L’11 settembre di Roosevelt
Entrata in guerra degli USA e missioni sommergibilistiche tedesche.
Dall’ordine “Shott-on-Sight” a Pearl Harbor – La prima missione “Paukenschlag” (gennaio 1942) e la seconda (marzo 1942) – l’incontro a Murmansk con Reinhard Hardegen
di Giandomenico Bardanzellu
Articolo tratto da L’UOMO LIBERO n. 54
Il 18 dicembre 1941 l’Ammiraglio Doenitz convoca nel suo Quartier Generale di Kerneval, presso Lorient, in Francia cinque dei suoi più qualificati Comandanti di sommergibili, i Comandanti Hardegen, Kals, Zapp, Bleichrod, Folkers, per comunicazioni riservatissime.
Fu l’inizio dell’operazione “Paukenschlag” (colpo di tamburo) volta a troncare i trasporti strategici che dagli Stati Uniti rifornivano l’Inghilterra e l’Unione Sovietica, attraverso i porti di Liverpool e di Murmansk.
Quest’operazione, per i rapidi e gravi danni inflitti al nemico, fu paragonata al bombardamento giapponese di Pearl Harbor, e fu pertanto detta la “Pearl Harbor dell’Atlantico”.
Chi scrive si recava a Pearl Harbor nel 2001, 60 anni dopo l’attacco. In uno scenario tropicale di cielo e di mare, verdeggianti colline si stagliavano all’orizzonte, le stesse colline da cui erano spuntati gli aerei giapponesi all’alba del 7 dicembre 1941. Avvicinandosi ai relitti delle navi, si avverte di trovarsi in un luogo carico di tragedia e di storia. Anziani visitatori giapponesi piangevano silenziosamente, forse parenti o camerati dei soldati giapponesi caduti nel pacifico. Altri giapponesi più giovani erano seri e taciturni. Anche gli americani erano presi dalla memoria del luogo, dove quasi quattromila dei loro erano caduti durante l’attacco. Il relitto della corazzata “Arizona” giace oggi sotto un monumentale arco in cemento e cristallo, che costituisce il “War Memorial” dal quale si può vedere tutto lo scenario dell’attacco.
L’”Arizona” è rimasta da allora semisommersa in acque azzurre e trasparenti, che lasciano intravedere il rossastro della ruggine, simile al colore del sangue. Una delle torrette che recavano le armi da 76 mm emerge ancora dall’acqua e permette di individuare l’orientamento del relitto.
Si è detto che furono fatti paragoni fra la devastante campagna dei sottomarini in Atlantico, che alla fine costò ai tedeschi pesanti perdite, e l’attacco giapponese a Pearl Harbor, che a sua volta costò pesanti perdite agli americani. Si deve tuttavia rilevare una differenza fondamentale tra i tedeschi caduti in Atlantico e gli americani caduti a Pearl Harbor: i tedeschi furono uccisi dai loro nemici, gli americani furono vittime del loro Presidente.
Dall’ordine “Shoot-on-Sight” a Pearl Harbor
La falsa neutralità della politica di Roosevelt nei confronti delle potenze dell’Asse negli anni precedenti l’entrata in guerra degli Stati Uniti è un fatto storico consacrato ormai nei vari testi ufficiali, compresa l’”Enciclopedia Britannica” e la “Storia della Seconda Guerra Mondiale” di Churchill. L’argomento è stato inoltre ampliamente trattato da Piero Sella nel suo “L’Occidente contro l’Europa”. La perseveranza con la quale Roosevelt inseguiva l’obiettivo di fare entrare gli Stati Uniti in guerra contro le potenze dell’Asse e contro il Giappone lo portò vicinissimo a raggiungere tale scopo già l’11 settembre 1941, ma la storia volle che egli dovesse pazientare ancora un paio di mesi. Già nel marzo ’41 Roosevelt era riuscito a far approvare dal Congresso la Legge Affitti e Prestiti (Lend and Lease Act), che conferiva al Presidente l’incondizionata autorità a fornire ai Paesi “amici dell’America”, ossia ai Paese “nemici dell’Asse”, ogni quantitativo di denaro, di armi e di mezzi bellici ritenuto opportuno e a decidere le modalità per le “restituzioni”. (Roosevelt decise poi di farsi restituire i beni sotto la forma di basi militari distribuite su tutto l’emisfero occidentale). Naturalmente il primo Paese a beneficiare di tale legge fu l’Inghilterra.
La Germania sapeva di questi atti ostili da parte degli USA, molto vicini ad una formale dichiarazione di guerra, ma vigeva un ordine tassativo di Hitler: evitare a tutti i costi il combattimento con navi americane per non provocare una guerra fra Germania e Stati Uniti. Che gli Stati Uniti contassero su tali provocazioni era noto alla storia passata: esempi ne erano il caso della nave da guerra “Maine”, esplosa all’Avana, che permise agli USA di scatenare il conflitto ispano-americano del 1898, e del siluramento del piroscafo “Lusitania”, carico di armi destinate all’Inghilterra, che permise agli USA di entrare in guerra contro la Germania nel 1917.
