martedì 7 dicembre 2010

Europa – Stati Uniti:L'incolmabile fossato



di Sergio Gozzoli

Da “ l’Uomo Libero” n19

(Nota mia,sono passati 23 anni dalla stesura di questo splendido articolo,e occorre constatare con dolore che ormai siamo sempre più simili agli USA)


Al di qua e al di là dell'Atlantico - Cento e un'America - Una società senz'anima - Il revanscismo dei proscritti - Da Kadesh a Stalingrado, da Saratoga alla Normandia - Ma quale Occidente? Il mortale veleno dell'equivoco - E' sul terreno del costume la battaglia decisiva.
Un Europeo, in qualunque città o borgata venga alla luce, apre gli occhi su di una realtà in cui presente e passato sono inestricabilmente frammisti.
Gran parte di quel che lo circonda è antico. Talora, antichissimo. Da Altamira a Kiev, da Cnosso a Stonehenge, l'ambiente nel quale egli si muove ha il respiro lungo dei secoli, quando non dei millenni. Può anche nascere e crescere nel quartiere più moderno della più moderna delle città, e tuttavia prima o poi — spesso ancora ragazzo — egli incontrerà fatalmente le testimonianze del «suo» passato.
Testimonianze non fossili, ma vive, componenti sostanziali del mondo nel quale è immerso e nel quale si forma.
Non è necessario che egli vada a cercare le stupende pitture rupestri del Paleolitico, né le misteriose costruzioni megalitiche dei templi maltesi o dei menhir di Corsica o Cornovaglia, e neppure il raffinato splendore dei monili scitici, etruschi o celtici: basta che egli si guardi attorno nel suo mondo di tutti i giorni. Il selciato dei vicoli, le statue del parco che circonda la villa rinascimentale, le torri rivestite d'edera, la facciata e le guglie della cattedrale, il castello diroccato, i fossati, i canali, i cippi confinari fra podere e podere, i ruderi delle mura cintoie della città, le fontane della piazza lastricata in pietra, le inferriate e i portoni dei palazzi patrizi, gli affreschi e gli intonaci nell'ombra perenne dei chiostri, il ponte medioevale, la colonna e l'arco romano, sono per lui presenze naturali, come il cielo, gli alberi, o i corsi d'acqua. I colori del mattone, della pietra, del marmo, sbrecciati o levigati dalle intemperie dei secoli, gli sono familiari quanto i colori dei boschi nel variare delle stagioni.
Qualunque sia il suo tipo di sensibilità, il suo grado di intelligenza, il suo livello di cultura, egli viene comunque — in qualche misura — penetrato e influenzato da tutto questo.
Che egli ne sia consapevole o meno, quella patina di nobiltà che il tempo ha deposto sulle cose che lo circondano plasma e segna i suoi modelli mentali, il suo carattere, il suo senso estetico.
Che egli lo voglia o no, l'antico vive in lui, ed indelebilmente gli sedimenta dentro, nei sensi e nello spirito, una qualche sorta di amore e di rispetto per il passato.
* * *
Diversamente dall'Europeo, un americano cresce in un ambiente del tutto «moderno». Quel che immediatamente si offre ai suoi occhi e al suo cervello sono la geometrica ripetitività di edifici informi, il brulicare di autoveicoli per strade che sembrano tutte uguali, lo squallore monotono del cemento e della plastica, la petulante volgarità policroma delle insegne pubblicitarie.
Anche l'Europeo, certo, riceve oggi fra le prime impressioni ed esperienze di vita la luce fredda del neon, i colori chiassosi della plastica e delle vernici, l'insensata violenza di musiche sincopate a tutto volume.
Ma la differenza sta nel fatto che il giovane americano, crescendo, non conosce altro che questo. L'asfalto e il cemento, il vetro e l'alluminio, la plastica e il neon gli appaiono realtà del tutto «naturali».
