lunedì 28 marzo 2011

EUROPA 1939-1979 Dalle vicende dell'ultimo conflitto mondiale alle prospettive per il domani



di Piero Sella

A quarant'anni dallo scoppio del conflitto, i nuovi equilibri mondiali, la crescita della Cina, ma, in particolare, quella degli stati arabi, possono permet­tere all'Europa di rimettere in discussione il ruolo subalterno che le assegnò l'assetto post-bellico.

Il lungo periodo di eclissi non va però dimenticato, esso è stato determina­to da precise responsabilità e, sviscerarle, ci pare un contributo positivo, neces­saria premessa per indirizzare su un binario sicuro i futuri rapporti internaziona­li dell'Europa.

Numerosi sono stati, negli ultimi mesi, gli scritti sulla seconda guerra mon­diale ed era speranza generale che ne uscissero rievocazioni politicamente com­plete, discussioni ampie e precise valutazioni.

Certamente gli anni trascorsi potevano considerarsi sufficienti ad assicurare una definitiva ricostruzione dei fatti e a far perdere virulenza alle polemiche più esasperate.

Era, cioè, possibile passare dalla cronaca alla storia con meditato distacco e giudizi più freddi. Nella sostanza, però, questa legittima attesa è andata in buo­na parte delusa.

Accese partigianerie e falsificazioni propagandistiche si sono puntualmente ripresentate e le rievocazioni sono rimaste su un piano di genericità, non sono, cioè, servite ad approfondire, a capire di più.

La realtà storica è stata messa, ancora una volta, al servizio della linea politica prescelta e sono stati lasciati in ombra fatti di grande importanza per illuminarne altri, particolari, marginali.

Sebbene la realtà del poi macini spesso impietosamente le convinzioni e le illusioni del prima, tuttavia, nessuna tesi nuova che prendesse atto di ciò è venu­ta a turbare il coro della storiografia e, di conseguenza, le discussioni, il dibatti­to, il confronto, per i quali, in apparenza, tutti smaniano, sono in effetti mancati.

Il ristagnare dell'indagine storica è psicologicamente sostenuto dal senso di sbigottimento che ha colpito gli spiriti europei nel constatare il crollo della po­tenza continentale e dalla sensazione, collegata, di ineluttabilità della situazione di quasi colonizzazione che ne seguì.

Il rassegnato adattamento nel quale il continente ancora oggi vive, ha an­che motivazioni più strettamente politiche.

È possibile, tuttavia, avviare un azione rigeneratrice. Essa, preso il via dal­l'abbandono di ogni preconcetto ideologico, dovrà condurre ad una approfondi­ta valutazione del comportamento politico delle parti in causa durante il conflit­to, alla conseguente revisione critica dei giudizi sui rapporti internazionali dal dopoguerra in poi e portare al ripensamento degli attuali equilibri.

L'autocritica non è il forte dei politici di oggi, tesi a voler gestire persino il proprio fallimento. Attendersi, quindi, la svolta rinnovatrice da una loro deci­sione ragionata ed autonoma è impensabile. Non solo essi sono privi di fantasia, lungimiranza e sane ambizioni, ma sono anche imprigionati da enormi interessi intercontinentali.

Sanno, per di più, che altri e migliori modelli di Europa sarebbe possibile realizzare, ma sanno altrettanto bene che ciò significherebbe la perdita delle posizioni di preminenza da loro acquisite in questa Europa, posizioni che si ostinano, così, a difendere per interesse materiale e miope patriottismo di parti­to.

Continuano essi, perciò, a prestare copertura anche al gioco della tutela sull'Europa, di Usa e Urss, entrambe interessate al mantenimento della situa­zione attuale.

La svolta auspicata non potrà, perciò, che derivare da un profondo, radica­le cambiamento politico.

Riteniamo che, alla lunga, del resto, le popolazioni europee non potranno evitare di prendere posizione a difesa dei loro stessi interessi e quei politici che si arroccheranno a difesa di interessi che europei non sono, abbiano il solo destino di combattere battaglie di retroguardia per un esercito in fuga.

Per accelerare questa presa di coscienza nel senso di una autonomia euro­pea, va dichiarata guerra aperta ad ogni forma di immobilismo culturale posta in atto attraverso i suoi condizionamenti, dal regime.

È nostro obbiettivo, stimolando ogni capacità di reazione, suscitare le pre­messe di pensiero dalle quali possa scaturire il riesame delle grandi scelte politi­che.

Ricerca e dibattito sui punti chiave del passato volutamente trascurati, indi­spensabili per determinare la piena, necessaria comprensione dei fatti storici, rientrano in questo compito.

Riteniamo, quindi, utile accertare, col senno di poi in aiuto, cause e re­sponsabilità del conflitto, fino ad oggi, non ammesse o sorvolate, verificare quanto delle enunciazioni della «Carta Atlantica» sia stato effettivamente messo in pratica, riconoscere, infine, quanto ancora l'Europa di oggi dipenda da quegli eventi, ormai lontani, ma che continuano, come una sostanza radioattiva a far sentire i loro effetti e valutarne le conseguenze su scala continentale e mondiale attraverso l'esame degli equilibri internazionali post-bellici.

Puntualizzato, attraverso tale esame, lo stato di salute dei vecchi equilibri determinati dal conflitto, è nostro intendimento giungere a delineare la nuova politica che possa portare alla costruzione di un equilibrio diverso e più vantag­gioso per l'Europa.

Responsabilità sovietiche e degli alleati nello scoppio del conflitto

Sospette, perché superficiali e ingiustificatamente benevole, ci appaiono le interpretazioni del comportamento sovietico per gli anni 39-41. L'Unione So­vietica viene per lo più presentata come potenza aggredita, dimenticando le grosse sue responsabilità antecedenti il coinvolgimento diretto nel conflitto.

Il patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto '39 con l'annesso accordo di spartizione della Polonia, è la svolta di politica estera che consente alla Germa­nia di porre fine ad ogni esitazione nei confronti della Polonia, trincerata nella sua assurda indisponibilità a trattare.

Sollevata dal timore che alle minacce anglo-francesi potesse far seguito un intervento sovietico contro di essa, la Germania ha finalmente via libera. I tede­schi non ebbero dubbi nel ritenere che gli alleati davvero intendessero offrire una garanzia alla Polonia e ritennero mossa vincente il loro accordo con i sovie­tici.

Pensavano che, coinvolta l'Urss in un attacco contro la Polonia, gli alleati venissero a trovarsi con le spalle al muro, sia per l'impossibilità militare di ga­rantire la Polonia contro i due potenti vicini coalizzati, sia a maggior ragione di scatenare un conflitto punitivo, di rappresaglia, contemporaneamente contro ambedue.

Grande, quindi, l'euforia tedesca e, occorre riconoscerlo, del tutto logica, sol che la garanzia alleata alla Polonia, non fosse stata quello che i fatti succes­sivi dimostrarono: un tranello di Francia e Inghilterra.

Nonostante mai nella storia prima di quel momento, da parte inglese si fosse dimostrato un interesse, spinto al punto da gettarsi in un conflitto, per un paese della lontana Europa orientale, tuttavia la propaganda bellica alleata so­stenne sempre che la guerra fu dichiarata per difendere la Polonia.