Hitler sapeva che Roosevelt non attendeva altro che un’occasione analoga per giustificare di fronte al Congresso l’ennesima entrata in guerra degli Stati Uniti in nome dell’Umanità e della Democrazia. Ma in data 11 settembre 1941 sembrò che l’ordine dato da Hitler ai sommergibilisti germanici in Atlantico, di non rispondere alle provocazioni degli americani, non poté più essere mantenuto. In tale data Roosevelt fece uno dei suoi più bellicosi discorsi per radio, seduto accanto al caminetto, nel quale comunicava di aver dato alla Marina USA l’ordine di sparare a vista (Ordine di operazioni “Shoot-on-Sight” n. 7- 41, Secret Serial (00164) “contro qualsiasi sottomarino o nave di nazionalità tedesca o italiana che si fosse avvicinato a meno di 100 miglia da un convoglio scortato da navi americane, diretto verso l’Islanda o proveniente da essa”.
La formulazione era stata concordata con Churchill durante la Conferenza che ebbe luogo a Placentia Bay nell’isola di Terranova, in Canada, fra il 9 e il 12 agosto 1941, durante la quale venne anche formulato il testo della cosiddetta “Carta Atlantica” (un vero e proprio distillato di ipocrisia, di perfidia e di odio, per chi volesse rileggerselo).
Tale ordine non sorprese Hitler, che neppure allora modificò la propria posizione, ma preoccupò parecchio i suoi ammiragli.
In data 17 settembre 1941 gli Ammiragli Doenitz e Raeder si recarono alla periodica riunione sulla situazione bellica presso il Fuhrer. Fecero presente quali pericoli corressero i sottomarini dislocati in Atlantico per intercettare i convogli inglesi (ma battenti le più disparate bandiere) qualora non avessero potuto contrattaccare le navi americani che li scortavano.
Tali navi erano indistinguibili dalle altre, ed erano munite di tutti i mezzi antisommergibili dell’epoca. Si doveva pertanto rinunziare agli attacchi, oppure rischiare di affondare navi americane. Ma anche dopo tale colloquio Hitler fu irremovibile. L’ordine “Shott-on-Sight” dell’11 settembre 1941 non raggiunse lo scopo desiderato, ma Roosevelt riuscì nel suo criminoso intento quando fece cadere i giapponesi nella trappola di Pearl Harbor, con lo sciagurato ultimatum del 23 novembre 1941.
In esso gli USA minacciava l’immediato e totale blocco del petrolio qualora il Giappone non si fosse subito ritirato dalla Cina, dall’Indocina, dalla Corea, dalla Manciuria, ecc., e non avesse inoltre pagato a tali Paesi i danni di guerra, ecc.
Era ben noto a Roosevelt che il Giappone non avrebbe mai potuto accettare un ultimatum del genere e che quindi non avrebbe avuto altra scelta che la guerra. Sapeva inoltre che la guerra contro una delle Nazioni del Tripartito (Roma-Berlino-Tokio) avrebbe coinvolto automaticamente gli altri Stati membri. E fu così.
L’11 dicembre 1941 Hitler tenne al Reichstag uno dei suoi più importanti discorsi denunciando i crimini di guerra di Roosevelt, elencandoli tutti. Sintetizziamo qui alcuni passi di tale discorso.
Hitler ripercorre le vicende storiche dell’Impero di Roma fino al retaggio ricevuto dai popoli germanici di perpetuarne la grandezza, la cultura e la civiltà. Sottolinea come, mai nella Storia, la Germania abbiamo avuto intenzioni ostili verso gli Stati Uniti: “La Germania è l’unica grande potenza che non abbia mai stabilito colonie nel Nord o nel Sud America. Essa ha bensì mandato numerosi suoi figli in entrambe le Americhe, che hanno contribuito a rendere tali Nazioni progredite e forti”. Dopo aver passato in rassegna gli innumerevoli episodi delle aggressioni americane contro la Germania, e dopo avere in particolare citato il discorso di Roosevelt dell’11 settembre, Hitler così prosegue: “E’ noto a tutti che quest’uomo (Roosevelt) con i suoi ascendenti ebraici ha combattuto da anni, con gli stessi mezzi, anche il Giappone. Noi sappiamo quali forze stanno dietro di lui. Egli è quell’eterno tipo di ebreo che ritiene che ora sia giunta la sua ora per infliggere a noi quel “paradiso in terra” ebraico che abbiamo con orrore scoperto dentro l’Unione Sovietica”.
Hitler conclude il suo discorso annunciando di aver fatto consegnare all’Incaricato d’Affari americano a Berlino il passaporto, scatenando un’interminabile ovazione dei membri del Reichstag.
Da tale discorso si evince che Hitler aveva già individuato nell’ordine “Shoot-on-Sight” l’intenzione di Roosevelt di gettare l’America nella guerra contro i popoli dell’Asse.
L’11 settembre 1941 Roosevelt scagliò nel cielo della storia un boomerang destinato a lasciare dietro di sé una lunga scia di distruzione, di sangue e di morte. Per una singolare coincidenza, o forse per un imperscrutabile disegno del destino, quel boomerang doveva tornare sulla terra nel 2001, esattamente sessant’anni dopo, l’11 settembre, schiantandosi sulle Torri Gemelle di New York.
La prima missione “Paukenschleg” (gennaio 1942)
La Marina tedesca a questo punto era finalmente libera dal vincolo di non poter reagire alle provocazioni americane.
L’Ammiraglio Doenitz concepì e pianificò subito un’azione devastante contro i convogli dei rifornimenti vitali per l’Inghilterra e la Russia. L’operazione fu chiamata “Paukenschlag”. Il grido di battaglia dei sommergibilisti divenne “Angriff! Ran! Versenken!” (Attacco! Addosso! Affondare!). L’operazione prevedeva che cinque sommergibili del nuovissimo tipo IX B dovessero prendere posizione lungo le coste Nordamericane, dal Canada al Messico, per attaccare alla partenza le navi destinate a far parte, o a scortare, i convogli diretti verso l’Europa. I sottomarini erano armati con gli ultimi tipi di siluri G7, capaci di una portata di 5.000 metri e di una velocità di 50 km/ora (30 nodi).
