttore generale di P.S. coadiuvato da un Questore, poi, tramite mediazione di Dollman, le trattative tra repubblicani e tedeschi con il C.d.S.P. passarono all’ufficio romano di Kappler [9] dove furono parzialmente sospese durante lo sbarco ad Anzio per poi riprendere comunque in marzo [10] e si stava già giungendo in vista dell’accordo quando l’attentato di via Rasella bloccò definitivamente ogni iniziativa, anche perché la presenza in via Rasella del gruppo di militanti di B.r. mirava ad ottenere l’effetto, peraltro raggiunto, d’indurre i Tedeschi se non a incolpare, per lo meno a sospettare del C.d.S.P. che, fra le altre cose, si era impegnato a garantire che l’eventuale ripiegamento al Nord di truppe e civili dell’Asse, potesse avvenire senza particolari intoppi da parte antifascista.

Che queste non siano semplici congetture, lo dimostra la cronaca giudiziaria tratta da “Il Messaggero” del 19 giugno 1948 concernente il processo a Kappler il quale, messo a confronto con il prof. Felice Anzaloni, che pur essendo stato fra i partecipanti alle citate trattative , nella sua diversa veste di teste lo stava biasimando per la “cieca rappresaglia”, Kappler gli obiettò che .. anche voi siete stati ciechi. Vi siete prestati al gioco degli alleati, tuttora vostri nemici, i quali servendosi dei comunisti hanno ottenuto di annullare le trattative che avevamo in corso.

Da allora, per oltre mezzo secolo non si riuscì mai a varcare la soglia palesemente intermedia rappresentata da Amendola e risalire ai veri mandanti dell’attentato di via Rasella, se si eccettua la testimonianza al processo Kappler del gappista pentito Guglielmo Blasi il quale riferì alla Corte che Calamandrei gli aveva mostrato l’ordine operativo d’azione siglato E.E; sigla questa che coincideva con le iniziali di Ercole Ercoli, pseudonimo moscovita di Togliatti [11].

Questa rivelazione lasciò i più abbastanza scettici anche perchè Togliatti era rientrato in Italia dall’Urss il 27 marzo, cioè quattro giorni dopo attentato.

Sempre in via cronologica, il giorno 25 i giornali romani divulgarono la notizia dell’avvenuta rappresaglia e il giorno dopo, sarà anche un caso ma Amendola tentò inutilmente di coinvolgere la Giunta militare del Cln nell’assunzione di responsabilità dell’attentato ed è per questo che il 30 marzo, i comunisti furono costretti ad assumersi la totale responsabilità dell’attentato con un comunicato pubblicato su “L’Unità”..

Successivamente, allorché nel corso del processo Priebke negli anni ’90, si tornò a trattare per inevitabile connessione di via Rasella, su “Il Contemporaneo” del febbraio 1996, Giorgio Prinzi scrisse che… con l’attentato di via Rasella veniva conseguito il risultato di decapitare (con il lavoro sporco affidato ai tedeschi) lo scomodo vertice della resistenza militare la cui eliminazione era stata, secondo quanto riferito da Amendola, esplicitamente richiesta da Carlo Andreoni, vicesegretario del Psiup.

Considerato che la rivista marxista “Il Contemporaneo” era stata fondata da Carlo Salinari, cioè uno dei partecipanti all’azione di via Rasella e che inoltre fra i vari collaboratori la rivista annoverava anche lo storico Piero Melograni a cui Amendola aveva riferito del presunto ruolo d’ispiratore svolto da Andreoni [12], non pare debba più sussistere alcun dubbio sul fatto che l’attentato del 23 marzo fosse effettivamente finalizzato non tanto ad una specifica azione militare, quanto a indurre i Tedeschi alla rappresaglia sui loro diversi ostaggi.