Non fu mai in grado, però, tale propaganda, di spiegare come mai la rea­zione all'attacco contro la Polonia, nel momento in cui questo divenne realtà, ebbe ad indirizzarsi solamente contro uno degli aggressori, la Germania, e non contro l'altro aggressore, l'Urss, tanto più che è storicamente dimostrato che l'attacco fu concertato e i sovietici non furono certo quelli che territorialmente ne trassero i minori vantaggi.

Il momento storico dello scoppio della seconda guerra mondiale non fu quindi determinato dall'esplodere di un conflitto di limitata importanza, anche perché presto esaurito nel tempo, in una regione periferica del continente, re­gione per di più geograficamente non ben delimitata ed etnicamente mista (in Polonia i cittadini di nazionalità polacca erano solo il 60%).

Il momento dello scoppio del secondo conflitto mondiale fu invece la di­chiarazione di guerra franco-inglese contro la Germania.

* * *

Dopo aver dichiarato guerra alla Germania, gli alleati, si comportarono in modo tale per cui, l'opinione che i motivi del conflitto vadano cercati altrove e che il loro interesse per la Polonia fosse del tutto inesistente, ne esce rafforzata.

Essi, infatti, non mossero un dito a difesa della Polonia e in seguito, non solo tacquero quando i sovietici a Katyn eliminarono quindicimila ufficiali, cioè gran parte della classe dirigente polacca, e non portarono alcun aiuto ai Polac­chi insorti a Varsavia nel 1944 contro i Tedeschi, ma quel che è più grave, a guerra conclusa, non fecero difficoltà alcuna a consegnare il paese ai sovietici, sotto il cui tallone ancora si trova

Questo fu ciò che alla Polonia portarono la garanzia inglese ed il conse­guente conflitto mondiale.

Che le cosiddette «garanzie automatiche», concesse dall'Inghilterra anche ad altri paesi, fossero destinate a funzionare a senso unico, cioè erano valide, la parola veniva mantenuta, solo quando c'era di mezzo la Germania, fu riconfer­mato pochi mesi dopo, quando la Romania, che unitamente a Polonia e Grecia «godeva» di una delle suddette garanzie, fu aggredita dai sovietici.

Questa volta gli inglesi nulla trovarono da eccepire.

* * *

Tedeschi e sovietici, ultimate il 29 settembre 1939 le operazioni di occupa­zione del territorio polacco, si riuniscono a Mosca a livello di ministri degli esteri. Viene dato alla stampa un comunicato che è facile comprendere come oggi non trovi ospitalità in alcun testo.

In tale comunicato congiunto, si sostiene che, «terminata la campagna di Polonia resa necessaria dagli errori del precedente trattato di pace (tesi che è molto difficile confutare) e dalla garanzia franco-inglese che aveva spinto i po­lacchi a rifiutare ogni trattativa, appare evidente che non esiste alcun motivo valido per proseguire nel conflitto, fino a quel momento solo dichiarato e, qua­lora malauguratamente questo dovesse invece effettivamente passare alla fase guerreggiata, la responsabilità del conflitto mondiale che ne sarebbe seguito, sarebbe toccata interamente a Francia e Inghilterra».

Sempre tenaci nelle loro convinzioni, i comunisti condividono ancora oggi questo giudizio storico che porta la prestigiosa firma del loro Molotov?

I fatti immediatamente successivi contribuiscono a chiarire ulteriormente le posizioni in campo: il 6 ottobre, pochi giorni dopo, Hitler in un discorso alla Camera tedesca, svolgeva importanti argomentazioni. Rilevato come l'assurdità dell'ingerenza britannica in un settore strategico ad essa tradizionalmente estra­neo mettesse in luce il carattere pretestuoso della guerra, proseguiva testual­mente:

«Se Quarantasei milioni di Inglesi pretendono di dominare su quaranta milioni di chilometri quadrati della superficie terrestre, non è un'ingiustizia che ottantadue milioni di tedeschi rivendichino il diritto di vivere su ottocentomila chilometri quadrati di territorio».

E ancora:

«Sarebbe pazzia distruggere milioni di vite umane e centinaia di miliardi di beni per ristabilire lo stato polacco che già, fin dalla sua origine, fu definito da tutti i non polacchi un aborto politico. Quale altro motivo c'è per continuare a battersi? Ha avanzato forse la Germania verso l'Inghilterra una qualche pretesa che minacci l'impero britannico o che ponga in pericolo la sua esistenza?

No, la Germania non ha formulato pretese del genere né contro la Francia né contro l'Inghilterra.

Se la guerra dovesse avere inizio, i patrimoni nazionali dell'Europa saranno dissipati in munizioni, mentre i popoli si dissangueranno sui campi di battaglia.

La Germania è pronta a discutere la pace e non ha paura di essere tacciata di viltà nel dichiararlo.

Prendano ora la parola quei popoli e i loro capi che sono del mio stesso parere. Respingano la mia mano coloro i quali credono di vedere nella guerra la soluzione migliore».

* * *

Ma le proposte di Hitler non vennero accettate neppure come base di di­scussione e, nemmeno nei successivi mesi invernali, riconsiderate.

Cosa avrebbe potuto e dovuto spingere gli alleati a riconsiderarle?

Il crescere della potenza e dell'aggressività sovietica.

Mentre la Germania, con le armi al piede, tentava ogni strada diplomatica per evitare l'estendersi del conflitto, affiancata, ma infruttuosamente, da altri governanti di buona volontà come i Reali d'Olanda e del Belgio, la Russia sovietica dilagava in Europa con una catena di aggressioni senza precedenti nella storia moderna e tali da dover destare le più serie preoccupazioni, dato che l'intera situazione europea ne risultava strategicamente modificata.

È da rilevare la reticenza degli storici nel presentare un quadro completo di queste aggressioni. Limitatissima è infatti, la disponibilità di fonti storiche e, solo di quando in quando, ci si imbatte in fuggevoli cenni sull'argomento, pro­prio quando il tacere non è possibile per le lacune materiali e temporali che creerebbe.

L'egemonismo sovietico ha perciò origini lontane e non può certamente essere scusato solo per il fatto di essersi poi incamminato su una strada gradita ai commentatori storici e politici di oggi.

Prima di procedere nel discorso, proprio per favorirne la piena compren­sione, ci pare il caso di ricordare queste aggressioni con la necessaria comple­tezza.

Le aggressioni sovietiche 1939-1940

Settembre J939 - Incuranti della garanzia franco-inglese e di un patto di non aggressione riconfermato solo pochi mesi prima (31 maggio 1939) dal loro ministro degli esteri Molotov, i sovietici invadono la Polonia, impegnata ad ovest dalle truppe germaniche. Entrano in Polonia un centinaio di divisioni, vengono catturati migliaia di militari polacchi, tra cui gli ufficiali che verranno poi massacrati a Katyn; altre migliaia di civili vengono deportati all'est.

Novembre 1939 - Anche alla Finlandia l'aver firmato con l'Urss un patto di non aggressione non serve a nulla. Le truppe comuniste il 30 novembre la inva­dono. Dopo un tragico inverno di combattimenti, è dei sovietici su Helsinki, il giorno di Natale, il primo bombardamento terroristico di tutta la guerra, i fin­landesi sono costretti a deporre le armi. L'unico «aiuto» che i finlandesi otten­gono dall'occidente è l'espulsione dell'Urss accusata di aggressione, il 14 di­cembre 1939, dalla Società delle Nazioni, la vecchia ONU.

