sabato 22 gennaio 2011

Il Politico e l’economico









di Fabio Falchi

E’ uno dei meriti più significativi della ricerca storica ed antropologica contemporanea l’aver messo in luce che le differenze tra le società capitalistiche e le società precapitalistiche non sono di grado bensì di forma, dato che in queste ultime erano le “forme metaeconomiche” – la politica, la religione e le relazioni comunitarie – a strutturare e “sovradeterminare” la sfera economica. Solo con l’avvento della società di capitale si sviluppa e si consolida uno spazio economico autonomo, nettamente distinto dalla sfera politica. “Genesi dello spazio economico” è appunto il titolo di un libro, a cura di Luigi Ruggiu (autore, tra l’altro, di un celebre studio sulla concezione aristotelica del tempo), in cui si prendono in esame le diverse concezioni dell’economico sostenute da alcuni dei maggiori filosofi e pensatori europei, allo scopo di ricostruire la complessa origine del concetto di “economia politica” (un processo di formazione che s’inizia con Cantillon e giunge a compimento con Adam Smith) e di mettere in discussione la costituzione stessa dell’economia e la valenza naturalistica che essa è venuta assumendo (1).

Di particolare interesse è il saggio di Luigi Ruggiu che analizza la celebre critica aristotelica della crematistica, richiamandosi esplicitamente alle ricerche di Karl Polanyi, che più di ogni altro studioso ha saputo evidenziare che, sia nelle società primitive sia in quelle antiche, l’economico è incastonato, “embedded”, nel sociale. Ruggiu condivide la tesi di Polanyi secondo cui l’eccezionale sviluppo degli scambi commerciali e i molteplici impieghi della moneta nell’Atene del IV secolo a.C., permettono ad Aristotele di “scoprire” l’economia, non perché egli studi i fenomeni di una società di mercato (come invece ritiene, fraintendendo il senso della riflessione aristotelica, Schumpeter), che ancora non esiste, ma perché lo Stagirita si mostra consapevole della novità e delle conseguenze, politiche e sociali, di fenomeni quali la ricerca del guadagno illimitato tramite gli scambi e la capacità della stessa moneta di produrre ricchezza. Tuttavia, a Ruggiu preme sottolineare soprattutto che l’argomentazione aristotelica è volta a mostrare che lo scambio può tanto contribuire a consolidare la struttura sociale quanto essere un fattore di disgregazione e di dissoluzione del legame sociale. Aristotele cioè si rende conto che la crematistica non naturale – nel senso che non è la semplice arte di acquistare beni, ma la “techne” che ha come fine l’accumulazione illimitata di beni e denaro – altera radicalmente la relazione tra il mezzo ed il fine, considerati come “momenti distinti”, trasformando il mezzo in fine ed il fine in mezzo, senza che questo processo possa terminare. La “techne” viene a perdere in tal modo il suo carattere strumentale rispetto alla “physis” (la “natura”), grazie all’affermarsi della “natura convenzionale” della moneta, aprendo un orizzonte fino ad allora sconosciuto: la moneta, da un lato, perde tutte le sue qualità per essere puro segno di quantità e poter funzionare come “misura”; dall’altro, rende possibile che beni differenti si rapportino reciprocamente traducendosi in termini di pura quantità. I molteplici e differenti beni allora possono essere misurati, dato che ogni cosa può essere ricondotta alla astratta quantità della moneta. Determinando la funzione della moneta, che anticipa la nota distinzione marxiana tra valore d’uso e valore di scambio, lo Stagirita può svolgere un’analisi, di carattere storico e teorico, che gli consente di mettere in rilievo sia il significato sociale della moneta – in quanto essa media le relazioni tra le cose e gli uomini e di conseguenza i rapporti tra gli uomini – sia che, attraverso il commercio al minuto, si sviluppa una forma di intermediazione, in cui gli estremi non sono i prodotti (come quando, ad esempio, si vende l’olio prodotto, per acquistare grano) ma il denaro stesso (ad esempio, si acquista olio ad un determinato prezzo, per venderlo ad un prezzo maggiore). Perciò, non solo la crematistica non naturale mira ad accumulare una ricchezza illimitata, poiché non appaga bisogni determinati – come accade allorché si possiede per consumare – ma, essendo il possesso di denaro non più un mezzo per conseguire un determinato fine bensì il fine di un processo infinito, il bisogno che alimenta il processo è illimitato esso stesso (2). Il che per Aristotele non può non essere che la paradossale “perfetta figura” del “negativo”, in quanto l’infinito, secondo lo Stagirita, non è l’intero – che non può essere “trasceso”, che è “inoltrepassabile” – ma al contrario è ciò al di fuori del quale c’è sempre qualcosa, quell’assoluta assenza di limite che anche Aristotele – la cui filosofia privilegia non le “forme geometriche” e i “rapporti numerici”, come quella di Pitagora o quella di Platone (indipendentemente dalla differenza tra enti matematici, cosiddetti “intermedi”, e forme metafisiche pure, le cosiddette “idee numeri”), bensì la “forma” del vivente, l’organismo – non può non considerare un qualcosa di aberrante. Del resto, Aristotele osserva che, se non si riesce a procurarsi la ricchezza mediante la crematistica, si sarà facilmente disposti ad impiegare qualsiasi altro mezzo, poiché l’arricchimento diventa “il fine generale a cui pare debba essere indirizzata ogni cosa”. Nota giustamente Ruggiu che per Aristotele “lo spirito della crematistica rischia di impadronirsi di ogni aspetto della società; ogni facoltà naturale o ogni virtù tradizionale, non sono più considerate per sé stesse, in relazione alla propria natura e destinazione, ma in rapporto alla possibile utilizzazione ai fini della acquisizione di ricchezza” (3). Insomma, Aristotele comprende che lo spirito mercantile, una volta creatosi uno spazio autonomo nell’ambito della “polis”, tende inevitabilmente a “degenerare” poiché come una metastasi aggredisce l’intero organismo politico e sociale.