Meno convincente appare invece la chiamata in causa dell’esponente socialista nel ruolo di ispiratore o peggio, mandante, anche perché Andreoni (impossibilitato a smentire in quanto deceduto negli anni ’50) non solo all’epoca era un fervente simpatizzante di Bandiera rossa [13], ma aveva addirittura aderito,insieme a quel gruppo di socialisti rivoluzionari che a lui facevan capo, alla Federazione Repubblicana Sociale.

Senza contare che Andreoni, sempre in polemica con Nenni e Pertini, lasciò ben presto il Psiup per confluire nel gennaio 1945, insieme a Bandiera rossa, nel nuovo raggruppamento denominato “Spartaco”, fortemente caratterizzato da una accanita opposizione al governo ciellenista.

Ultima ciliegina sulla torta, è lo stesso Cione a riportare che Mussolini… non aveva certo disapprovato le intese tentate da alcuni, tra cui Manunta, con Carlo Andreoni, segretario del Partito socialista, che in certo senso si mostrò pieno di comprensione per il fascismo di Salò. [14]

E, infatti, circa un anno dopo l’uscita dell’ articolo di Prinzi volto a coinvolgere Andreoni, venne a galla una nuova ma non per questo sconcertante acquisizione giudiziaria: ispiratori e mandanti della strage di via Rasella dovevano ricercarsi all’interno dei comandi alleati o meglio ancora dell’OSS.

Questo quanto in sintesi rivelato l’11ottobre 1997, da Rosario Bentivegna e Carla Capponi “in gran segreto”, al sostituto procuratore di Roma, Vincenzo Roselli, fatto così chiosato da Pierangelo Maurizio:…insomma quelli che poi sarebbero diventati i < nemici imperialisti > americani e inglesi avrebbero dato mandato ai Gap comunisti di mettere a ferro e fuoco la capitale per dare una mano dietro le linee a quella che era la macchina da guerra più potente del mondo.. non mancando giustamente di far rilevare come tuttavia ..l’azione di guerra di via Rasella non distolse dal fronte un solo soldato tedesco [15]

Aveva quindi ragione Kappler allorché fin dal 1948 accusò i comunisti di essersi prestati al gioco degli Alleati innescando volutamente la duplice strage allo scopo di scompaginare la particolare convergenza creatasi a Roma di forte opposizione al Cln al governo badogliano e agli stessi alleati, riuscendo effettivamente a bloccarne le trattative e, contemporaneamente, a colpire a fondo gli odiatati deviazionisti di Bandiera rossa.

Del resto, che al di là delle linee alleate fossero seriamente in pena per la prospettata proclamazione della Repubblica Romana dei Lavoratori, lo si deduce da un’altra testimonianza fornita dallo stesso Bonomi al solito processo Kappler:
…ebbi contatto con la Giunta militare del Cln una sola volta. C’erano due tendenze: una di sinistra che aveva intenzione di impadronirsi del potere al momento della liberazione di Roma e formare un governo indipendente da quello del Sud e l’altra che intendeva consegnare la città al governo legittimo. Quella fu l’unica volta che minacciai di dimettermi se fosse prevalsa la tendenza di sinistra [16]

Mescolando per bene le carte, Bonomi sembrerebbe voler far credere all’esistenza di una frattura interna alla Giunta militare concernente la situazione romana, spaccatura che non c’era affatto dal momento che i propugnatori del “governo indipendente” non facevano parte – come già accennato – di alcun organo del Cln che peraltro avversavano.
L’intervento “unico” di Bonomi sulla Giunta con relativa minaccia di sue dimissioni dal Cln era dunque probabilmente un avallo, presumibilmente sollecitato o concordato con i comandi alleati, in vista di un’azione risolutiva nei confronti di quella “sinistra che aveva intenzione di impadronirsi del potere al momento della c.d. “liberazione”.

Si deve quindi allargare il campo sulle responsabilità dell’attentato di via Rasella, dagli esecutori e mandanti - comunisti e Alleati - allo stesso vertice del Cln e , di conseguenza, al sub governo di Salerno.

