lunedì 15 agosto 2011

Quegli antifascisti che quarant’anni fa rispettavano l’onore dei vinti

di Giano Accade

Porto, sui dibattiti che continuano a sollevare i libri di Giampaolo Pansa e sulla riproposizione isterica, in pieno Duemila, delle polemiche tra fascismo e antifascismo, un ricordo personale. Nel maggio del 1964 Randolfo Pacciardi, che aveva comandato in Spagna il battaglione di esuli antifascisti Garibaldi ed era poi stato, come esponente del Partito repubblicano, vicepresidente del Consiglio e ministro della Difesa con De Gasperi nei governi della ricostruzione, in un discorso a Roma all’Adriano aveva colto i primi segni di crisi del sistema che avrebbero portato una trentina d’anni dopo a Tangentopoli e aveva lanciato un movimento trasversale di proposta e di protesta: l’Unione democratica per la Nuova Repubblica. L’ispirazione era di tipo gollista: una Repubblica presidenziale, capace di superare, come era avvenuto poco prima in Francia, le inefficienze della partitocrazia. Pacciardi, grande anima democratica, sosteneva che democrazia è governo di popolo, non impotenza istituzionalizzata; e che in un sistema dove i governi duravano in media meno di un anno occorreva rafforzare il potere esecutivo, assegnandogli i tempi tecnici necessari per eseguire un programma. Nel suo discorso mi aveva colpito anche l’appello a non far più pesare sulle generazioni del Duemila i temi e i rancori del fascismo e dell’antifascismo, che avevano marcato la prima metà del Novecento.

Il giorno dopo, amici comuni mi portarono da lui per una conversazione al termine della quale Pacciardi mi propose la direzione del suo settimanale. L’intesa subito sorta tra noi era evidente, ma mi trattenne uno scrupolo e lo dissi: non me la sentivo di firmare un giornale in cui fossero comparse espressioni offensive contro il fascismo. Al che Pacciardi fece l’offeso: sapeva chi ero e non mi aveva offerto di collaborare con lui per poi infliggermi delle umiliazioni: «I combattenti» disse, «sono generosi e finita una guerra si stringono la mano, pronti a affrontare insieme i problemi del domani».

Da allora nel microcosmo di Nuova Repubblica ci siamo voluti bene e reciprocamente rispettati nella base comune di un forte sentimento nazionale. Quella è stata la mia scuola di democrazia: appresa da gente che aveva combattuto per la libertà senza far pesare né a me, né ai tanti giovani (da Franco Ficarelli a Enzo Maria Dantini a Lamberto Roch a Franco Papitto a Ugo Gaudenzi e tanti altri) che vennero da destra, i toni sgradevoli di un antifascismo livoroso. Strinsi la mano di Delfini senza unghie, torturato dalla polizia fascista per aver progettato un attentato a Mussolini; divenni grande amico di Giorgio Braccialarghe, che aveva comandato gli arditi del battaglione Garibaldi, firmato a Ventotene il manifesto europeista di Altero Spinelli e meritato una medaglia d’argento nella Resistenza); di Tomaso Smith, il direttore de Il Paese filocomunista, già eletto senatore con i comunisti e uscito dopo i fatti d’Ungheria; di Mario Vinciguerra, intellettuale azionista che aveva trascorso quattordici anni tra le prigioni e il confino fascista; di Gastone Boni di Cesena, partigiano che come suo primo processo di giovane avvocato difese un compagno di scuola della Decima Mas; della medaglia d’oro della Resistenza Edgardo Sogno e tanti altri, che non disprezzavano la scelta che avevo fatto io aderendo alla Repubblica sociale. E non perché allora avessi solo sedici anni. Perché dalla mia parte come dalla loro c’era anche gente anziana intelligente, anzi geniale, e rispettabile: Gentile, Marinetti, Pound, fra Ginepro, per ricordarne appena qualcuno.

Era chiaro per tutti noi che ci voleva poco (un insulto, un parente, il ricordo di un caduto, un maestro, una lettura, un momento d’entusiasmo) per finire o da una parte o dall’altra; ed eravamo d’accordo che scelte generose, disinteressate, rischiose, coraggiose, da qualunque parte fatte nella drammatica storia del primo Novecento andassero apprezzate come prove di carattere e messe tutte insieme all’attivo per un miglior futuro italiano.