La grave condanna morale subita, non impedirà ai sovietici di sedere a Norimberga tra coloro che giudicarono i capi della Germania nazista accusati di guerra di aggressione.

Giugno 1940 - I sovietici, il 26 giugno 1940, pretendono, con un ultimatum dalla Romania, che godeva di una garanzia inglese come la Polonia, la consegna di Bessarabia, Bucovina e parte del principato di Moldavia.

La garanzia inglese, come già detto, rimane inoperante e l'evacuazione dei territori oggetto dell'ultimatum è inevitabile; essa avviene sotto la costante pressione dei sovietici incalzanti migliaia di persone in fuga.

Pochi giorni dopo, mentre dai territori occupati iniziavano le ormai tradi­zionali deportazioni, i sovietici, con un ulteriore colpo di mano, si impossessa­vano senza alcuna considerazione per gli accordi internazionali che regolavano la navigazione del fiume, di tutto il delta del Danubio. Tale episodio segnò il passaggio, attraverso una crisi politica interna, della Romania nel campo del­l'Asse.

Luglio 1940 - È la volta dei Paesi Baltici: Lettonia, Lituania, Estonia. In tali paesi, già nell'ottobre precedente, l'Urss aveva preteso basi militari, ora, 21 luglio 1940, scatta con maggiore facilità l'occupazione totale. I piccoli stati bal­tici, sette milioni di abitanti in tutto, vengono annessi dopo essere stati comples­sivamente accusati di «complotto contro l'Urss». Inizia subito la guerriglia an­ti-bolscevica; tra il luglio 1940 e il maggio 1941 vengono scoperti settantacin­que gruppi clandestini anticomunisti. La repressione sovietica è durissima. In Lituania sono arrestate trentacinquemila persone, centomila tra Lettonia ed Estonia.

La «Carta Atlantica»

Mentre per effetto di queste azioni aggressive un enorme territorio, dal Mar Glaciale Artico al Mar Nero, passava in mano comunista, gli Inglesi, quelli che erano entrati in guerra per difendere un piccolo popolo, erano a Mosca con il loro ministro degli esteri Eden a discutere i piani della futura collaborazione bellica anglo-russa.

Gli Inglesi, infatti, nonostante la spartizione della Polonia e il preoccupante accrescersi della potenza sovietica, erano rimasti fermamente ancorati all'idea di muovere guerra alla Germania. L'insistere in tale atteggiamento dovette es­sere giustificato dagli alleati, consci dei lutti e delle distruzioni che la loro azio­ne avrebbe provocato all'Europa, con nobilissime affermazioni di principio.

L'ingenuità di tali affermazioni poteva di per sé farle ritenere del tutto inattendibili, ma la serietà e la solennità con la quale vennero enunciate, unita­mente all'apparente mancanza di altri motivi di contesa, ottennero il risultato di imporle all'attenzione della pubblica opinione.

A cose finite, dei principi allora enunciati, non si parlò più, ma non è pos­sibile dimenticare che proprio attraverso quelle solenni promesse, gli alleati convinsero molti popoli a lottare con loro e tolsero a molti degli avversari, i più tiepidi e i più ingenui, il mordente necessario al proseguimento della lotta.

Gli alleati riassunsero in un documento ufficiale, che prese il nome di «Carta Atlantica», i motivi che li spingevano a combattere e organizzarono, del documento, una diffusione propagandistica senza precedenti.

Eccone due tra i capoversi più significativi «La guerra viene combattuta senza mirare ad alcun ingrandimento territoriale e si esclude qualsiasi cambia­mento che non sia in accordo con la volontà liberamente espressa dai popoli interessati».

«Sarà rispettato il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale vivere e si ristabilirà l'auto-governo nelle nazioni che ne sono state private con la forza».

Gli accordi di Yalta e i trattati di pace seguiti alla cessazione delle ostilità, disegnarono un'Europa ben diversa da quella che ci si sarebbe potuto aspettare prevedendo la vittoria degli estensori della Carta Atlantica. Le conseguenze politiche del conflitto furono per l'Europa gravissime. Nessuna popolazione poté esprimere la sua volontà circa le nuove frontiere imposte dai vincitori e per milioni di persone l'unica salvezza fu la fuga. Milioni di profughi (diciotto mi­lioni solamente i tedeschi) si ritirarono di fronte all'avanzata comunista.

Fu codificata la servitù dei popoli dell'Europa orientale, la Germania smembrata.

Per noi italiani a rendere ancora più cocente la vergogna dell'8 settembre, non ci fu alcun trattamento di particolare benevolenza. Ben scarsa, fin da allora, la considerazione internazionale goduta dagli statisti della partitocrazia. Quelli di oggi si muovono nel solco di tale negativa tradizione, anzi hanno dimostrato di saper fare... di meglio.

Vogliamo, qui, a tale proposito, aprire una parentesi per riferire alcune considerazioni circa il capolavoro della diplomazia democristiana, il trattato di Osimo, la cui esistenza ha suscitato problemi che sono tuttora da risolvere e determinato il sorgere di fermenti politici suscettibili di imprevedibili sviluppi.

Il trattato di Osimo

Il trattato di pace del 1947, stabiliva la creazione del territorio libero di Trieste, la cui effettiva nascita fu impedita da grosse e insuperabili difficoltà internazionali. La Jugoslavia però, già soddisfatta dal trattato di pace con la cessione dei territori istriani, nulla poteva più avere a pretendere. Successiva­mente al trattato di pace, nel 1975, a Helsinki gli anglo-russi, preoccupati di un possibile risveglio del nazionalismo europeo e, quindi, di un turbamento dello status quo, avevano voluto che tutti gli stati europei dichiarassero di loro gra­dimento le frontiere quali erano uscite dalla seconda guerra mondiale. Anche la Jugoslavia aderì a tali accordi.

I nostri governanti non approfittarono degli accordi di Helsinki, per invo­care, sia pure tardivamente, l'applicazione del trattato di pace e chiedere, quin­di, l'allontanamento delle truppe jugoslave dalla zona B del territorio libero di Trieste illegalmente occupata e il loro ritiro entro i confini fissati alla Jugoslavia dal trattato di pace. Anzi, dopo aver più volte smentito all'opinione pubblica nazionale, attraverso stampa e parlamento, l'intenzione di farlo, iniziarono trat­tative con gli slavi e le conclusero con il trattato di Osimo.

Tale trattato, che oggi viene falsamente presentato dalla stampa come un accordo per insediamenti industriali nel Carso di più o meno valida opportunità, riconosce invece alla Jugoslavia la piena sovranità sulla zona B del territorio libero di Trieste, cento chilometri di coste e una superficie pari a quella della provincia di Milano; un territorio, sul quale, il costante orientamento della Su­prema Corte di Cassazione ha stabilito mai essere venuta meno la sovranità italiana.

È venuta così a crearsi, a vantaggio della Jugoslavia, una situazione per cui essa, senza contropartita alcuna, ha ingrandito ulteriormente il proprio territo­rio, quasi come se, dopo il 1947, avesse vinto un'altra guerra.

Un lembo di territorio nazionale con città italianissime come Capodistria, dove D'Annunzio ricorda nacquero sei Dogi della Serenissima Repubblica di Venezia, Isola, Pirano, Portorose, Umago, Cittanova, è stato consegnato allo straniero.