Col tempo, poi, egli apprenderà certamente a riconoscere la natura autentica: incontrerà i fiumi e le foreste, le rocce e le praterie, le montagne e gli oceani — la cui età si misura in miliardi di anni. Qualcuno anzi, nei casi più fortunati, può persino nascervi a stretto contatto. Ma intorno a lui, fra quel che fu prodotto dalla mano dell'uomo, di «antico» non vi è nulla. La stragrande maggioranza degli edifici, nel forsennato ritmo consumistico che «ricicla» ogni cosa a brevissimo termine, è di costruzione recente o recentissima.
Del resto, poco più di tre secoli fa, sull'intero territorio nordamericano al di sopra del Nuovo Messico spagnolo, non v'era una sola strada selciata o lastricata, né un solo edificio in pietra. Così, l'Americano ignora ogni diretta esperienza dell'antico. Al massimo, egli potrà incontrare qualcosa di «vecchio», nella sordida decrepitezza di alcuni slums delle megalopoli, o in qualche centro di provincia della costa orientale. Vecchio di qualche generazione, vecchio di cent'anni, forse — nel caso di qualche raro edificio — di duecento. Questo è il limite del «suo» passato.
Non a caso, nella scuola americana la storia antica non viene praticamente studiata. Se ne dà la colpa all'impronta tipicamente pragmatistica della cultura americana, che incentra sulla praticità dell'utile immediato ogni risorsa ed ogni energia. Sta però di fatto che il pragmatismo è genericamente anglosassone — e semmai inglese prima ancora che americano — e tuttavia la scuola inglese insegna la storia antica ben più seriamente.
La verità è che, ad un Americano, tutto ciò che è antico appare estraneo, incomprensibile e, in qualche modo, ostile.
Questo non significa che un Americano non possa sentire il fascino del passato, fino a soffrirne la mancanza in una sorta di provincialistico complesso. Ma si tratta in quel caso di un capriccio intellettuale, di un «prodotto» culturale consentito soltanto a chi abbia ricevuto una educazione di tipo umanistico e di livello superiore; e il «passato» che egli può amare è allora quello dei musei, dei trattati di storia, dei testi di letteratura. Fatte salve le eccezioni di alcuni grandi spiriti, nessun americano — anche se colto — potrà mai comprendere e amare il passato nella vita, il passato come persistente presenza, come memoria propria, come radice e linfa viventi nel suo presente.
In fondo, l'Americano è inconsapevolmente portato a nutrire diffidenza e disprezzo per il passato, per la semplicissima ragione che egli non possiede un passato.
Tra i molteplici fattori — genetici e ambientali — che concorrono alla formazione di quel profondo nucleo interiore che « fa» la psicologia di un uomo, fra l'Americano e l'Europeo v'è una seconda differenza capitale.
Un Europeo cresce e si plasma in un ambiente sostanzialmente omogeneo.
Se prescindiamo dalle eccezioni rappresentate da alcune metropoli o città portuali — soprattutto in Inghilterra, Francia e Olanda — dove vivono grosse comunità di negri, mulatti, nordafricani e asiatici, nella massima parte del continente l'Europeo vive in mezzo a gente simile a lui.
Quand'anche si tratti di gente che non parla la sua lingua o il suo dialetto — come nelle zone minerarie o industriali a forte immigrazione di lavoratori stranieri — sono uomini e donne che non differiscono da lui in modo sostanziale, né per colore della pelle e tratti somatici, né per indole e inclinazioni. Saranno più o meno biondi, più o meno bruni, più o meno compassati o passionali, ma non sono più diversi di quanto non lo siano, entro i confini della stessa nazione, un alsaziano da un marsigliese, un bavarese da un prussiano, un friulano da un romagnolo. Le grandi divisioni culturali, come quelle linguistiche e religiose, sono a confini abbastanza netti, e a vasti compartimenti stagni. In genere, un cattolico vive in un'area cattolica, un luterano in una regione luterana, un anglicano in un paese anglicano.