Essi dovevano coordinarsi per lanciare contemporaneamente i loro attacchi contro i convogli nei settori assegnati (concetto del “branco”). Responsabile per il comando del proprio sottomarino, l’U-123, e per il coordinamento con gli altri sottomarini, era il tenente di vascello non ancora trentenne Reinhard Hardegen. A tale scopo egli era stato convocato personalmente da Doenitz nel suo Quartier Generale del Kerneval presso Lorient, il 19 dicembre 1941, assieme agli altri quattro Comandanti dei sommergibili prescelti.
Hardegen era appena rientrato da una missione sulle coste della Sierra Leone, in Africa Occidentale. Tale zona era molto ricca di prede perché frequentata da grosse navi da carico che facevano la spola tra l’Inghilterra e Freetown. Ad un ufficiale che gli chiese se fosse lieto dell’entrata in guerra dell’America così rispose: “Certamente! Io provo una rabbia feroce contro gli americani. Lei deve sapere che nel corso della mia ultima missione in Africa gli americani, con la loro ipocrita aureola di neutralità, mi hanno fatto fesso! Ogni volta che scorgevo fumo e antenne all’orizzonte, e mi facevo sotto per lanciare i siluri, all’ultimo momento spuntava la bandiera americana sulla poppa! Ed io sapevo, come lo sapevano tutti, che queste navi americane trasportavano armi e munizioni per il nemico. Eppure non potevamo attaccarle. Adesso possiamo!”.
Doenitz si intrattiene dapprima con Hardegen, dandogli del tu, e chiedendo del suo stato di salute. Doenitz sapeva benissimo che a causa di ferite ricevute in azioni precedenti, Hardegen era stato dichiarato non idoneo al comando di sommergibili, ciò nonostante glielo volle chiedere direttamente. Hardegen si dichiara perfettamente idoneo. Doenitz, divertito dal sotterfugio, disse: “Hardegen, lo sapevo già che sei un carattere combattivo, ma non sapevo che tu fossi anche un po’ pazzo! Forse è più giusto dire che sei ambizioso, e io ora ti affido il nostro più moderno sommergibile, il tipo IX B, ma bada a te, sono pronto a rispedirti a terra al ritorno dalla tua prima missione contro il nemico, se fosse il caso!”. “Jawohl, Herr Admiral!” rispose Hardegen entusiasta.
A questo punto Doenitz convoca anche gli altri ufficiali e dà loro i seguenti ordini: “Dovete approvvigionare i vostri battelli con derrate e carburante per un lungo viaggio. Iniziate subito le prove di immersione. Dovrete essere sicuri di portare il battello in immersione in meno di 35 secondi. In caso di avvistamento aereo è una questione di vita o di morte. I Sunderlands inglesi non esiteranno ad attaccarvi e la vostra sicurezza dipenderà dalla vostra rapidità nel compiere la manovra. Quando sarete in mezzo all’Atlantico la probabilità di essere attaccati dagli aerei diminuirà, ma non del tutto. Quei Comandanti che hanno preso alla leggera questa minaccia non sono più tra noi. Voi partirete subito e punterete su St. John e su Cape Race, a Terranova. Il 26 dicembre potrete aprire le buste che contengono gli ordini successivi per la vostra missione. Durante il viaggio osservate un assoluto silenzio radio e non attaccate alcuna nave nemica”.
Poi s’interruppe pensoso, e aggiunse, come parlando fra sé: “A meno che non incontriate un 10.000 tonnellate. Un 10.000 tonnellate non si può lasciare indenne!”. Poi continuò: “Noi picchieremo sull’oceano come su un tamburo. Perciò ho battezzato questa operazione “Colpo di tamburo”. Voglio che portiate al successo questa operazione. Voi applicherete il motto di noi sommergibilisti, “Angriff! Ran! Versenken!” Signori ufficiali, avete compreso i miei ordini?”. “Jawohl, Herr Admiral” fu l’unanime risposta.
Iniziava così la più audace operazione sottomarina mai tentata lungo le coste dell’America. Il 23 dicembre 1941 partiva da Lorient la prima delle missioni “Paukenschlag”, coordinata dal Comandante Reinhard Herdegen, comandante dell’U-123.
Il 9 gennaio 1942 si scatenò sull’Atlantico una tempesta di vento e di neve di impressionante violenza. L’ordine era di raggiungere entro il 13 gennaio lo “scacchiere” corrispondente all’area da New York ad Atlantic City, ed ivi dare inizio all’operazione. Ma il destino volle che già nella scurissima e ancora tempestosa notte del 12 gennaio, Hardegen scorgesse all’orizzonte la sagoma di una grossa nave che faticosamente procedeva nel mare infuriato. Diede un rapido controllo al “Groner”, il vangelo di ogni sommergibilista, che riportava le sagome e le caratteristiche di tutte le navi conosciute: riconobbe la “Cyclops” di 9.100 tonnellate, di nazionalità britannica. “non sono proprio le 10.000 tonnellate che voleva l’Ammiraglio…ma quasi!”.