È nostro intendimento che quanto qui esposto venga inteso come segnala­zione alla Magistratura per l'apertura del relativo procedimento giudiziario ai sensi dell'articolo 241 del Codice Penale: «Attentati contro la integrità, l'indipendenza o l'unità dello Stato. Chiunque commette un fatto diretto a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l'indipendenza dello Stato, è punito con la morte».

È prevedibile la linea di difesa degli accusati, la loro autentica meraviglia di democratici, nel vedersi perseguiti nonostante il voto parlamentare di appro­vazione del trattato.

Ma come non abbiamo mai ritenuto possibile elevare il numero di per sé e, quindi, qualsivoglia maggioranza, a criterio di verità e di giustizia, non essendo­vi appunto tra verità e numero e tra giustizia e maggioranza nessun nesso logi­co, così non riteniamo il voto parlamentare possa discriminare i politici implicati nel fatto.

Qualche attenuante, quella ad esempio di aver agito nel contesto di un sistema istituzionalmente costruito su principi di irresponsabilità, potrà tuttalpiù venir riconosciuta a coloro che espressero il loro voto favorevole al trattato senza, tuttavia, determinarlo con una attiva partecipazione di primo piano.

Lo sfruttamento politico del conflitto

Anche gli stati europei, usciti militarmente vincitori dal conflitto, Francia e Inghilterra, non solo non accrebbero la loro potenza ma dovettero, in breve, constatare come l'aver agito per conto e a vantaggio di altri si fosse rivelato nei risultati, uno sciocco suicidio.

Sotto qualsiasi visuale se ne esaminino i risultati, la guerra segnò per l'Eu­ropa intera una disastrosa sconfitta militare e anche morale, in quanto i sacrifici delle nazioni coinvolte nella lotta non sortirono alcun risultato, anzi, per molte popolazioni la realtà uscita dal conflitto fu senz'altro peggiore della precedente.

La ricerca di nuove strade che portino, se non al recupero delle posizioni perdute nel conflitto, almeno al traguardo della piena indipendenza politica e della forza militare necessaria per conservarla, deve passare per gli europei at­traverso l'accettazione piena di questa realtà.

Agli storici europei della democrazia, il coraggio di questa ammissione è finora mancato; non hanno voluto riconoscere, per di più, che è stato proprio il trionfo delle loro idee a segnare l'affossamento della potenza continentale. Hanno eluso, essi, l'indagine sugli errori di valutazione che hanno condotto il continente al disastro e, invece di procedere ad un serio esame che automatica­mente doveva condurre al rigetto di quelle posizioni che accettano il perpetuarsi di egemonie esterne a danno dell'Europa, hanno scelto testardamente, non po­tendo nella sostanza negare la sconfitta, il rallegrarsi di averla subita.

Identificarono nel male i regimi degli sconfitti, sui quali a prezzo dello sfa­celo dell'intera Europa fu riportata la vittoria, e nella loro sconfitta il trionfo del bene.

A sostegno ditale tesi manicheistica e, quindi, antistorica, la verità dei fatti venne adattata a tesi precostituite; vennero ingigantite le colpe e i crimini di guerra degli sconfitti e conclusioni da laboratorio infarcite di reticenze e falsità vennero presentate attraverso i mass-media alla pubblica opinione come assio­mi indiscutibili. Tali conclusioni, per l'appunto dimostrate come vere, per il sol fatto di essere state enunciate, sono il cupo monotono scenario che da trent'an­ni ospita la recita della storiografia europea.

Estrema, infatti, è l'intolleranza con cui quasi ogni settore della stampa reagisce contro chiunque affacci dubbi o richieste di chiarimenti circa quanto, senza una adeguata documentazione, è oggetto di diffusione culturale.

Ma il bisogno di nuovi spazi di libertà nel campo dell'informazione e della cultura affiora, specie tra i giovani che non si accontentano più di vuote affer­mazioni propagandistiche, soprattutto quando hanno il sospetto che queste ten­dano a mascherare una gravissima forma di terrorismo ideologico.

Nessun argomento, deve essere escluso dalla discussione, tanto meno quelli che, presentati come verità già acquisite, formano, nelle intenzioni di chi li ha manipolati, il presupposto in base al quale impedire all'avversario politico di prendere la parola ed organizzarsi.

Un elogio a tale proposito va fatto alla rivista «Storia» della Mondadori, che sfidando ogni anatema, dal numero di agosto '79, ha dato spazio al proble­ma dell'esistenza o meno di camere a gas nei campi di concentramento tedeschi, ospitando un'intervista del francese Faurisson e le repliche di quanti con esso non si trovavano d'accordo.

È necessario che, su tale linea di revisione storica e di apertura al dibattito, ad una seria analisi delle denunce alleate e comuniste sul comportamento degli sconfitti, si accompagni un'altrettanto accurata ricerca sulle possibili atrocità commesse dai vincitori.

E ciò, oltre che per stabilire la verità storica dei fatti, anche per togliere all'opinione pubblica il sospetto che si sia fin qui agito solo in base al collaudato «Vae victis» onde rendere incolmabile il vantaggio politico acquisito.

L'istruttoria a carico dei vincitori, allo scopo di giungere ad una Norimber­ga, ovviamente ormai solo storica e morale, dovrebbe riguardare ed elenchiamo esemplificativamente:

Violazioni del Diritto Internazionale - Occupazione di territori di paesi neu­trali - Islanda - Isole Azzorre - territori francesi d'oltremare - invasione con­giunta sovietica e anglo-americana dell'Iran - aggressioni sovietiche, oltre quelle già ricordate, operate sul finire del conflitto, Bulgaria (ottobre 1944), Giappone (agosto 1945), attaccato a tradimento tra il lancio della prima e quello della seconda bomba atomica americana, nonostante con esso i sovietici avessero in vigore un trattato di non aggressione e, fossero stati da esso incaricati come potenza amica, di avviare trattative di pace con gli alleati.

Violazioni del Diritto Bellico e della Convenzione di Ginevra - Maltratta­mento di prigionieri di guerra - atrocità di truppe combattenti - stupri, violenze, saccheggi, specie per quanto riguarda l'invasione sovietica dell'Europa orienta­le; violenze di truppe di colore, in particolare marocchine e australiane, portate sul continente ed impiegate in Italia - stragi commesse dai partigiani comunisti jugoslavi a danno delle popolazioni italiane della Dalmazia e della Venezia Giu­lia - appoggio in genere alla guerra partigiana ed al terrorismo.

Violazioni del Diritto delle Genti - Deportazioni e genocidio di interi gruppi etnici da parte dei sovietici - illegalità a danno di civili, come ad esempio l'in­ternamento negli Stati Uniti di cittadini solo a causa della loro origine giappo­nese - bombardamenti terroristici, uso di bombe al fosforo, lancio delle bombe atomiche.

L'equilibrio post-bellico e l'internazionalismo.

Stabilità dell'intesa Usa-Urss

L'attuale equilibrio internazione è, in sostanza, ancora quello uscito dal conflitto, ed è frutto della debolezza europea e dello strapotere delle due grandi nazioni, sole vincitrici del conflitto. Appare chiaro, infatti, come la guerra non abbia determinato affatto un travaso di potenza tra nazioni del nostro continen­te, ma, tra nazioni europee e nazioni extra-europee. La leadership mondiale europea, in sostanza, con la guerra mondiale cessò, fu come risucchiata in un buco nero e attraverso di esso, come ipotizzano le moderne teorie cosmologi­che, si riversò in un altro universo, quello dell'imperialismo comunista e del neo-colonialismo statunitense.