Com’è noto, dovettero passare non pochi secoli prima che potesse accadere quel che Aristotele temeva. Il motivo per cui passò così tanto tempo, lo spiega assai bene Edouard Will: “[Nell'antica Grecia] in nessuna branca d’attività la produzione è mai limitata dalla sola preoccupazione della produttività, essendo paralizzata da condizioni arcaiche di natura religiosa e morale: l’idea di un rapporto sacro o naturale fra la terra e il lavoro, fra la capacità dell’artigiano e la qualità del suo lavoro, ha distolto il lavoratore greco dall’idea di dover produrre di più, producendo diversamente” (4). E’ solo con la nascita del mondo moderno che si realizzano quelle condizioni che permettono all’economico di scorporarsi del tutto dall’ampio ventaglio di istituzioni culturali, sociali e politiche in cui era “incastrato” sino alla fine del Medioevo, e alla funzione economica di rivendicare una supremazia rispetto a quella politica. Cionondimeno, il conflitto tra il politico e l’economico è esso stesso ovviamente un conflitto politico. L’apparente contraddizione la si toglie rilevando che lo scontro avviene sul terreno della politica. Sul piano interno, tra coloro che vogliono regolare l’economia secondo un’idea di “ragione pubblica” e tra coloro che si battono per ridurre i poteri dello Stato a vantaggio del mercato (ed è proprio Carl Schmitt ad osservare che, nell’epoca attuale, il politico non è sinonimo di Stato, e che il liberalismo volendo sostituire la politica con l’economia, non si avvede che l’economia sganciata dalla politica è essa stessa una forma degenerata e mistificata di politica); sia sul piano internazionale, tra talassocrazie (l’Inghilterra e poi gli Usa) e potenze “telluriche” (la Francia, poi la Germania e infine la stessa Unione Sovietica). (5).