Non mancano, certo, zone e paesi dove culture diverse convivono frammiste o a stretto contatto, così da costituire inevitabile fonte di malessere, di intolleranza e di scontro: cattolici e protestanti in Irlanda del Nord, Fiamminghi e Valloni francofoni in Belgio, Croati cattolici e Serbi ortodossi in Jugoslavia. Si tratta però di situazioni tutto sommato marginali: nel complesso, la visione che un Europeo riceve della sua comunità e del suo mondo è quella di qualcosa di compatto e antropologicamente uniforme, a matrice genetica e civile fondamentalmente unitaria.
Le ragioni di disagio, malcontento e disadattamento — e quindi di tensione o ribellismo — sono di ordine individuale, o economico, o politico, non certo di ordine razziale o culturale.
I legami quindi che l'Europeo contrae e stabilisce con la sua comunità — quantomeno quelli più elementarmente esistenziali — sono di tipo naturale: egli accetta con facilità il suo vicino perché gli assomiglia, e ne accetta con naturalezza limiti e difetti perché assomigliano ai suoi; i primi compagni di gioco potrebbero essere suoi fratelli o cugini, e la ragazza che corteggerà non ha una psicologia tanto dissimile da quella di sua sorella.
L'integrazione fra le diverse componenti sociali avviene in genere in modo spontaneo — nella scuola, in chiesa, sulla piazza, al bar, in treno, allo stadio, nell'esercito — senza conoscere grossi steccati o resistenze, se non quelli posti dalla fisiologica dialettica della vita consociata presso qualsiasi popolo da che mondo è mondo. Le inclinazioni, gli interessi, le passioni, gli usi, le mode sono comuni, o largamente condivisi.
Questa sostanziale omogeneità, questa naturalezza di integrazione, questa comunanza di caratteri e di abitudini che fin dall'infanzia l'Europeo trova nella sua vita di relazione, e che generalmente esprimono le inclinazioni sue e delle generazioni che lo hanno preceduto — naturalmente simili — fanno sì che egli, più o meno consciamente, abbia della società una concezione «organica», quasi naturalistica. Potrà anche sentire estraneo e ostile lo Stato — e tanto più quanto più lo Stato, nel farsi complesso e astratto, si allontana da questa organicità sociobiologica — ma il legame con la sua comunità «naturale», famiglia, campanile, popolo, è fortemente avvertito e vissuto, non solo nelle campagne e in provincia, ma a tutt'oggi anche nella maggior parte delle città della vecchia Europa.
L'Americano, al contrario, nasce in una «società» eterogenea, ibrida e multiforme.
Se la maggioranza relativa degli abitanti degli USA è costituita ancor oggi da indoeuropei, essi non rappresentano il risultato di un evento migratorio unico e compatto, né di un flusso continuo di origine unitaria: gruppi diversi per lingua, ceppo, estrazione sociale e credo religioso giunsero ad ondate successive, in tempi e condizioni diverse, sbarcando in luoghi diversi e lontani fra loro. Prima puritani e quaccheri al Nord, anglicani e cattolici al Sud, provenienti in entrambi i casi dall'Inghilterra, ma divisi da mortale odio politico e religioso, nonché da radicali differenze civili e sociali; poi scozzesi e irlandesi, olandesi che si aggiungevano al piccolo nucleo originario dei fondatori di New York (1), francesi della Louisiana — che sarebbero in seguito stati incorporati nell'Unione, come gli spagnoli della Florida e dell'Ovest; quindi, a milioni, schiavi negri dall'Africa, e, a migliaia, rivoluzionari, massoni e «liberi pensatori» da tutt'Europa; più tardi, alla spicciolata, tedeschi, scandinavi, italiani, slavi balcanici e dell'Est, levantini, cinesi e giapponesi; infine ebrei, greci, ancora italiani, e, più recentemente, profughi d'oltrecortina, e milioni di meticci centroamericani e messicani di lingua spagnola — i cosiddetti «ispanici», anche se sangue spagnolo spesso non ne han per niente. A completare il quadro sul piano del puro folklore, van citati i pochi Pellerossa, superstiti del genocidio subito durante i secoli scorsi.