A partire dall'idillio di Yalta, Stati Uniti e Urss si occuparono della gestio­ne condominiale dei vantaggi tratti dal conflitto: l'eclissi dell'Europa proseguì a loro congiunto vantaggio e lo stesso territorio del continente fu intaccato nella sua indipendenza. La spartizione di esso in due zone di influenza ben delimita­te, in due blocchi di paesi costretti a reggersi con sistemi politici diversi, bloccò la situazione in uno status quo positivo per Usa e Urss, e negativo per noi europei.

Per anni e anni dal 1945 in poi, la conclusione di ogni mossa importante della politica internazionale fu univoca: l'Europa ne trasse sempre detrimento.

Privata delle zone di influenza residue nel terzo mondo, minacciata nella vita stessa della sua economia attraverso crisi monetarie ed energetiche fabbri­cate ad arte, alle quali essa nulla poteva opporre, l'Europa subisce da anni anche le debilitanti conseguenze dell'operato di CIA e KGB.

Le alleanze militari cui Usa e Urss diedero vita furono poi uno strumento di controllo e di ingerenza continua. Vorrebbero esse far credere, ancora oggi, di aver dato vita a NATO e Patto di Varsavia per fornire altruistica, disinteres­sata protezione.

È evidente, invece, come in caso di conflitto, l'Urss attraverso il patto di Varsavia, intenda servirsi dei satelliti comunisti come ponte per l'invasione, mentre il compito dei paesi della NATO al di qua dell'Atlantico, è solo quello di tener lontana la guerra dagli Usa e dar loro il tempo di organizzarsi a difesa.

Nel caso di una pace durevole, come riteniamo sia negli intenti delle super­potenze, la frantumazione della potenza europea è comunque un obiettivo già raggiunto, e l'apocalisse nucleare una minaccia contro chiunque intenda rimet­tere le cose in discussione.

L'alleanza che unì Usa e Urss durante il conflitto e che, ancora oggi dagli storici democratici è giudicata innaturale e determinata da fattori casuali, appa­re ben salda e collaudata. Si deve anzi notare come, ad un miglioramento della situazione politico-economica europea, abbia corrisposto una complessiva dimi­nuzione degli attriti tra Usa e Urss e una progressiva disponibilità ad intese e collaborazioni in ogni settore.

L'alleanza del tempo di guerra non è affatto casuale, tanto è vero che essa non fu altro che la ripetizione di una alleanza già funzionante nel primo conflit­to mondiale. E il ricordo di questo evento storico è tanto più significativo in quanto all'epoca del primo conflitto mondiale, la Russia era governata dallo Zar.

Ciò dimostra come la vocazione anti-europea di Unione Sovietica e Stati Uniti sia soprattutto strategico-geografica, e la sua continuità nel tempo, non è difficile farla risalire addirittura alle intese anglo-russe dell'epoca napoleonica.

Si tratta perciò di un fatto permanente, che impedirà tra le due superpo­tenze ogni vero scontro; continueranno gli attriti per motivi concorrenziali ai confini delle rispettive zone di influenza, ma con chiari limiti.

Neppure significativa a tale proposito la possibile obiezione: ma Usa e Urss sono rette da sistemi politici diversi.

Certo lo sono. Ma il loro agire nei confronti delle altre nazioni, convergen­te negli obiettivi ed ugualmente dannoso, è generato dall'internazionalismo che impronta la filosofia di vita di ambedue.

L'internazionalismo manovrato dalla Russia sovietica, ha per leva la lotta di classe, sfrutta invidie ed obiettive ingiustizie sociali ed opera, annullando ogni frontiera, attraverso le quinte colonne del proletariato comunista.

L'internazionalismo di emanazione statunitense, proprio di un paese di sradicati, privo di identità nazionale, esso stesso strumento del grande capitale, agisce attraverso banche, multinazionali, agenzie di stampa, suggerimenti cultu­rali, diffondendo su scala mondiale la Weltanschauung consumistica.

Ne risulta, comunque, un complessivo modello di vita materialista, privo di sostanziali scelte di libertà per l'uomo, gradito alle dirigenze di ognuna delle due super potenze.

Attraverso di esso è possibile snaturare l'identità delle nazioni, ed ogni obbiettivo contro di esse diventa, con minori difficoltà, raggiungibile.

L'internazionalismo vuole colpire quei principi che fino a ieri hanno con­sentito il sano e ordinato vivere civile, e lotta contro interessi, sentimenti nazio­nali, e tradizioni, onde creare un vuoto di potere che possa da altri venire occu­pato.

Quanto più gli effetti destabilizzanti della sua azione si fanno sentire nel corpo degli organismi nazionali, tanto più le minoranze internazionaliste ne escono rafforzate.

In situazioni di sfacelo degli ordinamenti tradizionali, infatti, ogni minoran­za politica e/o economica ben organizzata, e con adeguati agganci, è destinata ad emergere fatalmente, come la battigia al giungere della bassa marea. A mag­gior ragione ciò si verifica quando la situazione di sfacelo viene organizzata in modo istituzionale, essendo cioè, le forze internazionaliste costituite proprio allo scopo di determinarla, ben vaccinate contro il morbo che vanno, ad arte, diffondendo.

Quando le nazioni sono completamente svuotate del loro contenuto spiritua­le, l'opera è compiuta. Le strutture esterne possono anche restare in vita, ma sono solamente, ormai, vuota apparenza; vengono lasciate lì solo perché il compito di governo sia facilitato coll'evitare ai sudditi troppo bruschi cambia­menti di abitudini.

Considerando la realtà dell'internazionalismo senza la necessaria attenzio­ne è possibile quindi non rendersi conto di cambiamenti importantissimi.

Nei paesi comunisti ad esempio, c'è sempre un esercito, una bandiera, e nelle popolazioni, scatta ancora il riflesso condizionato del patriottismo, anche se non c'è più una patria, ma solo le strutture di uno stato, operanti contro l'interesse dei cittadini stessi.

L'intesa Usa-Urss non è solo una costruzione teorica utile alla dimostra­zione di una tesi.

Basta ripercorrere le tappe più significative della politica internazionale e di quella economica degli ultimi decenni per rendersene conto.

Va ricordata la riconsegna ai sovietici delle migliaia di combattenti russi, cosacchi, ucraini che alla fine del conflitto pensavano di trovare rifugio in occi­dente, e che invece furono poi fucilati dai comunisti.

Il disumano cinismo dimostrato dagli statunitensi in quell'occasione ha tro­vato ulteriore, ripetuta conferma, con la riconsegna ai sovietici di singoli profu­ghi anti-comunisti, e con l'accettare di equiparare ai terroristi, chi ha dovuto ricorrere al dirottamento aereo, solo perché privo di mezzi legali per andarsene da un paese comunista.

Ed ecco il mancato aiuto agli insorti anticomunisti di Berlino, 1953, di Potznan e di Ungheria, 1956, la vergogna del muro di Berlino, 1961, l'abban­dono degli esuli cubani anticomunisti impegnati nell'attacco a Cuba nella Baia dei Porci, 1962, che dopo essere stati sbarcati da navi americane vennero lasciati volutamente senza i rifornimenti pattuiti, e ciò per decisione del tanto rim­pianto Kennedy. È notizia recente del resto, quella secondo la quale la CIA sorveglia per conto di Castro i superstiti rifugiati cubani in Usa.