All’epoca, infatti, Bonomi era ancora presidente del Cln, essendo allora in carica il 1° governo Badoglio.
Fatto singolare, e ancora tutto da spiegare, è che Bonomi si dimise effettivamente dal vertice del Cln, ma in data 26 marzo 1944, ovvero il giorno stesso in cui la Giunta militare di Roma si era rifiutata di assumersi la responsabilità collegiale dell’attentato. Altro singolare abbinamento si avrà il 30 marzo quando da una parte “L’Unità” rivendicherà ai soli comunisti l’azione compiuta e, contemporaneamente, un comunicato dei vertici del Cln condannerà ufficialmente la rappresaglia posta in atto dai Tedeschi senza tuttavia pronunciarsi sul precedente di via Rasella.

Con questo non si vuol certo affermare che l’attentato comunista sia spiaciuto al governo del Sud e questo nonostante l’alto numero di militari badogliani che furono sacrificati alle Ardeatine.

Infatti, proprio in quei giorni di fine marzo e inizio aprile, il sub governo di Salerno varò in fretta e furia una amnistia concepita apparentemente ad hoc per coprire esecutori e mandanti dell’attentato di via Rasella. 
L’amnistia, datata 5 aprile 1944, copriva l’intero periodo precedente specie nei confronti di chi avesse… come militare e come civile compiuto atti diretti a frustrare l’attività bellica delle truppe tedesche o di chi a esse prestavano aiuto.

Questo tempestivo provvedimento legislativo varrà ad evitare che, una volta occupata la capitale da parte degli eserciti alleati, qualsiasi inchiesta si fosse potuta avviare nei confronti degli autori e mandanti di quella strage, e cosi fù.

Resta in ogni caso delineata una coerente linea strategica da parte della sinistra nazionale e antimperialista che raccorda il progetto della Repubblica Romana dei Lavoratori a quella più nordista della Repubblica Socialista del Nord Italia. Linea strategica sviluppatasi nel tempo, dalla più cauta successione romana alla vera e fattiva collaborazione per quanto concerne il Nord.
Si passò, infatti, dalla Federazione Repubblicana Sociale della romana Bandiera rossa, al Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista (RNRS) milanese fondato da Edmondo Cione.

Nel marzo 1945, il RNRS si dotò di un proprio organo di stampa la cui testata prese il titolo mazziniano di “Italia del Popolo” che nel contempo riecheggiava, come a volerlo sostituire con una rinnovata prospettiva, quel “Popolo d’Italia” che emblematicamente dal 25 luglio 1943, non aveva più ripreso la pubblicazione.
Fra marzo e aprile ’45, uscirono 13 numeri di “Italia del Popolo” diretto da Cione e amministrato dal socialista Vigorelli (alias “Marino”) che ricopriva anche la carica di amministratore unico del movimento. Al giornale collaborarono Carlo Silvestri, i repubblicani parmensi Zocchi e Icilio Fietta, e altri come Vatore, Cella, Pandolfo, Janni, Sollazzo, Piacentini ecc.
Dal punto di vista militare, il comandante in capo delle brigate “Matteotti”, Corrado Bonfantini, si relazionava direttamente con i vertici della Rsi allo scopo di creare raggruppamenti militari misti [17] da poter utilizzare il giorno della proclamazione della Repubblica Socialista del Nord.

Silvestri, ad esempio, cita perfino una formazione armata al suo comando denominata “Decima Mat-teotti” forte di 200 elementi scelti fra la polizia effettiva e ausiliaria che avevano la loro sede presso la direzione di polizia [18], quindi col presumibile avallo dello stesso capo della polizia e ben noto interlocutore di Silvestri, Montagna..

In effetti, nell’incombere della fine, Mussolini si era riservato tre possibili soluzioni finali:

1) il passaggio diretto di poteri fra Rsi e Partito socialista;

2) un trapasso condizionato (si chiedeva l’autorizzazione all’esistenza politica del Pfr nella nuova situazione) tra Rsi e Clnai, in un rapporto che si accavallò con la nota trattativa in arcivescovado;

3) ultima e estrema resistenza nel ridotto valtellinese.

