Un saggio di Del Boca spiega come s'infranse l'ultimo sogno del nostro colonialismo. L'avventura africana durò soltanto sei anni. Ma illuse tutti, antifascisti compresi
Con La guerra d’Etiopia (Longanesi, pagg. 304, euro 18)
Angelo Del Boca prosegue la sua esplorazione nelle vicende del colonialismo italiano.
La conquista che valse a Mussolini il titolo di fondatore dell’Impero e a Vittorio Emanuele III il titolo di Imperatore fu, tra quelle che l’Italia poté vantare, la più effimera. Il 5 maggio del 1936 il maresciallo Pietro Badoglio inviò al Duce il telegramma annunciante il suo ingresso in Addis Abeba, sei anni dopo l’Impero tornato sui colli fatali di Roma non esisteva più. Una breve parentesi nella millenaria storia del nostro Paese: ma una parentesi che esaltò molti, potremmo dire che esaltò tutti se anche antifascisti di lungo corso come Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando e Luigi Albertini offrirono alla Patria le loro medaglie d’oro di senatori: associandosi così all’offerta delle fedi nuziali fatta da milioni di cittadini.
Fu davvero un momento straordinario.
Del Boca, che per il fascismo e per il colonialismo non ha tenerezze, è costretto a riconoscerlo. «Non si può assolutamente negare che fra il 5 e il 9 maggio 1936 il popolo italiano abbia vissuto uno dei periodi di maggiore unità, di più ardente passione e di sconfinata speranza nei più luminosi destini della Patria... Gli italiani vivono più nelle piazze che nelle loro case, storditi ed insieme eccitati dall’urlo delle sirene che chiamano alle adunate... Per la prima volta, forse, essi indossano la divisa fascista senza fastidio e le loro acclamazioni sono spontanee».
Ancora una volta la grande proletaria si era mossa, l’Italia era ancora un Paese contadino e ai soldati contadini si schiudeva la prospettiva di immense terre fertili da dissodare, da far fruttare. Gli slogan propagandistici secondo i quali le nazioni ricche di braccia e povere di materie prime dovevano ottenere più posto al sole avevano fatto breccia anche in molti scettici.
«L’ultima impresa del colonialismo» - come recita il sottotitolo del libro - fu anche la più popolare.
Oggi, con il senno di poi, possiamo valutare l’anacronismo storico ed economico della campagna, e l’ingenuità di chi vi vedeva l’inizio di una nuova era.
Oggi sappiamo che non conta l’estensione del posto al sole, e che le tre potenze sconfitte nella seconda guerra mondiale - Italia, Germania e Giappone - ebbero uno straordinario rigoglio economico dopo che le amputazione belliche le avevano rimpicciolite.
Abbiamo perso tante illusioni, l’Italia rurale - per usare un termine che piaceva al fascismo - è diventata un’Italia industriale.
Ma per le esultanze e le ridondanze di quei giorni lontani dobbiamo avere non solo rispetto, ma anche affetto.
Lo scetticismo e il cinismo italiani cedettero il campo, per poco, a sentimenti generosi.
Prevedo l’obbiezione. La concezione della conquista era che i neri dovessero dar spazio ai bianchi. Quei bianchi dalle mani callose, capaci di sfiancarsi per far avanzare sui tratturi abissini i camion dell’intendenza. Un imperialismo dei poveri.
Del Boca ha in gran dispetto Mussolini e i comandanti militari italiani, e in gran simpatia il Negus Neghesti, o «re dei re».
Di quest’ultimo precisa il cursus honorum, davvero stupefacente. Un enfant prodige. Amministratore del distretto di Garamullata a 13 anni, governatore del Sidamo a 15, governatore dell’Hararino a 18, capo del governo e reggente a 25, Negus ed erede al trono a 36, Negus Neghesti a 38, dopo la morte dell’imperatrice Zaoditu. Da far invidia a Napoleone.
L’Etiopia era cristiana, ma la sua struttura sociale era feudale.
«Il traffico degli schiavi - scrive Del Boca - anche se non è più florido come ai tempi di Menelik, non è certo un fenomeno in via di estinzione».