E non si può dimenticare l'acquiescienza Usa all'invasione della Cecoslo­vacchia, 1968, l'abbandono da parte degli statunitensi degli alleati sudvietnami­ti, abbandono a lungo patteggiato coi comunisti, né il voltafaccia operato nei confronti dei cino-nazionalisti di Formosa.

E che dire della gestione Usa-Urss del club atomico, che è giunta di recen­te ad un comune intervento con aperte minacce contro il Sud Africa come toc­casse solo alle superpotenze per diritto divino la disponibilità dell'arsenale nu­cleare?

* * *

È interessante anche ricordare, per avere un quadro preciso della «grande alleanza», le ricorrenti crisi cerealicole che affliggono l'Urss e che vengono puntualmente risolte dagli statunitensi.

Anche le crisi petrolifere hanno per registi le superpotenze e sopraggiun­gono, guarda caso, proprio quando l'economia Usa è in crisi (quella sovietica lo è sempre) ed i guai delle economie Usa-Urss possono così venire riversati sull'Europa e sul Giappone. Ciò può agevolmente venir fatto, dato che le due superpotenze sono gli unici grossi consumatori di energia ad esserne anche grandi produttori.

Fonte per il mondo di disordine, tensione e preoccupazione, sono poi le manovre cui vengono sottoposti oro e principali monete.

Dall'istintiva repulsione per fortune accumulate senza un corrispondente merito, nasce prepotente l'esigenza di un efficace controllo internazionale, in materia, che tolga a gruppi di privati e a nazioni la possibilità di far oscillare i mercati finanziari fuori dai limiti fisiologici.

È assurdo, ad esempio, che a seguito degli ultimi rincari dell'oro, l'Unione Sovietica, grande esportatrice del prezioso metallo, abbia dimezzato in un solo anno il proprio debito estero. Ma enormi sono le colpe Usa.

Vanno ricordati ad esempio gli accordi di Brettonwoods, 1944, quando la prepotenza degli Usa, ormai vincitori, volle imporre il dollaro come moneta di scambio internazionale, determinando per tutti gli stati la necessità di immette­re nei propri forzieri miliardi di dollari di incerto valore.

Quanto ciò sia vero e come tale generale indirizzo di sopraffazione econo­mica sia stato in seguito mantenuto, si ricava dalle intese intercorse tra Usa e Germania nel marzo 1967.

In occasione di negoziati riguardanti le varie possibilità esistenti per divide­re i costi delle spese militari in Germania, i tedeschi scelsero, pur di evitarsi esborsi materiali, di collaborare alla gigantesca truffa finanziaria internazionale messa in essere dai finanzieri Usa.

Karl Blessing presidente della Deutsche Bundesbank impegnò la Germania a non presentare dollari da cambiare in oro al tesoro americano. Successiva­mente, in una discussione al senato americano, sollecitando i governanti Usa a mantenere l'accordo raggiunto coi tedeschi, Benjamin Cohen ne puntualizzava l'importanza e l'inderogabilità, ricordando che «il governo tedesco da solo ha più dollari di quanto oro c'è a Fort Knox».

A tutto ciò fa da contorno il problema dei petrodollari, che getta una luce di bancarotta su una delle monete paradossalmente ritenuta tra le più sicure del mondo.

Gli ordini di pagamento in dollari relativi a forniture petrolifere hanno raggiunto l'astronomica cifra di quasi un milione di miliardi di lire.

Si tratta di ordini nei quali il dollaro rimane solo sulla carta ma, in realtà, come le cambiali scontate dalle banche aumentano in realtà la liquidità di un sistema monetario, così il complessivo circolante in dollari viene corrispondentemente accresciuto.

Un sistema siffatto è evidentemente soggetto a conseguenze impensabili sol che i Paesi Arabi produttori di petrolio, in una delle prossime riunioni OPEC, decidano di prendere in considerazione le proposte iraniane di cessare di accet­tare in pagamento dollari.

Gli Usa rischiano di raccogliere tempesta per il vento che hanno seminato!

Il problema palestinese

Un discorso a parte, più approfondito, merita la questione del vicino Oriente, dove quello che non esitiamo a definire il complotto antieuropeo Usa-Urss ha toccato il vertice di ogni violenza e ipocrisia.

Col dare vita allo stato di Israele, la violenza colpì in primo luogo il popolo palestinese, calpestandone i più elementari diritti.

Ma l'obbiettivo dell'operazione, non erano i palestinesi, come del resto chi doveva trarne vantaggio non erano certo gli ebrei sparsi per il mondo, a favore dei quali si disse di agire.

Il vero obbiettivo fu l'Europa, contro la quale si volle creare un focolaio di tensione, e una base per condizionarne i rifornimenti energetici, e controllarne i traffici.

Un capolavoro di ipocrisia fu il costruire e, magistralmente gestire, l'ondata di emozione diffusa nel mondo con le notizie uscite dall'Europa circa il tratta­mento usato agli ebrei durante il conflitto.

Si riuscì a creare nell'opinione pubblica mondiale la sensazione che qualco­sa dovesse essere fatto. Come riparazione morale, a favore del popolo ebraico, affinché le sue sventure non si ripetessero, e si disse questo qualcosa dovesse consistere nel dare ad esso una patria, proprio là dove motivazioni storiche e religiose parevano sostenere la logica del suggerimento.

Il rivendicare per un popolo il diritto ad una patria, è cosa tanto giusta e sentita da ognuno, che la richiesta presentata all'ONU nel 1948, così autore­volmente da Usa e Urss, sembrò a tutti naturale.

Si dimenticò, che ci si apprestava a togliere una patria al popolo palestine­se, per darla a un altro popolo che da sempre ha dimostrato, col suo comporta­mento, di non desiderarla, e si giunse all'assurdo, mentre si condannava il razzi­smo, e iniziava la smobilitazione del colonialismo, di creare uno stato razzista e colonialista, fonte certa di conflitti.

* * *

Si servono Usa e Urss per i loro scopi del sionismo o non è forse più vero l'inverso?

Ci pare più probabile la seconda ipotesi, sia considerando che tra le mino­ranze ebraiche sparse nel mondo, quella statunitense e quella sovietica sono le più numerose in cifra assoluta e percentuale, sia tenendo conto dell'enorme potere politico che esse detengono nei due paesi, fatto che non deve certo me­ravigliare sol che si pensi quanto sionismo e internazionalismo si compenetrino.

Negli Usa, sono in buona parte controllati da ebrei i settori giornalistici, cinematografici e finanziari, con le conseguenze facilmente immaginabili sul mondo della politica.

In Urss, basta ricordare il predominio ebraico conservato fin dai tempi del­la rivoluzione, sull'apparato dirigente del Pcus.

Fatto sta, che Usa e Urss sostennero, affiancati, le richieste del sionismo mondiale, e, una volta creato lo stato di Israele, ne tutelarono, in ogni modo, l'esistenza.

Questa politica dette loro la possibilità, e in ciò è il vero motivo della nasci­ta di Israele, di interporsi e fra Europa e paesi arabi con una catena di interven­ti in tutti gli stati del vicino e medio oriente. Contro di essi sono passate di volta in volta le due superpotenze, dalle pressioni economiche, alle minacce, ai colpi di stato, agli interventi militari indiretti o diretti, all'installazione di basi militari.