Naturalmente, il conflitto tra funzione economica e funzione politica, nel corso dei secoli ha assunto molteplici e complesse configurazioni, e più che “rispecchiare” una determinata realtà storica, offre una chiave di lettura “politica” di fenomeni storici, ciascuno dei quali presenta caratteristiche peculiari e richiede di essere compreso secondo criteri propri. Cionondimeno, sembra essere particolarmente interessante per comprendere come l’attuale crisi del Welfare State (una creazione tipicamente europea che aveva di mira la “gestione politica” del mercato, di modo da ridurre l’intensità dei conflitti sociali e gli squilibri di natura economica, vuoi mediante la redistribuzione della ricchezza prodotta, vuoi mediante l’intervento diretto dello Stato nella sfera economica) sia connessa con la mancanza di una politica volta ad assicurarsi la potenza necessaria per imporsi ai gruppi dominanti, sia in ambito nazionale che in ambito internazionale. Ciò non desta meraviglia se si tiene presente che i singoli Stati dell’Europa occidentale, dopo la Seconda guerra mondiale, abbiano “delegato” (benché, a causa degli eventi bellici degli anni Quaranta e poi della guerra fredda, fosse quasi una scelta obbligata) la propria sicurezza nazionale e la politica di potenza agli Stati Uniti, ritenendo possibile “sfruttare” il mercato indefinitamente, quasi che lo “spazio economico” fosse uno “spazio neutro” e non un “campo di forze” (come Aristotele aveva compreso molto tempo prima che nascesse il capitalismo moderno) solo momentaneamente “in ritirata” per riprendere appena possibile la lotta politica, onde mutare i rapporti di forza a proprio vantaggio, e quasi che la politica di potenza del Warfare statunitense non potesse che riguardare i Paesi extraeuropei. Sicché, il mercato (in realtà, i gruppi economici dominanti e quelli che talvolta si suole definire subdominanti, ossia, rispettivamente, soprattutto quelli americani e quelli europei favorevoli alla subordinazione politica ed economica dell’Europa agli Stati Uniti), favorito anche da una vera e propria rivoluzione tecnologica, è riuscito nuovamente a far valere i propri “ordini” e le proprie “misure” anche in Europa, ben protetto dalla spada dello Zio Sam. Nel giro di qualche decennio, non solo sono scomparse le “utopie” del Novecento, ma è stata spazzata via anche l’illusione socialdemocratica di poter “riformare” il capitalismo lasciando del tutto immutata la forma dello Stato, mentre il sistema dei partiti – la cosiddetta “democrazia liberale” – è diventato un semplice “mercato elettorale”, per stabilire (impiegando tecniche vieppiù sofisticate di disinformazione ed effettuando una “preselezione” delle scelte possibili) “chi” deve rappresentare gli interessi dei gruppi (sub)dominanti. Indubbiamente, i singoli partiti conservano ancora un certo margine di autonomia (che varia a seconda delle diverse circostanze storiche e che tende a dilatarsi notevolmente nei periodi di crisi), ma sempre più decisivo appare il ruolo della potenza d’oltreoceano nel determinare anche gli equilibri interni, politici ed economici dei Paesi europei, in particolare di un Paese come l’Italia, meno coeso di altri e con debolezze di natura strutturale più marcate rispetto a Paesi come la Francia e la Germania.