Fusione e integrazione di questi gruppi furono talvolta facili, altre volte difficili. In taluni casi vennero ottenute solo con la più spietata delle violenze, in altri non avvennero mai del tutto. Alcuni di questi gruppi persero presto tutte le connotazioni nazionali originarie, altri le conservano ancora oggi dopo quattro, cinque, sei generazioni.
Le differenze di razza, di religione, di cultura creano sacche e compartimenti stagni. Ma non si tratta mai, come in altri Paesi multirazziali — India, URSS, Sud Africa — di grosse sacche e grossi compartimenti geograficamente ben delimitati: i loro confini dividono non gli Stati, le contee o i distretti, ma le città e i quartieri, talvolta i marciapiedi opposti della stessa strada. Ed essi non convivono l'uno accanto all'altro, ma piuttosto si sovrappongono l'uno sull'altro, coincidendo in tutto o in parte con un diverso status culturale ed economico.
Dai banchi di scuola agli uffici di collocamento, dalle relazioni sessuali alle carriere pubbliche, dai contatti interpersonali alle stratificazioni sociali, tutto subisce la pesante influenza dell'appartenenza all'uno o all'altro gruppo; e i rapporti son difficili e tesi, carichi di una incontenibile potenzialità di ricorrente violenza.
Se la molteplicità delle Chiese, delle confessioni, delle sette, ha condotto gradualmente ad una fondamentale tolleranza religiosa, essa concorre però pesantemente a frammentare e polverizzare la cultura e la psicologia nazionale.
Non vi è una America, ve ne sono cento.
Il tanto vantato patriottismo degli Americani non è fondato — se non per il nucleo di ceppo yankee che costituisce ormai una minoranza — sul «senso nazionale», ma sull'attaccamento ad un elevato tenore di vita materiale, o, al massimo, sull'orgogliosa coscienza di appartenere al Paese più ricco e potente della Terra: l'attaccamento dell'azionista alla sua prospera S.p.a.
E le tanto vantate «libertà» americane — di cui in realtà si avvale soprattutto l'oligarchia finanziaria per prevaricare sulle classi inferiori e sullo stesso Stato — sono solo espressione della pratica necessità, oltre che di illudere le masse, di lasciare spazio all'individuo per diluire forza e peso dei gruppi — veri e propri corpi sociali separati — che tendono di per sé a crearsi spazi autonomi crescenti.
Il gioco politico di formazione del potere — per quanto pilotato dal vertice oligarchico che manipola la pubblica opinione attraverso il controllo dei mass-media — non può non tenere conto di questa frammentazione, che si esprime nei più svariati gruppi di pressione: la lobby ebraica, le masse negre, gli omosessuali organizzati (più del 10% dell'elettorato, secondo l'autorevolissimo politologo Theodore White), le femministe, gli italo-americani, gli irlandesi, gli ispanici, e così via. Ognuno di questi gruppi ha cultura, tradizioni, psicologia, passioni e interessi diversi e contrastanti, irriducibili a qualunque omogeneizzazione e a qualunque naturale solidarismo.
A sopperire allora alla mancanza di coesione razziale e culturale, per ovvie ragioni di sopravvivenza nazionale deve intervenire lo Stato ad imporla surrettiziamente e coercitivamente. Non solo quindi la proprietà, la sicurezza personale, il mondo del lavoro, il commercio, la morale, devono essere tutelati e regolati da leggi, ma persino il diritto di accesso ad un bar o ad un autobus, di iscrizione ad una scuola, di assunzione in un ufficio.