Il massiccio appoggio diplomatico concesso ad Israele, appoggio gravido di minacce contro chi non si allineasse, unito a finanziamenti senza limiti, ha per­messo fino ad oggi allo stato ebraico di sopravvivere.

Ma rimane il grave problema demografico. L'immigrazione, se si esclude quella sia pur consistente proveniente dall'Urss, è ferma; vita scomoda e scarsi affari non sono certo prospettive capaci di incoraggiare ebrei di altri paesi a trasferirsi in Israele.

La popolazione, di conseguenza, è oggi per il 65% di origine afro-asiatica, costituita da ebrei profughi di paesi in guerra con Israele.

Rimane, ad Israele, la formidabile posizione strategica, a cavallo di tre con­tinenti e prossima al nodo cruciale per i trasporti internazionali del canale di Suez, abbinata ad un esercito che è, indubbiamente, uno spaventoso strumento di guerra.

Ci pare, però, sinceramente poco per giustificare la presenza di una mina sempre pronta ad esplodere sul cammino della collaborazione tra Europa e pae­si arabi.

Né ci pare ragionevole creazione politica uno stato che ha come sua unica ragione di esistere quella di essere attivato per provocare guerre.

Quante volte l'Europa ha dovuto subire a causa di Israele la chiusura, an­che per lunghi periodi, del canale di Suez? Quante volte ancora politici ed eco­nomisti sovietico-americani penseranno di ricorrere alla guerra in quel delicato settore per turbare le economie europea e giapponese? Quale incalcolabile danno viene all'Europa da questa situazione? E quale prezzo di sangue e di umiliazione è costato ai paesi arabi il gioco sotterraneo di Usa e Urss?

* * *

L'aperto appoggio degli Usa ad Israele e il mancato sostegno europeo agli arabi, a causa delle pressioni politiche Usa, ha suscitato in passato negli arabi la sensazione di essere completamente isolati, e li ha spinti a mettere alla prova le interessate profferte di amicizia dei comunisti.

Le sconfitte militari, causate dall'insufficiente appoggio sovietico, nono­stante le infinite promesse elargite, ha reso però evidente agli arabi che l'Urss mai aveva in realtà avuto l'intenzione di combattere con essi contro Israele, ma solo quella di strumentalizzare la loro indignazione per l'ingiustizia subita e il loro legittimo desiderio di rivincita, per installare basi militari, introdurre consi­glieri, e cercare, in sostanza, di comunistizzare i paesi che fingeva di aiutare.

Quanto poco sincero fosse l'appoggio promesso dai sovietici, può ricavarsi, oltre che dalla sua dimostrata inefficacia, da fatti ben precisi.

Durante la guerra del Kippur, mentre l'ebreo Kissinger comunicava dram­matiche notizie di immensi ponti aerei sovietici con rifornimenti di armi verso i paesi arabi, e ciò solo per ottenere dal congresso americano altri aiuti per Israele, a Mosca, gli ambasciatori dei paesi arabi, dovettero fare ben quattro giorni di anticamera prima di essere ricevuti dal ministro degli esteri sovietico Gromi­ko.

Non solo, ma mentre si intensificavano i finanziamenti e i rifornimenti di armi americane, da parte sovietica giungevano in Israele, aerei con cinquecento persone al giorno.

Successivamente in Libano l'Urss attraverso i siriani è giunta al punto di eliminare, a vantaggio di Israele, la resistenza palestinese.

Fortunatamente prevedendo la doppiezza comunista, gli arabi andarono ben cauti nel concedere basi ai sovietici. L'operazione avvenne infatti lasciando queste possibili punte di penetrazione completamente isolate. Le basi erano lo strumento per ricevere l'aiuto militare che sarebbe stato necessario per la ri­conquista della Palestina; non dovevano assolutamente essere punti di appoggio per l'infiltrazione comunista nei paesi che le ospitavano.

Si accettarono cioè le basi sovietiche, ma i partiti comunisti locali restarono fuori legge.

I paesi arabi poi, dove la guida politica è più sicura, come ad esempio la Libia, non caddero mai nella trappola sovietica. Ghedaffi, ad esempio, rifiutò all'Urss la base navale di Tobruk e quella aerea di Wehleeus, dalle quali nel 1970 aveva espulso inglesi ed americani.

Lo stesso Ghedaffi, definita imperialista la politica sovietica, ha detto «Se ci lasceremo attirare dalla linea americana, o da quella sovietica, non saremo nessuno».

È politicamente interessante seguire i tentativi della stampa internazionale, che accetta l'imbeccata delle agenzie di stampa americane di proprietà ebraica, di attirare su Israele la simpatia dell'occidente anticomunista, presentando Ghedaffi, e gli arabi in genere, come filocomunisti, a dispetto di ogni dato di fatto.

La stessa origine hanno, del resto, le notizie di persecuzioni antisemite nell'Urss; esse hanno tuttavia un fondo di verità, ma solo perché la lotta per il potere in Urss, agli alti livelli, si svolge in prevalenza tra comunisti di razza ebraica.

A far cessare i maneggi Usa-Urss nel vicino oriente, è necessaria una cam­pagna di stampa tesa a ripristinare l'effettiva conoscenza dei fatti accompagnata da un chiaro atteggiamento dell'Europa a favore dei diritti del popolo palestine­se, talché gli arabi comprendano di avere oltre mare dei sinceri amici.

È necessario poi che gli stessi paesi arabi interessati, aumentino la penetra­zione propagandistica presso la nostra opinione pubblica, spiegando le loro ot­time ragioni e mettendo in rilievo l'interesse comune, loro e nostro di europei, a sorreggerle al di là di ogni convenienza legata ai commerci petroliferi.

Si deve, unitamente agli arabi, prendere posizione infine contro la insultan­te diplomazia statunitense, che compera trattati e costringe a tavolino contraen­ti recalcitranti a colpi di miliardi di dollari, come accaduto per l'Egitto in occa­sione del cosiddetto trattato di pace con Israele, trattato con il quale si voleva costringere il popolo arabo a dichiararsi soddisfatto dell'ingiustizia subita ed a codificarla.

La realtà energetica, comunque, sta per togliere ogni puntello a queste artificiose costruzioni. Gli arabi giorno per giorno si rendono conto delle enor­mi possibilità che hanno di influire in politica attraverso l'economia; stanno abbandonando il ruolo di comprimari troppo a lungo recitato, dopo aver speri­mentato a loro spese quanto poco sia stato produttivo il dipendere da russi e/o americani.

Il campo delle intese con l'Europa si va del resto sempre più allargando, mano a mano che la messa al bando di consiglieri sovietici ed agitatori comuni­sti locali si consolida, e di pari passo vengono rimossi i governanti che avevano dato dimostrazione di essere burattini mossi da fili americani.

* * *

Mentre la posizione sovietica nei confronti dei paesi arabi è ormai molto debole, si è già delineata anche la mossa con la quale i paesi arabi stanno per mettere definitivamente fuori gioco gli Usa dal Mediterraneo orientale e dal Medio Oriente.

Alludiamo alla mozione che il Kuwait, nel settembre di quest'anno aveva presentato all'Onu, affinché fosse riconosciuto da tutti gli stati rappresentati nell'organizzazione, il dirito a una patria per i palestinesi.

La mozione era destinata ad ottenere la maggioranza, ma gli Usa ne avreb­bero impedito col veto, ogni risultato pratico.