Tale era in Europa la ripugnanza per quella pratica infame che quando il «reggente» ras Tafari, nel 1923, chiese che l’Etiopia fosse ammessa alla Società delle Nazioni - la stessa Società delle Nazioni, l’Onu del tempo, che avrebbe poi condannato l’invasione italiana - molti Paesi tra cui la Gran Bretagna, l’Italia, l’Australia, l’Olanda, la Norvegia e la Svizzera opposero un temporaneo altolà. Dopo alcuni mesi l’Etiopia fu accettata.
La tesi fascista secondo cui l’Italia avrebbe portato in quel territorio la civiltà, poggiava su elementi concreti.
Il primo condottiero della campagna, il quadrumviro Emilio De Bono - generale fascistissimo - improntò la sua azione anche a dichiarazioni e criteri di riscatto umano e sociale.
Il suo successore, Pietro Badoglio, non aveva di questi progetti o di queste fisime. Era un professionista della guerra, e come tale si comportò.
Era arrivato per vincere, se ne sarebbe andato a cose fatte, in gran fretta, incamerando ricompense altissime (Duca di Addis Abeba, la retribuzione di viceré d’Etiopia vita natural durante, una villa da tre milioni di lire d’allora a Roma).
Efficiente, metodico, autorevole, fu accompagnato da due figli e da una schiera di collaboratori fedelissimi.
Badoglio aveva molte qualità - ed ebbe modo di darne prova nella campagna coloniale - e un enorme difetto.
Nelle emergenze perdeva la testa.
Lo si vide nel 1917, quando il suo corpo d’armata, tra i più esposti all’offensiva austrotedesca di Caporetto, fu travolto e disperso.
Lo si rivide dopo l’8 settembre 1943, quando abbandonò ai tedeschi l’Italia e le truppe che la follia mussoliniana aveva disseminato in Europa, preoccupandosi soltanto di portare in salvo a Brindisi se stesso, la famiglia reale e un folto gruppo di generali fuggiaschi.
Incidenti di questo genere l’Etiopia non gliene riserbò.
Va dato atto che in più d’un momento Badoglio seppe tenere a freno le impazienze del Duce, aspirante stratega (volle poi esserlo nella Seconda guerra mondiale, e sappiamo tutti com’è finita).
Del Boca insiste molto su un punto che lo oppose polemicamente a Indro Montanelli: ossia sull’uso dei gas e di armi chimiche da parte dei comandi italiani.
Aveva ragione Del Boca, i gas furono usati (il Minculpop addebitava invece agli abissini, credo con prove inconfutabili, l’uso di pallottole «dum dum» che straziavano le carni dei feriti).
Ma aveva ragione anche Montanelli sostenendo di non aver mai visto, sul posto, l’impiego dei gas. Credo si possa ragionevolmente dedurne che i gas vennero utilizzati, ma non nella misura in cui il Negus pretese che lo fossero stati.
E non influirono in modo decisivo sull’esito di uno scontro impari.
Quando Badoglio marciò su Addis Abeba abbandonata dal Negus - che raggiunse Gibuti, prima tappa del suo esilio, con una fuga non molto diversa da quella di Pescara - dalle ambasciate europee gli arrivavano invocazioni perché facesse presto.
Bande di predoni si davano al saccheggio spargendo terrore e morte.
Con la conquista non arrivò la pace, arrivò invece la guerriglia.
Masnade armate scorrazzavano nell’immenso territorio.
Il 19 febbraio 1937 Rodolfo Graziani - nel frattempo divenuto viceré - fu ferito in un attentato. La rappresaglia italiana fu terribile e fece alcune migliaia di vittime.
Ciro Poggiali, un giornalista del quale sono stato amico, descrisse in un diario segreto, pubblicato nel dopoguerra, scene orribili.
Graziani - che come comandante in Africa settentrionale sarebbe poi apparso pavido e incapace - era in preda a un delirio repressivo.
Ne dà conferma questa allucinante comunicazione al ministro delle Colonie Lessona: «Persuaso della necessità di stroncare radicalmente questa mala pianta, ho ordinato che tutti i cantastorie, indovini e stregoni della città (Addis Abeba, ndr) e dintorni fossero arrestati e passati per le armi. A tutt’oggi ne sono stati rastrellati ed eliminati settanta».
Altro che il processo a Vanna Marchi.
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