In qualsiasi Paese del mondo, fino a non molto tempo fa, la vita sociale era fondata assai più su tradizioni che su leggi scritte: l'educazione, il reciproco rispetto, i rapporti fra i sessi e fra le generazioni, la dignità personale ed il generale civismo dipendevano assai più dal costume che dal dettato legale. Anzi, in quegli ambiti della umana convivenza che più propriamente attengono al livello di civiltà di un popolo, si poteva affermare che era il costume che produceva la legge.
In America, avviene l'opposto.
E se in molti altri Paesi le cose stanno oggi prendendo la stessa piega, è principalmente a causa della dilagante influenza dell'«americanismo» su tanta parte del globo.
Ma questo sostituirsi del formalismo legale alla naturalezza del costume fin negli angoli più riposti della problematica esistenziale, questa continua necessità da parte della legge di intervenire ad imporre, mediare, negoziare, bilanciare, per garantire un minimo di coesione sociale in assenza di uno spontaneo solidarismo e di una naturale omogeneità antropologica fra i cittadini, crea reti e viluppi di norme, regole e disposizioni ditale complessità ed oscurità interpretativa, che il cittadino non ha altra scelta che quella di affidarsi a degli esperti.
Non è più una società per uomini, ma per legulei.
Leggi semplici e chiare, essenziali, promananti dal costume, danno al cittadino un senso «giuridico» dello Stato che ben si appaia al suo naturale senso organico della società; mentre leggi troppo numerose, sottili, complesse e astruse danno al cittadino un senso «causidico» del consorzio civile. La società appare allora un luogo dove tutto è conflittualità, contenzioso, negoziazione, mediazione, e composizione formalistica dei problemi.
In tale burocratizzazione della vita in ogni suo aspetto, l'Americano è condotto a concepire non solo lo Stato, ma la stessa società elementare, come qualcosa di artificioso, di astrattamente «razionalizzato», di freddamente contrattuale — senza legame alcuno con le profonde componenti affettive della sua natura di uomo.
* * *
Alla luce di queste radicali differenze — ben lontane del resto dall'essere le sole — trova chiara spiegazione il solco storico-morale che divide l'Europa dall'America: due civiltà, due visioni del mondo, due «stati dell'animo», non solo estranei e lontani, ma abissalmente antitetici.
Qui il senso delle radici, della continuità della vita individuale e sociale al di sopra delle singole generazioni; là l'esasperata percezione del presente, dell'«attuale», dell'up-to-date, come unica dimensione in cui calare i propri motivi esistenziali. Qui la concezione del domani come proiezione profonda del proprio passato, al quale si deve comunque qualcosa in termini morali ed in termini pratici; là, una smodata ansia di futuro immediato, senza obblighi morali verso eredità da difendere e da trasmettere. Qui un sedimentato senso estetico, un gusto fondamentalmente sobrio e luminoso, radicato nella classicità — più volte rivissuta e rinverdita — delle proprie origini civili; là una pacchianeria smargiassa, una totale mancanza di misura, un infantilismo estetico che si palesa nell'amore per la chiassosità cromatica e per l'arroganza dei suoni e dei volumi.
Qui la coscienza della individualità nazionale, della etnìa, e quindi della appartenenza ad una comunità, là un cosmopolitismo disancorato da ogni centralità sociale e da ogni vincolo interiore.
Qui la tenace sopravvivenza di aneliti al sacro e al trascendente, là, ormai consolidata, la «religione» del laicismo e del benessere materiale.
Qui persistenti e profonde riserve mentali nei confronti della speculazione finanziaria e dell'usura, là un culto fanatico per il successo economico, comunque raggiunto.
Qui un virile attaccamento alle proprie tradizioni (2), difese da una mal superabile diffidenza per tutto ciò che è estraneo e diverso; là una donnesca curiosità, una disponibilità ad accogliere, a fagocitare, a ridigerire qualunque apporto, qualunque eccentricità, qualunque «rifiuto» altrui.
Due mondi opposti dunque, due antinomici principi di civiltà.