E’ significativo che Mussolini diede la precedenza alla prima soluzione quando il 22 aprile convocò in prefettura Silvestri per dettargli la proposta di passaggio di poteri da comunicare urgentemente all’Esecutivo e al C.C. del Psiup. 

Il documento mussoliniano si apriva con la sua dichiarazione d’intenti

 di voler….consegnare la Repubblica Sociale ai repubblicani e non ai monarchici, la socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai borghesi. Nel proporre questa trasmissione di potere egli [ Silvestri scrive sotto dettatura di M, n.d.r.] si rivolge al Partito socialista, ma sarebbe lieto se l’offerta fosse considerata ed accettata anche dal Partito d’azione nel quale del resto prevalgono le correnti socialiste. 

Non estende l’offerta al Partito comunista solo perché la tattica di questo partito esclude che nell’attuale situazione internazionale esso possa assumere in Italia atteggiamenti che sarebbero in contrasto con il riconoscimento dell’Italia come zona d’influenza inglese [19]. Seguono poi quattro punti contenenti vari paragrafi volti a regolare nei dettagli il passaggio di poteri.

Silvestri inoltrò il documento agli organi direttivi del Psiup tramite Bonfantini, pur essendo ben conscio dell’impossibilità pratica di far fronte comune all’avanzata alleata che aveva ormai superato il Po senza troppi problemi, specie dopo che i Tedeschi avevano praticamente cessato di combattere a seguito degli avanzati accordi di resa da parte del gen Wolff.

Il progetto d’istaurare con le armi la Repubblica Socialista del Nord era di fatto tramontata per la mancata evacuazione dei Tedeschi da un parte e il rapido passaggio del Po degli Alleati, dall’altra. 

Tutto si riduceva al paragrafo terzo del punto 3) della proposta mussoliniana in cui si metteva a disposizione del Psiup una certa aliquota di militari della Rsi nel caso che il Psiup, ed eventualmente il P.d.’A. e con l’augurabile consenso del Pci, prendesse in consegna la citta di Milano dalla Rsi. Ormai tutto era circoscritto alla sola, per quanto importante, capitale lombarda.

La risposta pervenne nella mattinata del 24 aprile per bocca di Riccardo Lombardi, allora massimo esponente del P.d’A. a Milano, il quale informò Silvestri che la proposta di Mussolini non poteva essere presa in considerazione in quanto la trasmissione dei poteri ad un solo partito o ad un limitato numero di partiti, avrebbe determinato la rottura del patto di unità interno al Clnai provocando uno scontro dalle inimmaginabili conseguenze e questo proprio nel momento in cui si prospettava la vittoria completa.

Silvestri tornò a riferire a Mussolini il quale solo allora si decise a giocare quella seconda carta relativa ai rapporti diretti con il Clnai in vista di una resa condizionata tramite la possibile mediazione di Schuster con tutto quanto è poi seguito.

Il 25 aprile 1945 il Comitato insurrezionale del Clnai, riunitosi per l’occasione tra le accoglienti mura extraterritoriali del Collegio salesiano S. Ambrogio di Milano, decretava fra altre cose l’annullamento delle leggi socializzatrici nello…stesso tempo in cui venivano riconosciuti i Consigli di fabbrica[20] i quali si erano costituiti in attuazione dell’ abolita socializzazione.
Una disposizione a dir poco ambigua in quanto palesemente tesa a contemperare il più avanzato retaggio sociale del fascismo col Moloh capitalista che stava sopraggiungendo al seguito delle truppe d’invasione alleate.

Spogliati di fatto d’ogni loro base giuridica, che restava in sostanza dei Consigli di gestione aziendali, peraltro fin troppo speranzosamente ribattezzati dal Clnai: “Consigli di gestione nazionali”?