Compie quindi un’ampia manovra per portare il sommergibile ad una distanza accettabile, date le condizioni del mare, a circa 1.500 metri, con un angolo il più prossimo possibile ai 90° rispetto all’asse longitudinale del bersaglio. A questo punto hardegen dà l’ordine di preparare il primo siluro e di fissare la quota di crociera a meno 3,5 metri. Il siluro viene lanciato. Dopo mezzo secondo dal lancio le eliche del siluro entrano in funzione; ora deve procedere senza ulteriori controlli verso il bersaglio. Dopo quasi 100 interminabili secondi Hardegen vede levarsi una colonna d’acqua di decine di metri di altezza, illuminata da una spettrale luce giallastra, accompagnata, poco dopo, da un frastuono che supera il fragore del vento e delle onde. La “Cyclops” era stata colpita ed era in fiamme. Hardegen dà l’ordine di emersione e di preparare subito il cannone di prora da 105 mm che costituiva la principale arma dopo i siluri. Avvicinatosi a circa 600 metri, Hardegen osserva che l’equipaggio stava risalendo dalle scialuppe sulla nave, pur adagiata sul fianco. Ciò significava che la nave aveva potuto lanciare un SOS, al quale era stato risposto, e quindi la nave era in attesa di mezzi di soccorso e di aerei destinati ad attaccare il sommergibile che l’aveva silurata.
Hardegen non ebbe dubbi: per un rapido affondamento della nave ed un tempestivo allontanamento dalla zona dell’attacco non bastava il cannone; un secondo siluro era necessario. Viene dato l’ordine di lancio. Dopo alcuni secondi uno schianto ancora più terrificante del primo si fa sentire ed una seconda colonna d’acqua si leva dalla fiancata della nave. Questa volta in breve la nave affonda. I naufraghi si stipano nelle scialuppe di salvataggio.
Il marinaio diciannovenne L. S. Hughes, di Vancouver, che sopravvisse al naufragio, raccontò che molti marinai morirono per congelamento sulle scialuppe, ma non tutti i corpi vennero gettati fuori bordo. Alcuni cadaveri furono trattenuti sulle scialuppe per proteggere i sopravvissuti dal freddo intenso e dagli spruzzi di acqua gelata.
Dopo l’affondamento del “Cyclops”, l’U-123 si dirige verso la costa di New York. Hardegen descrive con lo stupore del turista clandestino l’impressionante visione, attraverso il periscopio, di una New York illuminata come in tempo di pace. Egli poteva vedere le luci dei grattacieli, degli impianti portuali, delle automobili sulle strade costiere, cosa che da anni in Europa era divenuta impossibile. Egli volle che anche i suoi ufficiali dessero un’occhiata per capire che avevano raggiunto il cuore pulsante del nemico. Le luci di New York erano un segno dell’arrogante senso di superiorità degli americani nei confronti di una qualsiasi minaccia proveniente dall’Atlantico.
La vista illuminata da parte dell’U-123 durò poco. Attraenti prede si succedevano al periscopio di attacco del sommergibile. Nella notte del 14 gennaio 1942 la petroliera “Norness” di 9.500 tonnellate, battente bandiera norvegese, ma costruita in germani nel 1939 dai cantieri di Amburgo, si presentava agli occhi di Hardegen.
Questa volta occorsero ben cinque siluri per affondare l’immensa nave. L’equipaggio riuscì in parte a salvarsi sulle scialuppe, ma al solito, il grande nemico era il freddo. Il macchinista Henry Danielson poté raccontare di avere sofferto meno dei suoi compagni perché, essendo già stato silurato nel 1916 da un sottomarino tedesco, dormiva sempre vestito con gli indumenti già caldi, pronto a gettarsi senza preavviso nell’acqua ghiacciata.
L’elenco delle navi affondate dall’U-123 diventa sempre più lungo. Il 15 gennaio tocca al piroscafo “Coimbra”. Il 17 e il 19 gennaio altri due piroscafi vengono affondati al capo Hatteras. Ancora il 19 gennaio è la volta del “City of Atlanta” e del “Ciltvaira” (nome lettone di una nave al servizio degli inglesi). Con questi ultimi clamorosi successi, e senza più siluri, l’U-123 si avvia ormai sulla strada del ritorno verso casa. Ma all’irriducibile Hardegen restavano sempre le armi di bordo: il cannone da 105 mm e la mitragliera da 37,5 mm. Dopo alcuni giorni di navigazione, l’U-123 corre il rischio più grande della sua prima missione americana. La petroliera norvegese “Kosmos II” scopre il sommergibile che viaggia in superficie, per un’avaria riportata in uno degli ultimi scontri, ad una distanza di soli 400 metri.
I due nemici non avevano potuto vedersi prima a causa del fumo di un piroscafo in fiamme (il “Malay” colpito da un altro sommergibile germanico. La “Kosmos II” si lancia alla sua massima velocità di 17 nodi contro l’U-123 con la chiara intenzione di speronarlo, non disponendo che di armi di piccolo calibro. Herdegen vede il pericolo mortale: non c’è tempo per immergersi, non c’è tempo per manovrare. L’unica salvezza è la fuga, nella speranza che i 18 nodi di velocità massima siano ancora disponibili. Ha così luogo uno dei più drammatici inseguimenti in mezzo all’Atlantico fra una petroliera ed un sommergibile che non può deviare nemmeno di un grado dalla sua rotta per non perdere quello spunto di velocità che può garantirgli la salvezza. Gli equipaggi di entrambe le navi si potevano agevolmente vedere in faccia e si facevano dei gestacci.