E tuttavia, è largamente diffusa la convinzione che il Nuovo Mondo sia, in termini culturali, una «colonia» del Vecchio Mondo, che la matrice civile fondamentale sia comune, che l'America, in ultima analisi, sia «figlia» dell'Europa. Tale diffusa credenza nasce dal dato di fatto che tutti i valori, le idee religiose e i movimenti culturali che furono e sono alla base dell'american way of life — calvinistici, massonici, borghesi ed ebraici — vennero dall'Europa, portati da immigrati che dall'Europa provenivano; e poggia sull'opinione che l'«americanismo» rappresenti soltanto una fase di sviluppo ulteriore, favorito da ricchezza di spazi e di risorse, di queste idee e di questi movimenti nati tutti nel Vecchio Continente.
Si tratta, in verità, di un equivoco tutto da dissipare.
Infatti, è proprio ciò che apparentemente unisce i due mondi, quel che in realtà più a fondo li divide: poiché ciò che l'America ricevette dall'Europa negli ultimi tre secoli, facendolo proprio e fondandovi sopra la sua filosofia di vita (3), è esattamente tutto quello che, pur nato in Europa, l'Europa rifiutava e rigettava. Quello che doveva costituire l'anima stessa del «mondo americano», era proprio tutto ciò che la vecchia Europa «scartava», per una radicale inconciliabilità con la essenza profonda della sua anima civile e storica.
Dal settarismo puritano e quacchero allo spirito capitalistico e mercantilistico, dal «mondo dei Lumi» alla massoneria, dall'ottimismo razionalistico all'odio per il Trono e per l'Altare, dall'individualismo al cosmopolitismo, dalle prime banche internazionali ai fermenti rivoluzionari borghesi, si trattava di idee, tensioni e movimenti che erano sì nati in Europa, ma ai quali l'Europa poteva opporre — allora e ancora per secoli — forze ben più consistenti: i valori di una civiltà legata al sangue e alla terra, il vigore delle varie culture popolari, l'autorità morale delle Chiese, il tradizionalismo gerarchico, lo spirito ghibellino e la residua vitalità della nobiltà militare, l'istinto di conservazione del mondo contadino, il senso nazionale, gli antichi miti eroici, l'epopea cavalleresca, i monumenti letterari e artistici della Classicità, del Medioevo, del Rinascimento.
Non si può comprendere appieno la storia europea e mondiale del nostro secolo — con la apparizione dei movimenti fascisti e con gli interventi americani nei due grandi conflitti — se non ci si rende ben conto di questo: calvinismo, capitalismo bancario e industriale, razionalismo filosofico e illuminismo politico, Massoneria, Rivoluzione borghese, pur dopo grossi successi iniziali, furono sostanzialmente sconfitti — nel loro sogno di conquista totale dell'Europa — nel corso dei secoli XVII, XVIII e XIX. E se poterono continuare a coltivare questo loro sogno di vittoria finale, fu soltanto trasmigrando oltre Oceano.
Con l'anglicanesimo in Inghilterra, con le Chiese luterane in Germania e Scandinavia, con la Controriforma nei Paesi cattolici, chi vinceva era lo spirito nazionale e gerarchico, essenzialmente tradizionalista e quindi antiprogressista.
Con la Vandea, coi contadini tirolesi e veneti, coi Lazzaroni del Sud italiano, con le corporazioni germaniche, coi soldati delle armate austroungariche e prussiane, con la guerriglia della intera nazione spagnola, chi si batteva e vinceva era lo spirito popolare, fondamentalmente antiborghese assai più che antiaristocratico o antidinastico.
Coi movimenti romantici, con le filosofie irrazionalistiche, con l'epica letteraria e musicale, chi vinceva era una concezione spiritualista, sostanzialmente antiegualitaria, eroica e tiranneggiante: un anelito alla sacralità, contro ogni laicismo.
In Europa, l'età di Voltaire moriva, sorgeva il sole di Wagner e di Nietzsche.
Potrebbe mai, l'America, avere un Wagner o un Nietzsche? In verità, non ebbe neppure un Pound, giacché Pound le voltò le spalle per cercare in Europa la sua Patria.