Cosa fossero questi neo Consigli “nazionali”, provò a chiarirlo Umberto Sereni, presidente del Cln lombardo, informando i lettori de “L’Unità” che:…i Consigli di gestione fascista vengono sostituiti da Consigli di gestione nazionali in cui accanto ai rappresentanti degli azionisti siedono a parità di diritto i rappresentanti effettivamente designati dalle maestranze che partecipano alla gestione dell’impresa. E fin qui, ben poco di nuovo rispetto ai passati Consigli, ma andando poi a trattare il dettaglio della partecipazione agli utili d’impresa, vennero subito a galla le prime magagne.
Per esempio, tra lavoro e capitale la precedenza veniva assegnata a quest’ultimo garantendo prioritariamente gli interessi in conto capitale da computarsi fino a una soglia, non specificata, solo dopo la quale l’eventuale residuo utile andava finalmente a beneficio del fattore lavoro. Sempre per modo di dire, in quanto il “bonus-lavoro” non era più direttamente atttribuibile alle relative maestranze aziendali giacchè la nuova normativa emanata dal Clnai non contemplava affatto una distribuzione diretta, dal momento che il surplus prodotto (o plusvalore) dopo aver renumerato il capitale, doveva essere versato in un fondo generico a indistinto beneficio di tutti i lavoratori, compresi i disoccupati, per finanziare mense, assistenza orfani, malattie ecc.e ciò al fine…di evitare sperequazioni e particolarismi che non potrebbero che danneggiare la necessaria unità della classe operaia[21].

Come dire che stringi, stringi, ai delegati eletti nei nuovi Consigli di gestione ciellenisti era solamente concessa la mera presenza in tali organismi, senza più alcun beneficio econonomico a favore dei loro reappresentati.

Più che di socializzazione si può dunque parlare di una evanescente chimera mirante solo a far decantare, col passare del tempo, anche il ricordo della precedente socializzazione mussoliniana nella quale, è il caso di sottolineare, venne abolita la corporazione sindacale dei datori di lavoro in quanto nella Rsi socializzata non c’era più spazio per gli ormai sorpassati sciur padron da li beli braghi bianchi.

Nel nuovo modello di pretesa socializzazione si poteva già vedere di che legno era fatta la scopa se si “leggono” i toni tutt’altro che sovversivi de “L’Unità” dalla quale si poteva apprendere che, a scanso di equivoci: …attraverso i Consigli di gestione gli operai non s’illudono di diventare i padroni dell’azienda, ma vogliono soltanto collaborare coi dirigenti responsabili, sapere ciò che accade nell’azienda, sapere il perché ed i limiti necessari delle rinunce temporaneamente accettate [22].
Di fatto, nemmeno la pur modesta richiesta di poter per lo meno conoscere i motivi per i quali si continuava sempre più a tirare la cinghia in azienda, veniva di norma considerata da quegli imprenditori che si apprestavano puntutamente ad operare in un ambiente economico in cui era ormai stata restaurata la libera attività speculativa..

Ciò premesso, per quale serio motivo i vertici aziendali avrebbero dovuto far conoscere ai consiglieri eletti sì dalle maestranze- ma del tutto privi di poteri giuridicamente riconosciuti - i loro vari propositi di procedere quanto prima alla ristrutturazione dell’intero comparto produttivo post-bellico, anche tramite licenziamenti generalizzati, contando sulle collaudate leggi economiche di produzione capitalista per le quali ogni sostanziale alleggerimento dei costi del fattore lavoro equivaleva sempre ad un rispettivo incremento del valore azionario.

In questo quadro ormai fin troppo sbilanciato, capita anche che nel dicembre del ‘45 il sindacato allora unitario della Cgil lasci decadere anche formalmente i Consigli di gestione nazionali per avere in cambio dalla Confindustria, l’istituzione della nuova scala mobile, l’introduzione del cottimo nonché l’equiparazione salariale fra uomini e donne.

Alle maestranze venne del resto fatto credere che in fin dei conti si trattava di un buon accordo anche perché i principi socializzatori - al momento giuridicamente congelati - sarebbero stati poi inseriti nella nuova Costituzione in modo da poter pervenire ad un nuovo quadro normativo d’ispirazione costituzionale valido per tutta la nazione e non più per le sole regioni della ex Rsi.