Proprio per evitare di ricorrere al veto, che li avrebbe posti in una posizio­ne di politica estera insostenibile verso tutti i paesi del terzo mondo, gli Usa hanno chiesto e concordato il ritiro della mozione.

Ma il problema è solo rimandato; di fronte ad esso gli Usa si trovavano senza difesa come una vecchia tartaruga rovesciata sulla schiena e sta solo a noi europei e ai paesi arabi scegliere il momento più opportuno per rimetterlo sul tappeto non appena le nuove, immancabili intese mediterraneo-arabo-africane, avranno fatto i necessari passi in avanti.

Gli Usa non hanno altra scelta politica che continuare all'interno a seguire le indicazioni di un elettorato manipolato dal capitale, all'esterno di proseguire la loro tradizionale politica antieuropea e di alleanza con il comunismo; politi­che che hanno entrambe per corollario il sostegno di Israele.

Sono condannati gli Usa per ciò, con la rinascita dei paesi arabi, alla quale noi europei abbiamo tutto l'interesse di contribuire, ad autoescludersi da tutto l'importantissimo scacchiere mediterraneo.

Il nuovo equilibrio

In questa realtà in movimento, quali possibilità vi sono per l'Italia?

Ci pare che le circostanze sopra descritte stiano per portare ancora una volta il Mediterraneo al centro dei prossimi sviluppi storici ed aprano quindi fortunate prospettive, a noi italiani in particolare, di rinnovamento per l'indiriz­zo strategico della nostra politica e di programmazione ad ampio respiro per una economia ora soffocata da condizionamenti politici.

Una importante correzione di rotta in politica estera appare tanto più ne­cessaria per quanto più profondi si son fatti i dubbi sull'opportunità di prosegui­re in quella vecchia.

Intendiamo porre in discussione infatti il ruolo Usa quali nostri alleati, e chiarire l'equivoco di definirci assieme a loro occidentali; intendiamo, in sostan­za, «vedere» il loro «bluff» anticomunista.

Nulla di rassicurante dal dopoguerra in qua si può infatti rilevare nel loro comportamento, per aver conferma del loro dichiarato ruolo di alleati contro la minaccia comunista.

I fatti parlano chiaro, l'anticomunismo Usa è solo parolaio, ogni scossone all'equilibrio internazionale si è risolto purtroppo in un passo avanti per il co­munismo. Il «commercio ergo sum», il neo-colonialismo mercantile degli Stati Uniti, è la legge che ha governato ogni mossa della loro politica internazionale. La possibilità di conquistare nuovi mercati, di incrementare i traffici, ha fatto passare in seconda linea ogni considerazione di lungimiranza politica e cancella­to ogni impegno morale.

Riteniamo che l'agire in tal modo sia una scelta precisa e non una serie di infortuni dei dirigenti Usa. Possiamo cioè anche ammettere che Carter sia stu­pido, ma si tratta solo di un portavoce. La dirigenza Usa è indiscutibilmente collegiale ed è guidata a sua volta da tutto un mondo culturale, ed economico-finanziario, che sa benissimo ciò che vuole.

Quanto al ruolo di alleati Nato, il disimpegno Usa è sempre più evidente e l'indebolimento della Nato nei confronti del Patto di Varsavia, ormai irreversi­bile.

Ciò deriva anche dal fatto che gli organismi militari comunisti hanno il vantaggio di essere difesi da servizi di sicurezza al riparo da lotte di partito e da manovre elettoralistiche.

Gli eserciti rossi sono altresì garantiti da quadri politicamente selezionati che producono reparti immuni da ideologie pacifiste, o comunque lesive della disciplina.

Nemmeno sotto il profilo nucleare le cose vanno meglio per la Nato.

La parità nucleare ormai raggiunta da parte sovietica rende impensabile che gli Usa inneschino un conflitto nucleare in caso di attacco sovietico all'Eu­ropa. Le armi atomiche Usa in tale frangente servirebbero solo a far distruggere anche il loro territorio.

Il deterrente nucleare statunitense pertanto conserva un effetto difensivo sul solo territorio degli Stati Uniti.

Il risultato di una situazione di stallo fra le due potenze era stato previsto anni fa dalla Francia che aveva iniziato perciò, con gravi sacrifici, un suo pro­gramma nucleare. È necessario anche in tale settore avviare uno sforzo unitario europeo, che del resto sarebbe affiancato dai paesi emergenti del terzo mondo e presto ripagato, almeno in parte, dalla vendita della tecnologia risultante.

È chiaro da tutto quanto fin qui svolto come gli equilibri internazionali su cui si è retto il mondo negli ultimi 35 anni non siano oggi più gli stessi.

Ruoli logorati ormai quelli di potenze, quali Usa-Urss per la evidente inca­pacità di gestire destini imperiali e per l'impossibilità di mascherare più a lungo nel loro agire egoismi e sopraffazioni.

Recupero di una identità e di un orgoglio da parte della vecchia Europa, convinta nuovamente di avere qualcosa da dire in piena autonomia a ciò inco­raggiata da potenze emergenti come la Cina.

Astri nascenti i paesi arabi, aperti verso tutte le possibilità del futuro.

L'esiguità delle popolazioni, l'immensa estensione e l'incontaminatezza dei territori, offrono ai dirigenti arabi possibilità di ingegneria politica senza prece­denti, considerando la larghezza dei mezzi derivanti dall'estrazione del petrolio a loro disposizione.

Gli studi necessari per decidere l'impiego delle risorse disponibili in modo oculato e durevole, richiederanno certamente la collaborazione degli scienziati e dei sociologi europei. Preziose indicazioni perciò potranno derivarne anche per il nostro continente e contribuire ad attenuare ingiustizie sociali e squilibri nello sviluppo fra regione e regione.

Giudichiamo, in conclusione, possibile, di intesa coi paesi mediterranei e del vicino oriente, paesi assai vicini per aspirazioni e complementari in molti settori per la diversità delle caratteristiche geo-politiche, la creazione di un soli­do aggregato che sviluppi una potenzialità politica, industriale e militare, tale da giungere a mettere, sui tempi lunghi, fuori gioco Usa e Urss dall'area mediter­ranea.

Sarà possibile anche intervenire per staccare dalle due superpotenze quei paesi satellizzati che già ora manifestano ampie insofferenze, paesi dell'Est eu­ropeo, paesi musulmani dell'Asia centrale, paesi africani caduti vittime, senza aver quasi mai goduto dell'indipendenza, del neo colonialismo e della strumen­talizzazione marxista.

Anche i paesi dell'America Centrale e dell'America Latina ora sottoposti ad un pesante condizionamento nord-americano, potranno trarre giovamento da un nuovo centro di equilibrio mondiale mediterraneo, di cui le nazioni latine saranno componenti fondamentali.

L'Africa e i paesi arabi, per il loro sviluppo accoglieranno ben volentieri la collaborazione europea. All'Europa il compito di offrirla con lealtà e chiarezza.

È questa la strada per far riacquistare all'Europa le simpatie dei paesi del terzo mondo, per dar prova di non essere alle ultime battute di una civilizzazione e per offrire ai nostri giovani un destino politico non più di secondo piano, ma esperienze degne di essere vissute.

È tempo di azione, all'avanguardia di un autentico rinnovamento.

http://www.uomolibero.com/archivio/1/1C.htm

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