Ciò dipende dal fatto che il gigantesco complesso politico-militare-economico che si è formato negli Usa, a partire dalla Seconda guerra mondiale, ha trasformato la macchina statale americana (vi è anche certamente il conflitto tra i vari gruppi dominanti per la “spartizione della torta” che però non concerne la forma dello Stato) – in una macchina da guerra, in senso letterale e metaforico, per conquistare nuovi “spazi” e nuovi mercati, sì che i mezzi di comunicazione di massa occidentali (in gran parte di proprietà di potentati economici) non esitano ormai a sostenere che ciò che va bene al Warfare State statunitense “deve” andar bene non solo agli americani, ma a tutti i popoli della terra. Le “guerre umanitarie”, le guerre preventive e gli innumerevoli interventi degli Stati Uniti negli affari interni degli altri Paesi manifestano invece la natura aggressiva di un apparato tecnico-produttivo (di cui sono componenti essenziali l’alta finanza e le istituzioni militari americane) che si vuole indipendente dallo Stato e che allo stesso tempo deve esercitare, direttamente o indirettamente, la funzione politica per difendere i propri interessi e i propri privelegi. Il primato della funzione economica, proprio perché, come si è visto, basato sul “bisogno illimitato” di accumulare ricchezza (“potenza”), cambia la forma della politica, la “snatura”, di modo che, mentre si nega che il politico, in quanto tale, abbia il compito di perseguire un interesse generale (6) e si condanna ogni ingerenza dello Stato nella vita sociale ed economica, ci si adopera per rafforzare il più possibile la capacità del Warfare State americano di sostenere, militarmente e anche economicamente, le “ragioni” dell’oligarchia (sub)dominante, facendo lievitare enormemente la spesa pubblica americana per la difesa. Perciò non è un caso che la resistenza più forte all’imperialismo economico del Leviatiano nordamericano provenga da altri Stati, in cui non sono le tecnostrutture private e i grandi gruppi finanziari a manovrare, tramite i partiti, la macchina dello Stato, ma sembra piuttosto che siano le istituzioni politiche a tenere saldamente in pugno le redini dello Stato, usando anche le risorse e le aziende pubbliche (si pensi alla politica energetica della Russia di Putin, ad esempio). Comunque sia, si tratta di Stati determinati a svolgere una politica di potenza secondo un’idea “forte” di ragione pubblica, per difendere la propria sovranità, contrastando la politica dello Stato dominante (che è, nonostante tutto, ancora l’America, senza dimenticare Israele per l’enorme influenza che esercita sulla politica americana) e l’azione dei potentati economici occidentali. Che poi anche questo sia un capitolo della lunga storia del conflitto tra l’economico e politico, è lecito supporlo (non fosse altro perché contribuisce a “demistificare” la natura politica dell’economicismo). Tanto è vero che, se si considera un Paese europeo come l’Italia (in cui la proverbiale inefficienza del settore pubblico, sembra essere causata, più che dall’eccessiva intromissione dello Stato nella società, dalla debolezza dello Stato e dalla scarsa autorità delle istituzioni politiche, soggette al “controllo” di gruppi di interesse contrari ad ogni rinnovamento sociale), la (sacrosanta) battaglia per la difesa dello Stato sociale (sanità, istruzione, pensioni etc.) appare perduta in partenza, in assenza di un’élite che – pur tenendo conto dei limiti derivanti dal fatto di essere parte della Nato e della Ue, ma profittando di una situazione internazionale in rapido e imprevedibile cambiamento – sia in grado di promuovere una autentica trasformazione politica e sociale, tale cioè da coinvolgere l’intera comunità, e di tutelare i settori di indubbia importanza strategica per l’intera Nazione.

Fabio Falchi

NOTE

1) “Genesi dello spazio economico”, a cura di L.Ruggiu, Guida, Napoli, 1982.

2) Osservazione di estrema importanza, dacché, se per Carl Schmitt (come per Heidegger o Severino) non è più l’economico ma la tecnica “scatenata” il centro di riferimento intorno al quale si organizza la società occidentale, si dovrebbe piuttosto ritenere, basandosi sull’analisi di Aristotele, che la tecnica – ma solo in quanto autoreferenziale ed autosufficiente, in quanto cioè volontà di potenza assoluta, che vuole infinitamente se stessa e che ha come scopo il potenziamento illimitato della propria potenza – non sia altro dall’economico, bensì ne sia invece l’espressione più matura e compiuta.

3) Ibidem, p.110.

4) Ibidem, nota 52, p. 62. E’ ovvio che quanto afferma Will è da considerarsi valido per tutte le società precapitalistiche.

5 Per lo scontro tra Landmächte e Seemächte, si veda il “classico” saggio di Carl Schmitt, Terra e mare, Giuffrè, Milano,1986.

6) Non pare fondata l’obiezione che, poiché una classe politica in ogni caso favorisce determinati gruppi e ne penalizza altri, se ne dovrebbe dedurre che “bene comune”,”interesse generale” o “giustizia sociale” non sono altro che meri “flatus vocis”. In primo luogo, anche ammesso e non concesso che siano solo “finzioni” o “ubbie” dei cacciatori paleolitici – tale sarebbe l’idea di giustizia sociale, secondo von Hayek, per il quale evidentemente Aristotele era un “cavernicolo” – sarebbero comunque “finzioni produttive”. In secondo luogo, anche se nessun magistrato può essere imparziale, non per questo motivo si ritiene indifferente che un magistrato sia o non sia fazioso. In sostanza, quel che conta è che vi è un’immensa differenza tra una classe politica che “articola” i poteri dello Stato secondo un’idea di bene comune e una classe politica che si preoccupa unicamente di rappresentare le “ragioni” del mercato, e ciò a prescindere perfino dal fatto che le uniche “ragioni” che, di regola, quest’ultima rappresenta sono quelle “mercantiliste” dei gruppi (sub)dominanti.