Una volta accantonato anche l’ultimo ostacolo dei Consigli di gestione che, per quanto già opportunamente sviliti dal Clnai, avrebbero comunque potuto insidiare gli affabili rapporti fra sindacato [23] e industriali, il 19 gennaio 1946 - Cgil e Confindustria stipularono un accordo, ratificato poi dal Governo il 1° febbraio, in base al quale era concordemente riconosciuta l’inderogabile necessità di procedere ad un radicale ridimensionamento delle maestranze tramite massicci licenziamenti, per quanto prudentemente scaglionati, allo scopo di ristrutturare l’apparato produttivo in funzione post bellica.

Come da manuale dello speculatore, i titoli azionari, specie quelli delle industrie del Nord, iniziarono costantemente a lievitare fino a toccare in aprile un picco passato poi alla storia dell’economia nazionale come la prima ondata speculativa dell’Italia post-bellica, tale da indurre il ministro dell’Economia dell’epoca, Corbino, ad imporre un deciso calmiere all’abnorme crescita in valore dei titoli azionari.

In questo difficile contesto, ai vari produttori subordinati altro non restava che puntare su quelle norme socializzatici che, conservando un certo ottimismo, si sperava venissero a far parte della nuova Costituzione, così come era statopiù volte promesso.

Un ottimismo apparentemente non infondato quando si consideri che lo stesso Fanfani, in qualità di membro della Commissione dei 75, incaricata di una prima stesura degli articoli costituzionali, richiamandosi alla bozza concernente l’articolo 43 (art. 46 nella stesura finale), così l’aveva sintetizzata e fatta approvare in sede di sottocommissione: Lo Stato assicura il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera.

Millantando il proprio ruolo in questa bozza, Fanfani non mancò di chiarire che ..su sollecitazione dei democristiani s’intende precisare che per l’impossibilità di trovare un termine più appropriato [a “partecipazione”] era da considerarsi comunque salva.. la possibilità di partecipare al controllo dell’impresa anche in altre forme. E in tal modo si superò il dissidio aspro fra comunisti e democristiani che per mio intervento [ Fanfani] avevano chiesto la partecipazione all’amministrazione, alla efficienza, alla comproprietà, agli utili dell’impresa[24].

In questa gara con i comunisti, mirante a dilatare il concetto di partecipazione, sembrerebbe volersi far riconosce quel tal Fanfani, già docente di diritto corporativo di non molti anni prima[25] .
Ma tra il dire e il fare questa volta c’erano di mezzo i cosiddetti “padri costituenti” i quali, nel caso in questione, si comportarono più che altro da veri “padrini”della peggiore mafia politicante.

In sede di Assemblea Costituente, l’art. 46 ( ex 43, della bozza ) venne trattato, contrariamente alle aspettative, in modo fin troppo spiccio per non dire elusivo.
Un dibattito ridotto al minimo e con vaghe affermazioni più di principio che di causa.
A cominciare da Einaudi (U.D.N.) il quale si dichiarò semplicemente contrario sia alla compartecipazione agli utili che alla conduzione della azienda al fine di evitare che maestranze e imprenditori potessero accordarsi per taglieggiare la collettività (Cfr. Atti costituzional, pag. 4020).
Congettura chiaramente pretestuosa e del tutto opinabile specie sul fatto che soci o azionisti dovessero considerarsi meno inclini alla speculazione che non le rispettive maestranze.

Tassativamente avverso ai Consigli di gestione si dichiarava pure il costituente Mario Marina (U.D.N.) mentre, al contrario, si disse favorevole, il socialista Tito Oro Nobili.
Favorevolmente alla partecipazione delle maestranze, ma per i soli utili di azienda, si espressero sia il repubblicano Camangi che tale Puoti (U.D.N.).
La formula definitiva si deve però ad un emendamento presentato dal democristiano Gronchi e fatto poi proprio dall’Assemblea, secondo il quale occorreva… elevare il lavoro da strumento a collaboratore della produzione facendo tuttavia salvo il principio che non vi è feconda attività produttiva senza… l’unità di comando nell’azienda.