Ad una distanza di poco più di 100 metri viene aperto il fuoco da parte di entrambe le navi con tutte le mitragliatrici e le armi portatili disponibili. Hardegen stesso si munisce di una pistola per razzi da segnalazione e lancia salve di proiettili colorati e traccianti verso il “Kosmos II”, che ottengono l’effetto di far allontanare dalla prua l’equipaggio nemico. L’inseguimento si protrae per diverse ore, ma alla fine quel nodo di differenza nella velocità permette all’U-123 di sottrarsi al mortale pericolo, di guadagnare l’oceano aperto e infine di immergersi.
Il 25 gennaio 1942, nell’euforia dello scampato pericolo ma sempre senza siluri, Hardegen scorge all’orizzonte un piroscafo a sud di Bermuda ed esclama: “Ecco che arriva il nostro “arrosto della domenica”!” (Il “Sonntagsbraten” è un classico piatto tedesco dei giorni festivi). Viene preparata l’emersione nella giusta posizione per poter aprire subito il fuoco col cannone da 105. Viene meticolosamente stabilita la catena umana che deve assicurare il flusso delle munizioni fino all’affondamento del nemico. Si trattava della nave cisterna “Culebra” di 3.500 tonnellate, armata di un cannone da 50 mm e di altre armi leggere. Era essenziale battere sul tempo qualsiasi reazione nemica. La sorpresa riesce perfettamente. L’U-123 emerge a 400 metri dal piroscafo. E’ possibile scorgere coi binocoli i volti esterrefatti degli inglesi. Subito il sommergibile apre il fuoco. I primi colpi vanno a vuoto, ma prontamente viene corretto il tiro. Ora anche gli inglesi sparano. Hardegen da ordine di mirare al loro cannone. Nonostante gli incendi già scoppiati a bordo gli inglesi sparano fino a quando viene centrata in pieno la loro arma. A questo punto il “Culebra” non ha più scampo. Hardegen chiama tutto l’equipaggio per offrire loro lo spettacolo della nave nemica che affonda in fiamme, poi decide di avvicinarsi alle scialuppe dei naufraghi, avendo calcolato che il pericolo di attacchi aerei in pieno Atlantico è improbabile. Si rende conto che non hanno neppure i secchi per vuotare le scialuppe dall’acqua di mare. Fornisce loro secchi, acqua potabile e viveri, e comunica loro la posizione e la rotta da seguire per raggiungere Bermuda. Giungeranno a Port Hamilton sani e salvi e molti di loro, dopo la guerra, vorranno rincontrare Hardegen.
Si chiude così la prima missione “Paukenschlag” dell’U-123 di reinhald Hardegen. All’arrivo a Lorient il sommergibile viene atteso personalmente dall’Ammiraglio Doenitz, che sale a bordo e decora Hardegen con il Rittenkreuz, si congratula con i singoli membri dell’equipaggio e infine si apparta con Hardegen per alcuni minuti. Si scende quindi a terra. Discorsi, banchetti e musica accompagnano il compimento della missione. Per la prima volta dopo 48 giorni la birra scorre a fiumi, l’euforia è al colmo. Alcuni uomini chiedono a Hardegen cosa gli abbia detto in privato l’Ammiraglio Doenitz. Hardegen sorride e si limita a dire che gli ha parlato delle prossime missioni. Uno dei suoi ufficiali, Schultz, sogghigna e mormora: “Gli avrà detto che si torna in America” (Zuruk nach Amerika). Ma il commento si diffonde in un lampo e raggiunge Hardegen, che esclama: “Ebbene, Schultz, questa è una possibilità!”. Tutta la sala prorompe in un solo urlo: Zuruk nach Amerika! Zuruk nach Amerika!”.
La seconda missione “Paukenschlag” (marzo 1942)
Il panico regnava negli ambienti della U.S. Navy. La Marina era talmente scoraggiata dalla propria impotenza di fronte alla campagna sottomarina tedesca che decise di riesumare un “trucco” che pareva aver avuto successo durante la Prima Guerra Mondiale: l’impiego delle navi-trappola per sommergibili chiamate “Queen Ships”, abbreviato in “Q-Ships”. L’idea sembrava già allora balzana ma si rivelò anche inutile e catastrofica.
Le “Q-Ships” erano caricate con materiale adatto al galleggiamento, come centinaia di bidoni vuoti, legno leggero, ecc. La nave disponeva di potenti artiglierie a bordo che però erano invisibili fino all’ultimo momento perché nascoste dietro portelloni, teloni ed altri mezzi di mascheramento. A questo punto la nave doveva esporsi al lancio di un siluro e, quando il siluro colpiva, doveva inscenare una pantomima: solamente una parte dell’equipaggio doveva simulare il panico, calando precipitosamente le scialuppe, lanciandosi in acqua, ecc. L’altra parte dell’equipaggio doveva invece prepararsi ad aprire il fuoco al momento opportuno. La situazione della nave colpita, ma non affondata, nonché il comportamento dell’equipaggio, doveva indurre il sottomarino ad emergere. A quel momento spuntavano da ogni parte i cannoni che dovevano affondare il sommergibile!
Non occorre dire che le “Q-Ships” si esponevano a dei rischi non indifferenti e che il panico dimostrato dall’equipaggio non era probabilmente del tutto simulato. Come vedremo più avanti, una di queste “Q-Ships” incontrò Hardegen e mal gliene incolse.
Doenitz aveva in effetti deciso una seconda missione “Paukenschlag”, assegnando a Hardegen tutta la costa a sud di Capo Hatteras, fino al Golfo del Messico.