E’ uno dei meriti più significativi della ricerca storica ed antropologica contemporanea l’aver messo in luce che le differenze tra le società capitalistiche e le società precapitalistiche non sono di grado bensì di forma, dato che in queste ultime erano le “forme metaeconomiche” – la politica, la religione e le relazioni comunitarie – a strutturare e “sovradeterminare” la sfera economica. Solo con l’avvento della società di capitale si sviluppa e si consolida uno spazio economico autonomo, nettamente distinto dalla sfera politica. “Genesi dello spazio economico” è appunto il titolo di un libro, a cura di Luigi Ruggiu (autore, tra l’altro, di un celebre studio sulla concezione aristotelica del tempo), in cui si prendono in esame le diverse concezioni dell’economico sostenute da alcuni dei maggiori filosofi e pensatori europei, allo scopo di ricostruire la complessa origine del concetto di “economia politica” (un processo di formazione che s’inizia con Cantillon e giunge a compimento con Adam Smith) e di mettere in discussione la costituzione stessa dell’economia e la valenza naturalistica che essa è venuta assumendo (1).

Di particolare interesse è il saggio di Luigi Ruggiu che analizza la celebre critica aristotelica della crematistica, richiamandosi esplicitamente alle ricerche di Karl Polanyi, che più di ogni altro studioso ha saputo evidenziare che, sia nelle società primitive sia in quelle antiche, l’economico è incastonato, “embedded”, nel sociale. Ruggiu condivide la tesi di Polanyi secondo cui l’eccezionale sviluppo degli scambi commerciali e i molteplici impieghi della moneta nell’Atene del IV secolo a.C., permettono ad Aristotele di “scoprire” l’economia, non perché egli studi i fenomeni di una società di mercato (come invece ritiene, fraintendendo il senso della riflessione aristotelica, Schumpeter), che ancora non esiste, ma perché lo Stagirita si mostra consapevole della novità e delle conseguenze, politiche e sociali, di fenomeni quali la ricerca del guadagno illimitato tramite gli scambi e la capacità della stessa moneta di produrre ricchezza. Tuttavia, a Ruggiu preme sottolineare soprattutto che l’argomentazione aristotelica è volta a mostrare che lo scambio può tanto contribuire a consolidare la struttura sociale quanto essere un fattore di disgregazione e di dissoluzione del legame sociale. Aristotele cioè si rende conto che la crematistica non naturale – nel senso che non è la semplice arte di acquistare beni, ma la “techne” che ha come fine l’accumulazione illimitata di beni e denaro – altera radicalmente la relazione tra il mezzo ed il fine, considerati come “momenti distinti”, trasformando il mezzo in fine ed il fine in mezzo, senza che questo processo possa terminare. La “techne” viene a perdere in tal modo il suo carattere strumentale rispetto alla “physis” (la “natura”), grazie all’affermarsi della “natura convenzionale” della moneta, aprendo un orizzonte fino ad allora sconosciuto: la moneta, da un lato, perde tutte le sue qualità per essere puro segno di quantità e poter funzionare come “misura”; dall’altro, rende possibile che beni differenti si rapportino reciprocamente traducendosi in termini di pura quantità. I molteplici e differenti beni allora possono essere misurati, dato che ogni cosa può essere ricondotta alla astratta quantità della moneta. Determinando la funzione della moneta, che anticipa la nota distinzione marxiana tra valore d’uso e valore di scambio, lo Stagirita può svolgere un’analisi, di carattere storico e teorico, che gli consente di mettere in rilievo sia il significato sociale della moneta – in quanto essa media le relazioni tra le cose e gli uomini e di conseguenza i rapporti tra gli uomini – sia che, attraverso il commercio al minuto, si sviluppa una forma di intermediazione, in cui gli estremi non sono i prodotti (come quando, ad esempio, si vende l’olio prodotto, per acquistare grano) ma il denaro stesso (ad esempio, si acquista olio ad un determinato prezzo, per venderlo ad un prezzo maggiore). Perciò, non solo la crematistica non naturale mira ad accumulare una ricchezza illimitata, poiché non appaga bisogni determinati – come accade allorché si possiede per consumare – ma, essendo il possesso di denaro non più un mezzo per conseguire un determinato fine bensì il fine di un processo infinito, il bisogno che alimenta il processo è illimitato esso stesso (2). Il che per Aristotele non può non essere che la paradossale “perfetta figura” del “negativo”, in quanto l’infinito, secondo lo Stagirita, non è l’intero – che non può essere “trasceso”, che è “inoltrepassabile” – ma al contrario è ciò al di fuori del quale c’è sempre qualcosa, quell’assoluta assenza di limite che anche Aristotele – la cui filosofia privilegia non le “forme geometriche” e i “rapporti numerici”, come quella di Pitagora o quella di Platone (indipendentemente dalla differenza tra enti matematici, cosiddetti “intermedi”, e forme metafisiche pure, le cosiddette “idee numeri”), bensì la “forma” del vivente, l’organismo – non può non considerare un qualcosa di aberrante. Del resto, Aristotele osserva che, se non si riesce a procurarsi la ricchezza mediante la crematistica, si sarà facilmente disposti ad impiegare qualsiasi altro mezzo, poiché l’arricchimento diventa “il fine generale a cui pare debba essere indirizzata ogni cosa”. Nota giustamente Ruggiu che per Aristotele “lo spirito della crematistica rischia di impadronirsi di ogni aspetto della società; ogni facoltà naturale o ogni virtù tradizionale, non sono più considerate per sé stesse, in relazione alla propria natura e destinazione, ma in rapporto alla possibile utilizzazione ai fini della acquisizione di ricchezza” (3). Insomma, Aristotele comprende che lo spirito mercantile, una volta creatosi uno spazio autonomo nell’ambito della “polis”, tende inevitabilmente a “degenerare” poiché come una metastasi aggredisce l’intero organismo politico e sociale.