Grazie a questo emendamento bassamente volpino, il termine “partecipare” venne così sostituito nel testo definitivo col verbo “collaborare” e in tal modo il gioco delle tre carte era compiuto. 

Anche se poteva sembrare solo una blanda sfumatura linguistica, in realtà l’art. 46 si trasformava in uno sterile pleonasmo giacché non era certo una novità ma semmai un dato di fatto del tutto scontato che, per il solo fatto di eseguire il loro lavoro le maestranze collaborassero già a tutti gli effetti alla produzione aziendale.

L’evirazione compiuta su questo articolo venne peraltro largamente facilitata dalla complice assenza nel dibattito sia della componente sedicente comunista - che pure contava oltre cento membri all’Assemblea costituente - che di quel tal Fanfani, compagno di partito dell’affossatore Gronchi, il quale giusto qualche mese prima si vantava, come riferito, di puntare al massimo rialzo in concorrenza con il Pci, sull’ interpretazione più estensiva da dare alla partecipazione delle maestranze alla gestione aziendale.

Mafiosi “dell’onorata costituente” sia i referenti che i votanti; mafiosi della peggior specie gli ingiustificati latitanti dalle grandi promesse, si chiamassero Fanfani oppure Di Vittorio.

Dal 14 maggio 1947, data in cui venne mutilato art. 46, nessuno si è più curato di lui; abbandonato alla sua sorte, oggi ben pochi si ricordano della sua inerte esistenza e del resto questo era esattamente ciò a cui avevano mirato i padrini costituenti e non tanto per un loro particolare disegno , ma perché gli era oggettivamente impedito dall’ormai restaurato vecchio assetto politico-economico.

Esemplare, a tal proposito, la puntuale analisi espressa dai nazional-bolscevichi di “Bandiera Rossa”, i quali avevano giustificato la loro ripulsa del pateracchio esapartitico del Cln con questa profetica dichiarazione:

“Date alla società un equilibrio in senso borghese, rimettete la società capitalistica in grado di funzionare, e voi avrete stroncato ancora per una generazione [ad essere ottimisti n.d.r.] le possibilità rivoluzionarie del proletariato”[26]

In effetti è del tutto evidente che anche da un’angolazione prettamente marxista o leninista, la tanto strombazzata “resistenza” ciellenista si è rivelata nei fatti socialisticamente regressiva e pertanto oggettivamente reazionaria e questo indipendentemente dalle possibili migliori intenzioni.