Il 2 marzo 1942 l’U-123 parte per la sua seconda missione in acque americane. Il viaggio di trasferimento si rivela lungo e noioso, mentre nel Quartier Generale di Doenitz un sottufficiale stancamente spostava ogni giorno una microscopica bandierina azzurra su di una immensa carta dell’oceano Atlantico in direzione del Nord America. Sul sommergibile era festa grande quando il cuoco Hannes preparava i maccheroni, chiamati dall’equipaggio “Mussolini-Spargeln” (Gli asparagi di Mussolini). Ma la situazione era destinata a cambiare rapidamente non appena raggiunte le acque americane.
Il primo incontro con Hardegen fu fatale per la nave-cisterna americana “Muskogee” di 7.000 tonnellate, proveniente dal Venezuela, nonché per la “Empire Steel”, entrambe dirette verso gli Stati Uniti. Una delle navi-trappola era il piroscafo “Atik”, trasformato in “Q-Ships” sotto il nome “Carolyn”. Hardegen lo inquadra e lancia il suo siluro, che provoca un incendio ma, come previsto da quei diavoli di americani, non affonda la nave. Scatta la scena dell’equipaggio che si getta in acqua. Dopo alcuni minuti l’U-123 emerge, ed in quel momento il “Carolyn” apre il fuoco. Hardegen fa in tempo a sottrarsi colpi, uno dei quali però raggiunge il sommergibile causando la morte di un membro dell’equipaggio, Holzer, che sarà poi sepolto in mare. Hardegen è furioso, non solo per l’inganno, ma anche per la prima perdita di un uomo del suo equipaggio.
L’U-123 si immerge, si riposiziona e, mentre l’equipaggio del “Carolyn” che aveva recitato la sceneggiata stava risalendo a bordo, essendo tutti convinti di aver affondato il sommergibile, lancia un secondo siluro che centra in pieno la nave già in fiamme. E’ la volta buona. Il 27 marzo 1942 è la fine del “Carolyn-Atik”.
Per la storia, tutte le “Q-Ships” furono in breve tempo affondate dai sottomarini tedeschi. Lo storico ufficiale della Royal Navy, Stephen W. Roskill, scriverà che mai fu escogitato un metodo più costoso, pericolo e inutile dell’impiego delle “Q-Ships” per combattere i sommergibili.
L’U-123 aveva intanto raggiunto per la prima volta le acque della Florida. Le autorità locali si erano tassativamente opposte ai tentativi di oscuramento voluti dalla Marina. Lo stesso Comandante in Capo Ammiraglio King modificò un suo primo ordine di oscuramento totale (Black-out) in un ordine di oscuramento parziale (Dim-Out). La Florida non se ne curò. Locali da ballo, alberghi, casinò, stabilimenti balneari, parchi di divertimento erano illuminati a giorno come in tempo di pace. Gli equipaggi dei sommergibili tedeschi potevano di nuovo ammirare un’intera costa illuminata, come già avevano fatto a New York.
L’U-123 giunge di fronte a Jacksonville e scorge la sagoma di un grande piroscafo che si staglia nettamente contro le luci della costa. Si trattava della petroliera “Gulfamerica” di 8.000 tonnellate, che faceva il suo viaggio inaugurale dal Texas a New York trasportando petrolio destinato all’Inghilterra, come si seppe alla fine del conflitto. Hardegen disponeva solamente di due siluri, pertanto bisognava essere certi del risultato. Erano le 10 di sera. Viene lanciato il primo siluro: all’improvviso un’immensa vampata di fuoco gialla e rossastra è visibile su tutta la costa di Jacksonville, accompagnata da un terribile frastuono. La gente, attratta dall’insolito evento si precipita sulle spiagge, irritando fortemente Hardegen. Egli aveva deciso di finire la nave a cannonate per risparmiare l’ultimo siluro, ma stavolta eventuali colpi andati a vuoto sarebbero finiti sulla riva facendo strage di civili. Prende allora la pericolosa decisione di posizionarsi fra la costa ed il suo obiettivo nonostante ci fosse il rischio di trovare i fondali bassi. Dopo pochi colpi di cannone, la “Gulfamerica” termina il suo viaggio inaugurale con un destino simile a quello già toccato al Titanic.
Scriverà Hardegen nel suo libro di bordo: “Tutti i villeggiati hanno così potuto godersi un eccezionale spettacolo a spese di Roosevelt. Una petroliera in fiamme di fronte a sé, per di più attaccata e affondata a colpi di cannone, mentre la nera sagoma del nostro sommergibile si stagliava contro la nave incendiata. Uno spettacolo simile non era ancora mai stato offerto a dei villeggianti, neppure in America!”.
Era l’11 aprile 1942. Dopo questo ennesimo affondamento la Marina darà ordine di sospendere il traffico delle navi petroliere lungo le coste, e il petrolio dovrà essere trasportato via terra verso il Nord degli Stati Uniti.
L’U-123, già avviato sulla strada del ritorno, corre ora un grave pericolo: l’improvviso apparire di un incrociatore lo obbliga ad adagiarsi sul fondo profondo solo 30 metri! L’U-123 era ora esposto ad un facile attacco con bombe di profondità. In effetti l’incrociatore compie alcuni passaggi lanciando bombe a casaccio sul bersaglio. Le esplosioni scuotono violentemente lo scafo. Hardegen pensa che l’ultima ora sia giunta. Dà ordine di distruggere i codici e tutti i documenti segreti di bordo. Dà ordine all’equipaggio di prepararsi ad uscire dai boccaporti di emergenza per tentare di raggiungere una difficile salvezza. Mentre a bordo è spasmodica l’attesa dell’attacco fatale, l’incrociatore si allontana e scompare. Hardegen commenta: “Era americano. Se fosse stato inglese, non avremmo avuto scampo!”.