Com’è noto, dovettero passare non pochi secoli prima che potesse accadere quel che Aristotele temeva. Il motivo per cui passò così tanto tempo, lo spiega assai bene Edouard Will: “[Nell'antica Grecia] in nessuna branca d’attività la produzione è mai limitata dalla sola preoccupazione della produttività, essendo paralizzata da condizioni arcaiche di natura religiosa e morale: l’idea di un rapporto sacro o naturale fra la terra e il lavoro, fra la capacità dell’artigiano e la qualità del suo lavoro, ha distolto il lavoratore greco dall’idea di dover produrre di più, producendo diversamente” (4). E’ solo con la nascita del mondo moderno che si realizzano quelle condizioni che permettono all’economico di scorporarsi del tutto dall’ampio ventaglio di istituzioni culturali, sociali e politiche in cui era “incastrato” sino alla fine del Medioevo, e alla funzione economica di rivendicare una supremazia rispetto a quella politica. Cionondimeno, il conflitto tra il politico e l’economico è esso stesso ovviamente un conflitto politico. L’apparente contraddizione la si toglie rilevando che lo scontro avviene sul terreno della politica. Sul piano interno, tra coloro che vogliono regolare l’economia secondo un’idea di “ragione pubblica” e tra coloro che si battono per ridurre i poteri dello Stato a vantaggio del mercato (ed è proprio Carl Schmitt ad osservare che, nell’epoca attuale, il politico non è sinonimo di Stato, e che il liberalismo volendo sostituire la politica con l’economia, non si avvede che l’economia sganciata dalla politica è essa stessa una forma degenerata e mistificata di politica); sia sul piano internazionale, tra talassocrazie (l’Inghilterra e poi gli Usa) e potenze “telluriche” (la Francia, poi la Germania e infine la stessa Unione Sovietica). (5).