Una memoria in cui naturalmente ognuno tenga alle proprie scelte, ma sappia rispettare anche quelle dell’altra parte, tra di noi è stata possibile: eppure non eravamo gente fredda, che si era imboscata, ma tutti da qualche parte volontari, che avevano rischiato o erano pronti a farlo, compresi i giovanissimi che si sarebbero trovati di lì a poco coinvolti negli anni di piombo. Tuttavia, per non farla troppo semplice, per non tracciare un quadro troppo zuccheroso, devo pure notare che a me quasi nessuno rivolse accuse di tradimento, mentre intorno a Pacciardi - personaggio storico dell’antifascismo più di La Malfa che collaborava alla Treccani, più di Giorgio Bocca che scriveva articoli antisemiti - corsero velenose insinuazioni di fascismo e il suo nome scomparve dalle rievocazioni della Rai-Tv sulla guerra di Spagna. E tutti insieme venimmo bersagliati da accuse di golpismo. C’è gente che campa di bile sulle divisioni del Paese e non sopporta che possano essere superate col tempo e soprattutto col cuore.

In conclusione: i temi di allora non sono più attuali. Sul nostro orizzonte non ci sono più imperi da conquistare o difendere, né dittature a cui opporsi. Restano le vanterie e i rancori di chi, essendosi gonfiato dalla parte vincente di retorica e di qualche più volgare vantaggio, teme che il ricordo delle zone oscure su cui Pansa ha proiettato luce, dei tanti morti dell’altra parte che dai suoi libri stanno ora emergendo per chiedere non vendetta, ma rispetto, riflessione, un segno della croce, possa impoverire anziché arricchire la storia dell’eroismo, della dedizione, della generosità che gli italiani seppero dimostrare anche nel dramma della guerra civile. È una contabilità dalla grettezza cretina e ormai condivisa da pochi quella secondo cui gli eroismi e i sacrifici di una parte dovrebbero elidere quelli dell’altra. Quelle capacità di dedizione all’idea di libertà, di giustizia sociale, di rispetto delle differenze razziali o religiose, di grandezza nazionale, d’onore e fedeltà alla parola data, alle alleanze, che si contrapposero anche se nell’animo di tanti erano valori comuni, sono un patrimonio da sommare, come ricchezza storica, genetica, caratteriale del popolo italiano. Capire che in una guerra civile ci sono stati anche gli altri - e che per tanti aspetti i coraggiosi di una parte e dell’altra si assomigliavano - accresce il significato reale di quella storia, la rende più autentica, meno retorica, meno artificiale, più vera. E dopo i libri di Pansa, che hanno avuto l’indiscutibile merito di far riemergere dall’oblio e quindi dalla falsificazione ufficiale le decine di migliaia di vittime dell’altra parte (ora dall’Archivio di Stato Aldo G. Ricci suggerisce altre fonti per la ricerca), occorre fare semmai qualche passo avanti e ricuperare di questi italiani uccisi e dimenticati anche le passioni, i pensieri, i moventi, le idee. Come hanno fatto tanti altri libri a cui è troppo spesso mancato il meritato successo e stanno facendo libri recenti di cui converrà riparlare. Penso al saggio del giovane Alessio Aschelter, Intransigenti e moderati a Salò. I casi di Borsani e Farinacci (Soc. Ed. Barbarossa), dove si documenta un appassionante contrasto di idee nella Repubblica sociale tra due personaggi di spicco che ci hanno infine lasciato la vita. E alla recentissima riedizione di un testo prezioso di Nicola Rao, La fiamma e la celtica (Sperling & Kupfer), su sessant’anni di neofascismo da Salò ai centri sociali di destra, che è indispensabile complemento a Cuori neri di Luca Telese. Ma penso anche alle riflessioni di chi si è esposto dall’altra parte nella miniguerra civile degli anni di piombo. Un confronto anche questo necessario tra generazioni per cui le idee sono state sangue proprio e degli avversari, come spesso avviene nella pesante macina della storia.

Credo si debba riconoscere ai nostri passati avversari dell’ultrasinistra, ora che anche quella piccola guerra civile è finita se non per gli ultimi ubriachi del sabato sera, che due secoli di cultura delle rivoluzioni (francese, liberalnazionale del 1848, d’ottobre, maoista, cubana, sessantottina e chi più ne ha più ne metta) di cui siamo stati tutti nutriti dalle elementari sino agli studi universitari non potevano terminare senza che i più animosi ci provassero persino oltre le rivolte di Berlino, d’Ungheria, oltre il rogo di Jan Palach, sino al giorno prima che a Berlino cadesse il Muro e a Mosca l’Unione Sovietica.

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