Nel mese di marzo 1942 gli Alleati avevano perso una nave al giorno, silurata dai sottomarini tedeschi. La Marina USA dà ordine all’FBI di accertare se non vi siano infiltrazioni di simpatizzanti nazisti fra il personale. Sta di fatto che l’incompetenza della Marina USA nel campo della lotta antisommergibile, nei primi anni di guerra, unita alla tradizionale mancanza di combattività, fecero scrivere ad un giovane Generale di Brigata, Dwight Eisenhower, in data 12 marzo 1942: “Un’azione che potrebbe, forse, aiutarci a vincere questa guerra, sarebbe quella di reperire una persona di buona volontà disposta a sparare all’Ammiraglio King”.
Invano Churchill aveva inviato il suo massimo esperto di lotta antisommergibile, il Comandante Roger Winn, presso la U.S. Navy per spiegare come si combattono i sottomarini. Winn tentò di spiegare che occorreva assolutamente oscurare le coste, che occorreva impiegare il massimo numero possibile di navi, specie se piccole e facilmente manovrabili, anche se civili e disarmate, purché munite di un modesto radar per l’individuazione, nonché di una radio per comunicare la posizione di eventuali sommergibili. Lo stesso valeva per gli aerei, anche da turismo (si creò in effetti più avanti il C.A.P., Civilian Air Patrol). Essenziale era la costituzione della Centrale Operativa di Comando, che gli inglesi chiamavano Tracking Room, dove dovevano confluire tutte le informazioni relative agli avvistamenti di sommergibili, dove tutte le contromisure dovevano essere centralmente coordinate. Inoltre le armi sia di scoperta che di annientamento dei sommergibili dovevano assolutamente essere sviluppate, migliorate e moltiplicate: ecogoniometri, sonar, rilevatori di campo magnetico, radar capaci di individuare i periscopi (questo tipo di radar non sarà messo a punto durante la Seconda Guerra Mondiale), nonché bombe di profondità ad ottima regolazione, siluri con testate auto cercanti, mine di profondità. Dovevano essere messi in servizio speciali navi ed aerei antisommergibile, ma, soprattutto, occorreva migliorare la determinazione e la combattività dei Comandanti e degli equipaggi.
Gli americani ascoltavano Winn alternando fastidio e indifferenza. Dicevano che volevano imparare dalla “loro” esperienza, e non da quella degli inglesi, e che dopotutto disponevano di un sufficiente numero di navi per poterselo permettere!
Lentamente però anche la U.S. Navy cominciò a capire. Dalla fine del ’42 in poi i consigli inglesi furono presi più seriamente; si giunse ad un progressivo perfezionamento delle armi e soprattutto ad un potenziamento aero-navale che negli anni ’43, ’44, ’45 mise fine alla superiorità della Germania in campo navale, ma non alla sua combattività. Si pensi che ancora il 28 marzo 1945 l’U-532 al comando del capitano Junker, affonda in pieno Atlantico la petroliera “Oklahoma” che, per curioso festino, era già stata colpita da Hardegen l’8 aprile 1942. Ancora nei primi mesi del 1945 la Germania riusciva a varare cinque sommergibili al mese. Ma dei 40.000 ufficiali e marinai della flotta sottomarina germanica 30.000 non faranno più ritorno. Essi giacciono ancora oggi sul fondo degli Oceani, chiusi nelle loro bare di ferro.
L’U-123 piazza il suo ultimo siluro nel ventre della nave “Leslie” di 2.600 tonnellate il 13 aprile 1942 presso Cape Canaveral. Lo stesso giorno affonda a cannonate il piroscafo “Korsholm” di 5.300 tonnellate, carico di fosfati e diretto a Liverpool. L’ultima vittima di Hardegen sarà l’”Alcoa Guide” di 4.000 tonnellate il 17 aprile 1942.
Nelle due operazioni “Paukenschlag” l’U-123 di Hardegen ha affondato 300.141 tonnellate di naviglio nemico. Di tutti i comandanti di sommergibili tedeschi, a quella data, solo un altro ufficiale, il Comandante Topp dell’U-532 avrà superato, con Hardegen, le 300.000 tonnellate di naviglio nemico affondato.
Il 23 aprile 1942 il Fuhrer decorò Hardegen con la Croce di Guerra con Foglie di Quercia. Hardegen continuerà a servire nella marina fino alla fine della guerra che lo colse a Flensburg nel maggio 1945 alle dirette dipendenze di Doenitz, divenuto successore di Hitler. Dopo un anno di campo di concentramento, alla fine del 1946 poté tornare presso la sua famiglia a Brema, dove tuttora vive.