Naturalmente, il conflitto tra funzione economica e funzione politica, nel corso dei secoli ha assunto molteplici e complesse configurazioni, e più che “rispecchiare” una determinata realtà storica, offre una chiave di lettura “politica” di fenomeni storici, ciascuno dei quali presenta caratteristiche peculiari e richiede di essere compreso secondo criteri propri. Cionondimeno, sembra essere particolarmente interessante per comprendere come l’attuale crisi del Welfare State (una creazione tipicamente europea che aveva di mira la “gestione politica” del mercato, di modo da ridurre l’intensità dei conflitti sociali e gli squilibri di natura economica, vuoi mediante la redistribuzione della ricchezza prodotta, vuoi mediante l’intervento diretto dello Stato nella sfera economica) sia connessa con la mancanza di una politica volta ad assicurarsi la potenza necessaria per imporsi ai gruppi dominanti, sia in ambito nazionale che in ambito internazionale. Ciò non desta meraviglia se si tiene presente che i singoli Stati dell’Europa occidentale, dopo la Seconda guerra mondiale, abbiano “delegato” (benché, a causa degli eventi bellici degli anni Quaranta e poi della guerra fredda, fosse quasi una scelta obbligata) la propria sicurezza nazionale e la politica di potenza agli Stati Uniti, ritenendo possibile “sfruttare” il mercato indefinitamente, quasi che lo “spazio economico” fosse uno “spazio neutro” e non un “campo di forze” (come Aristotele aveva compreso molto tempo prima che nascesse il capitalismo moderno) solo momentaneamente “in ritirata” per riprendere appena possibile la lotta politica, onde mutare i rapporti di forza a proprio vantaggio, e quasi che la politica di potenza del Warfare statunitense non potesse che riguardare i Paesi extraeuropei. Sicché, il mercato (in realtà, i gruppi economici dominanti e quelli che talvolta si suole definire subdominanti, ossia, rispettivamente, soprattutto quelli americani e quelli europei favorevoli alla subordinazione politica ed economica dell’Europa agli Stati Uniti), favorito anche da una vera e propria rivoluzione tecnologica, è riuscito nuovamente a far valere i propri “ordini” e le proprie “misure” anche in Europa, ben protetto dalla spada dello Zio Sam. Nel giro di qualche decennio, non solo sono scomparse le “utopie” del Novecento, ma è stata spazzata via anche l’illusione socialdemocratica di poter “riformare” il capitalismo lasciando del tutto immutata la forma dello Stato, mentre il sistema dei partiti – la cosiddetta “democrazia liberale” – è diventato un semplice “mercato elettorale”, per stabilire (impiegando tecniche vieppiù sofisticate di disinformazione ed effettuando una “preselezione” delle scelte possibili) “chi” deve rappresentare gli interessi dei gruppi (sub)dominanti. Indubbiamente, i singoli partiti conservano ancora un certo margine di autonomia (che varia a seconda delle diverse circostanze storiche e che tende a dilatarsi notevolmente nei periodi di crisi), ma sempre più decisivo appare il ruolo della potenza d’oltreoceano nel determinare anche gli equilibri interni, politici ed economici dei Paesi europei, in particolare di un Paese come l’Italia, meno coeso di altri e con debolezze di natura strutturale più marcate rispetto a Paesi come la Francia e la Germania.