* * *
Lo spirito di Voltaire però — con la sua carica di progressismo utopico, di razionalismo materializzante e di laicismo dissacratore — aveva traversato l'Atlantico.
Così tutte le forze che lo spirito di Voltaire ispirava e riassumeva, battute e disperse, o anche solo temporaneamente bloccate nella loro marcia verso il cuore delle società europee, trovarono uno sbocco naturale in Nordamerica, dove il vuoto d'ogni terreno storico-ereditario — e quindi d'ogni forza ostacolante — avrebbe loro consentito l'esplosione più libera e l'affermazione più totale. Accadde così che si andò rapidamente formando una società tutta fondata su valori e forze antitetici rispetto a quelli ancor dominanti o emergenti in Europa. Una società in cui il potere politico e culturale fu fin dall'inizio nelle mani dei maggiori detentori di capitali, e, in via immediatamente subordinata, di una classe borghese media — commercianti, industriali, professionisti, armatori, mercanti di schiavi, giuristi, giornalisti — di formazione calvinista, impastata di spirito illuministico, e fortemente infiltrata dalla massoneria.
Se qualcosa di ancora veramente «europeo» poteva germogliare in Nordamerica, era solo nelle colonie del Sud, dove l'impronta religiosa era in buona parte anglicana e cattolica, e dove l'elemento umano era di estrazione sociale assai diversa da quella dei coloni del Nord: militari, funzionari della Corona, piccoli nobili e gentiluomini di provincia, artigiani e, soprattutto, agricoltori. Per questi uomini, come per il contadino europeo ancor oggi, il legame con la propria terra andava oltre il mero significato economico, per attingere una dimensione esistenziale.
Era forse questa la differenza più radicale fra i coloni del Sud e quelli del Nord, dove l'agricoltore non era affatto un «contadino», ma un borghese (4) per il quale la terra era solo un «investimento» occasionale, un puro e semplice business senza implicazioni affettive.
Oggi ancora, mentre si parla comunemente di contadini francesi, tedeschi, olandesi o italiani, nessuno si sognerebbe di chiamare «contadini» gli agricoltori americani: essi sono infatti semplicemente uomini d'affari, o tecnici, o — banalmente — «operatori agricoli». Anche l'uomo della strada, digiuno d'ogni cultura storica o sociologica, sente che il termine «contadino» — con le sue profonde implicazioni di ordine umano, morale e civile — sarebbe del tutto inappropriato per l'Americano che vive sulla terra e della terra.
Le conseguenze storiche di queste elementari connotazioni culturali della società americana furono di portata incalcolabile. Non v'è alcun bisogno di scomodare Weber o Gramsci per cogliere tutta la preminente importanza dei fattori culturali e antropologici su quelli socioeconomici nel divenire di una società o di una civiltà: fu questa differenza culturale — che rendeva inconciliabili lo spirito «sudista» e quello «nordista» — a condannare gli Stati del Sud. Il fenomeno dello schiavismo — che del resto era stato alimentato per generazioni proprio dai mercanti di schiavi del Nord — e la stessa insofferenza del Sud nei confronti dello sfruttamento economico da parte degli stati industriali nordisti, non furono che pretesti o concause secondarie.
In verità, gli Stati del Sud non erano America: è questa, l'unica giustificazione «proporzionata» allo spaventoso macello rappresentato dalla Guerra di Secessione — che la storiografia americana chiama, più propriamente, «Civil War»: guerra civile.
Nella logica storica del conflitto secolare fra le due culture — il mondo vincente nella Vecchia Europa, e quello trasmigrato nel Nuovo Continente — il Nordamerica può essere visto come la base di riorganizzazione e di rivincita di tutte le forze ideologiche e politiche sconfitte in Europa.
In tale ottica, gli Stati del Sud dovevano essere spazzati via, come operazione preliminare alla «riconquista» del continente europeo: essi erano troppo tradizionali, troppo classicheggianti, troppo «europe».