L’incontro a Murmansk con Reinhard Hardegen
Circa cinquant’anni dopo l’operazione “Paukenschlag”, chi scrive si trovava a bordo di un rompighiaccio russo che effettuava il Passaggio di Nord-Est, dalle isole Spitzbergen al pacifico, lungo le coste settentrionali della Siberia. In uno di quei lunghi giorni la nave stava penetrando nello splendido e profondo fiordo di Murmansk, che non gela mai a causa delle ultime lingue di acque calde della corrente del Golfo. Murmansk fu fatta costruire dall’ultimo Zar per permettere un accesso all’Oceano Artico. La città aveva un grande centro storico percorso da viali larghissimi e alberati, che richiamava la Prospettiva Nevskj di San Pietroburgo, con negozi, bei palazzi, caffè che durante la bella stagione (pochi giorni all’anno) disponevano tavolini all’aperto. Il fiordo di Murmansk, lungo circa 50 chilometri, costituisce l’accesso dal mare. Le sue rive sono formate da monotone colline coperte da vegetazione a basso fusto. E’ pieno oggi di relitti di navi della ex-flotta sovietica, non affondate dal nemico come toccò a quelle americane di Pearl harbor, bensì lasciate degradare per mancanza di manutenzione e per incuria.
Si intravede finalmente il porto e la città di Murmansk, dominata ancora oggi dalla monumentale statua di un soldato sovietico sulla più alta delle colline che circondano la città. Il soldato punta minacciosamente la sua arma verso Occidente, simboleggiando la resistenza sovietica contro le forze tedesche che premevano verso oriente in tutta la penisola di Kola. Murmansk non fu però mai occupata, anche se fu quasi del tutto distrutta, come testimonia un piccolo museo locale.
L’offensiva tedesca sul fronte Nord si arrestò a pochi chilometri da questa città portuale, la cui importanza strategica fu forse sottovalutata dai comandi germanici. Non si poteva probabilmente immaginare che la svolta della guerra in Russia, a partire dalla fine del ’42, potesse dipendere in misura così vasta dai convogli alleati che rifornivano l’Unione Sovietica di armi, automezzi, cibo, petrolio, ecc proprio attraverso il porto di Murmansk.
Conoscendo in buona parte queste vicende mi venne spontaneo scambiare alcune parole con un passeggero sconosciuto che, come me appoggiato alla murata della nave, contemplava in silenzio quello scenario artico. Quasi come parlando a me stesso dissi: “Eccoci a Murmansk! E’ qui che centinaia di navi alleate scaricarono armi e materiali per i russi durante la guerra”. Lo sconosciuto, un uomo alto, magro, con un bel portamento e capelli bianchi scompigliati dal vento, mi piantò addosso due occhi azzurri e freddi come il ghiaccio polare e dopo alcuni istanti disse calmo: “Si, però non tutte sono giunte”. “Posso chiederle cosa intende?” chiesi io. “Intendo dire” rispose “che non tutte sono giunte a Murmansk perché io stesso ho affondato più di 300.000 tonnellate di convogli alleati, solamente col mio sommergibile, ed ogni sommergibile tedesco ha fatto quasi altrettanto” aggiunse con un sorriso d’orgoglio. Poi si presentò: “Sono il comandante Reinhard Hardegen, dell’operazione Paukenschlag”.
Per il resto del viaggio, nelle fredde e bianche notti artiche, che già ispirarono Dostoevskij, potei conversare con lui per ore e giorni. Eravamo sempre circondati da una vaga luce biancastra, con striature a volte gialle, rosee o verdognole, a seconda dei riflessi delle nebbie, delle nuvole basse o del mare nero come l’inchiostro. Il sole bianco e basso sull’orizzonte, irradiava i suoi gelidi raggi per tutta la notte.
Hardegen raccontò delle lunghe traversate, di come New York, Jacksonvill, Miami, apparivano attraverso le lenti del periscopio. Narrò dell’incubo delle bombe di profondità, delle colonne d’acqua che si levavano dalle fiancate delle navi colpite. Riferì dei suoi commoventi incontri coi sopravvissuti ai suoi siluramenti che cercò poi di rintracciare, dove possibile, uno per uno. Questi suoi incontri in America ed in Inghilterra furono oggetto di libri, articoli e interviste televisive.
Raggiungemmo poi lo Stretto di Bering entrando da Nord nell’Oceano Pacifico. Nel porto russo di Providenya, in capo al mondo, sede di uno dei terribili Gulag, lasciammo la nave e ci congedammo. L’anno successivo ricevetti una lunga lettera nella quale Hardegen raccontava di aver raggiunto, attraverso incredibili peripezie, il polo Sud Geografico, dove rimase bloccato sotto una tenda per due settimane a causa di tempeste di neve e di vento che impedivano l’atterraggio dell’aereo che doveva riportarlo alla civiltà.
Egli ora ha quasi novant’anni, vissuti con intensa lucidità, entusiasmo, dimostrando sempre grande coraggio fisico e morale. E’ un uomo che ha saputo conservare gli intramontabili ideali di amore per la patria, sia in tempo di guerra che di pace.
BIBLIOGRAFIA
MICHAEL GANNON, Operazione Paukenschlag, Edizioni Ullstein
PIERO SELLA, L’Occidente contro l’Europa, Edizioni dell’Uomo libero
ADOLF HITLER, Kriegsschuld Franklin D. Roosevelt, Ed. Wilhelm Greve, Berlino
WINSTON CHURCHILL, La Seconda Guerra Mondiale (Terzo Volume), Mondadori
B. H. LIDDEL HART, Storia militare della Seconda Guerra Mondiale, Mondadori
Kriegstagebuch des Oberkommando der Wehrmacht 1942, Ed. Bernard und Graefe
HAMILTON FISH, Der zerbrochene Mythos, Edizioni Grabert
ROBERT B. STINNETT, Il giorno dell’inganno, Pearl Harbor, Il Saggiatore
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