Note
[1] U. Manunta “La caduta degli Angeli”A.E.I. Roma 1947, pag 83 e ss.
[2] Cfr. E. Cione “ Storia della RSI”, 1948, pag. 386.
[3] Bandiera rossa, oltre al suo caposaldo laziale, aveva propaggini specie in Piemonte (Stella rossa) e nel Bresciano.
[4] Cfr. G. Genzius ( Roberto Guzzo) “Tormento e gloria – Verità alla ribalta” 1964, pag. 427 e ss.. Il Guzzo , gia uffciale dei granatieri, fu tra i primi fondatori del movimento che era sorto in ambito prevalentemente militare fra il 1942 –’43. Originariamente si chiamava Movimento Funzionalista e si definiva sia anti borghese-capitalista che anti-colletivista. Successivamente prese la denominazione “provvisoria” (sic) di Movimento Comunista d’Italia mentre “Bandiera rossa” era la testata dell’organo del movimento (ivi . pag. 21)- I gruppi di “Bandiera rossa” vengono oggi indicati come trotzkisti (v. Wikipedia) e ciò non corrisponde al vero in quanto B.r. era tutt’altro che internazionalista. Scrive, fra l’altro il Guzzo: ..Non Mosca e né Londra o Washington potevano essere Roma. La Roma erede della civiltà di tutti i popoli. (ivi pag. 137).
[5] Cfr. P. Maurizio “A via Rasella morirono due marxisti, ma il Pci ha preferito dimenticarli” in “Il Giornale” del 19 agosto 1996.
[6] G. Genzius cit. pag. 167.
[7] M. Randaccio “Le finestre buie del ‘43” 1993, pag. 382.
[8] G. Genzius cit.pag. 183.
[9] G. Genzius cit. pag. 156
[10] Id. pag. 159
[11] W. Spinelli “Processo Kappler” 1994, pag. 163.
[12] P. Melograni-G.Amendola”Intervista sull’antifascismo” 1976, pag. 172.
[13] Cfr. G. genzius cit. pag. 128.
[14] E. Cione cit. pag. 446.
[15] P. Maurizio “In viaRasella azione di guerra” in “Il Giornale” del 12 ottobre 1997.
[16] W. Spinelli cit. pag. 179.
[17] Alla fine degli anni ’40 , ebbe un certo scalpore la notizia che il generale della Gnr, Nunzio Luna, risultava contemporaneamente appartenente, sotto le false generalità di Nino Rossi alla 152° Brig. Matteotti. Al giornale “Il Merlo Giallo” che lo accusava di doppio gioco, il Luna replicò che…La polemica apertasi dopo la pubblicazione dell’< Europeo > ha reso ormai di domino pubblico i contatti che intercorsero tra elementi della resistenza (fra questi il Bonfantini) e responsabili della Repubblica di Salò: i miei amici e colleghi ed io agimmo nella scia del programma tracciato da Mussolini. Sono fiero di quello che feci, anche se poi fallì, perché < l’animus > era tale che forse mai come in quel momento noi servimmo la nostra Patria (“Gobba a levante, luna calante” in “Il Merlo Giallo” del 1 feb. 1949, pag, 2.
[18] Cfr. C. Silvestri “ Matteotti, Mussolini e il dramma italiano” 1947, pag. 296.
[19] Il documento integrale è stato pubblicato dal periodico “Settimo Giorno” dell’11 ottobre 1951, pag. 8 sotto il titolo “Il fondamentale documento del 22 aprile 1945” a firma di carlo Silvestri.
[20] F. Moffo “Storia di un proclama” Roma 1995, pag. 109
[21] Cfr. Gli operai parteciperanno alla gestione delle aziende in “L’Unità” del 5 maggio 1945, pag. 1 – edizione lombarda. L’ex socializzazione fascista prevedeva che il tasso di renumerazione del capitale fosse annualmente fissato con D.M. (art.44). L’assegnazione degli utili ai lavoratori calcolati anno per anno, non potevano eccedere annualmente il 30% della retribuzione annua precedente. L’eventuale eccedenza superiore al 30% veniva destinata ad una Cassa di compensazione destinata a scopi di natura sociale e produttiva (art. 44).
[22] Nascita del Consiglio di gestione alla Soc. Magneti Marelli in “L’Unità” del 22 giugno 1945, ed. settentrionale.
[23] Data la sua conformazione ottocentesca il sindacato, unico o meno che fosse, non poteva certo parteggiare per l’istituto socializzatore in quanto il ruolo di un sindacato più o meno confederale all’interno di una azienda socializzata diventava praticamente nullo essendo demandato al Consiglio di gestione aziendale interno ogni aspetto rappresentativo.
[24] A. Fanfani L’attività economica nel progetto della terza sottocommissione per la Costituzione italiana in “Humanitas”- fasc. n. 12 del dic. 1946, pag. 1244.
[25] …il corporativismo fascista ha di mira il pacifico svolgimento della sua attività economica senz’ombra di violenza o di arbitrio privato. A. Fanfani in “Il problema corporativo nella sua evoluzione”, 1942.
[26] “ Due strade” in Bandiera Rossa n. 1 dell’8 gennaio 1944.

http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=13536

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