Ciò dipende dal fatto che il gigantesco complesso politico-militare-economico che si è formato negli Usa, a partire dalla Seconda guerra mondiale, ha trasformato la macchina statale americana (vi è anche certamente il conflitto tra i vari gruppi dominanti per la “spartizione della torta” che però non concerne la forma dello Stato) – in una macchina da guerra, in senso letterale e metaforico, per conquistare nuovi “spazi” e nuovi mercati, sì che i mezzi di comunicazione di massa occidentali (in gran parte di proprietà di potentati economici) non esitano ormai a sostenere che ciò che va bene al Warfare State statunitense “deve” andar bene non solo agli americani, ma a tutti i popoli della terra. Le “guerre umanitarie”, le guerre preventive e gli innumerevoli interventi degli Stati Uniti negli affari interni degli altri Paesi manifestano invece la natura aggressiva di un apparato tecnico-produttivo (di cui sono componenti essenziali l’alta finanza e le istituzioni militari americane) che si vuole indipendente dallo Stato e che allo stesso tempo deve esercitare, direttamente o indirettamente, la funzione politica per difendere i propri interessi e i propri privelegi. Il primato della funzione economica, proprio perché, come si è visto, basato sul “bisogno illimitato” di accumulare ricchezza (“potenza”), cambia la forma della politica, la “snatura”, di modo che, mentre si nega che il politico, in quanto tale, abbia il compito di perseguire un interesse generale (6) e si condanna ogni ingerenza dello Stato nella vita sociale ed economica, ci si adopera per rafforzare il più possibile la capacità del Warfare State americano di sostenere, militarmente e anche economicamente, le “ragioni” dell’oligarchia (sub)dominante, facendo lievitare enormemente la spesa pubblica americana per la difesa. Perciò non è un caso che la resistenza più forte all’imperialismo economico del Leviatiano nordamericano provenga da altri Stati, in cui non sono le tecnostrutture private e i grandi gruppi finanziari a manovrare, tramite i partiti, la macchina dello Stato, ma sembra piuttosto che siano le istituzioni politiche a tenere saldamente in pugno le redini dello Stato, usando anche le risorse e le aziende pubbliche (si pensi alla politica energetica della Russia di Putin, ad esempio). Comunque sia, si tratta di Stati determinati a svolgere una politica di potenza secondo un’idea “forte” di ragione pubblica, per difendere la propria sovranità, contrastando la politica dello Stato dominante (che è, nonostante tutto, ancora l’America, senza dimenticare Israele per l’enorme influenza che esercita sulla politica americana) e l’azione dei potentati economici occidentali. Che poi anche questo sia un capitolo della lunga storia del conflitto tra l’economico e politico, è lecito supporlo (non fosse altro perché contribuisce a “demistificare” la natura politica dell’economicismo). Tanto è vero che, se si considera un Paese europeo come l’Italia (in cui la proverbiale inefficienza del settore pubblico, sembra essere causata, più che dall’eccessiva intromissione dello Stato nella società, dalla debolezza dello Stato e dalla scarsa autorità delle istituzioni politiche, soggette al “controllo” di gruppi di interesse contrari ad ogni rinnovamento sociale), la (sacrosanta) battaglia per la difesa dello Stato sociale (sanità, istruzione, pensioni etc.) appare perduta in partenza, in assenza di un’élite che – pur tenendo conto dei limiti derivanti dal fatto di essere parte della Nato e della Ue, ma profittando di una situazione internazionale in rapido e imprevedibile cambiamento – sia in grado di promuovere una autentica trasformazione politica e sociale, tale cioè da coinvolgere l’intera comunità, e di tutelare i settori di indubbia importanza strategica per l’intera Nazione.

Fabio Falchi

NOTE

1) “Genesi dello spazio economico”, a cura di L.Ruggiu, Guida, Napoli, 1982.

2) Osservazione di estrema importanza, dacché, se per Carl Schmitt (come per Heidegger o Severino) non è più l’economico ma la tecnica “scatenata” il centro di riferimento intorno al quale si organizza la società occidentale, si dovrebbe piuttosto ritenere, basandosi sull’analisi di Aristotele, che la tecnica – ma solo in quanto autoreferenziale ed autosufficiente, in quanto cioè volontà di potenza assoluta, che vuole infinitamente se stessa e che ha come scopo il potenziamento illimitato della propria potenza – non sia altro dall’economico, bensì ne sia invece l’espressione più matura e compiuta.

3) Ibidem, p.110.

4) Ibidem, nota 52, p. 62. E’ ovvio che quanto afferma Will è da considerarsi valido per tutte le società precapitalistiche.

5 Per lo scontro tra Landmächte e Seemächte, si veda il “classico” saggio di Carl Schmitt, Terra e mare, Giuffrè, Milano,1986.

6) Non pare fondata l’obiezione che, poiché una classe politica in ogni caso favorisce determinati gruppi e ne penalizza altri, se ne dovrebbe dedurre che “bene comune”,”interesse generale” o “giustizia sociale” non sono altro che meri “flatus vocis”. In primo luogo, anche ammesso e non concesso che siano solo “finzioni” o “ubbie” dei cacciatori paleolitici – tale sarebbe l’idea di giustizia sociale, secondo von Hayek, per il quale evidentemente Aristotele era un “cavernicolo” – sarebbero comunque “finzioni produttive”. In secondo luogo, anche se nessun magistrato può essere imparziale, non per questo motivo si ritiene indifferente che un magistrato sia o non sia fazioso. In sostanza, quel che conta è che vi è un’immensa differenza tra una classe politica che “articola” i poteri dello Stato secondo un’idea di bene comune e una classe politica che si preoccupa unicamente di rappresentare le “ragioni” del mercato, e ciò a prescindere perfino dal fatto che le uniche “ragioni” che, di regola, quest’ultima rappresenta sono quelle “mercantiliste” dei gruppi (sub)dominanti.


http://www.cpeurasia.eu/1178/il-politico-e-leconomico

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