Le ostilità contro il Vecchio Continente, del resto, si erano già aperte da tempo, sia in termini ideologici che militari, con la Rivoluzione antiinglese e con la Dichiarazione di Indipendenza: l'inconciliabilità dei due mondi, ed il rancoroso revanscismo dei proscritti e degli esuli, le rendevano inevitabili.
Esse continuarono con la «dottrina di Monroe», con la guerra contro la Spagna, con l'intervento americano nel primo e nel secondo conflitto mondiale; con la liquidazione — voluta dagli Stati Uniti — degli imperi coloniali inglese, francese, olandese, italiano, belga e portoghese; con la creazione — voluta dagli Stati Uniti — di una smisurata potenza russa a minaccia dell'Europa; con lo smembramento della Germania e la spartizione dell'intero continente, con la imposizione a tutti gli Stati dell'Ovest europeo di regimi a democrazia partitica, con la progressiva colonizzazione culturale, politica ed economica del Vecchio Mondo. E non è certamente ancora finita.
A questo punto, due considerazioni si impongono.
Prima: quanto più palese e scoperto si delineava l'espansionismo imperialistico americano — col genocidio dei Pellerossa, con la guerra contro il Messico, con lo sbarco a Cuba, con l'occupazione di Portorico e di Guam, con la conquista delle Marianne e delle Filippine, con l'annessione delle Hawaii e delle Samoa, col protettorato su Panama strappata alla Colombia — e tanto più altisonanti, ampollose e martellanti si facevano le professioni di democrazia e di anticolonialismo. E estremamente istruttivo — e anche divertente — seguire l'andamento parallelo fra le impennate delle due curve: quella delle azioni aggressive che costellano la linea di espansione americana, e quella della virulenza verbale e scritta delle campagne di propaganda umanitarista e progressista.
Seconda: tutti i singoli atti di forza — conflitti dichiarati e non, sbarchi di truppe, colpi di stato e sommosse fomentati da propri agenti, occupazioni e «protezioni» militari, con tutti gli intrighi e le macchinazioni atti a provocarli e prepararli propagandisticamente — non furono mai voluti e scatenati, come sarebbe naturale pensare, da ambienti ultranazionalisti e conservatori, ma sempre da uomini e movimenti noti per il loro zelo democratico ed il loro fanatico liberal-progressismo: Lincoln volle la guerra contro il Sud, Theodore Roosevelt lo sbarco a Cuba e l'occupazione delle Filippine e di Guam, Woodrow Wilson l'intervento nella Prima Guerra Mondiale, Franklin Delano Roosevelt nella Seconda, Harry Truman il lancio della prima atomica, John Kennedy la guerra del Vietnam.
Quello che a prima vista può apparire un paradosso, risulta invece, ad una attenta indagine storica, una regola ben precisa: ogni atto di aggressione, di espansione, di intromissione in affari altrui, di colonizzazione militare o economica, è sempre coperto dalla cortina fumogena e dalla formula mimetizzante del progressismo, dell'umanitarismo, della democrazia.
I plutocrati che governano gli U.S.A. — vero e proprio potere dinastico (5) occulto, operante dietro le quinte delle Presidenze e delle Amministrazioni ufficiali — hanno scoperto di poter curare assai meglio i propri affari travestendosi da idealisti e da filantropi. Mercanti di schiavi, predicavano l'abolizionismo; mercanti di cannoni, predicavano il pacifismo; mercanti di inquinamento e di missili, predicano oggi l'ecologismo e l'umanitarismo. La costruzione del Palazzo della Pace all'Aja, sovvenzionata all'inizio del secolo da Andrew Carnegie, magnate americano delle corazzature per navi da guerra, resta un monumento emblematico di questa doppiezza tipica dell'americanismo.
Una doppiezza sofisticata, che sa rinnovare le sue maschere, quando l'abuso le rende logore: oggi, la maschera di moda è quella dei «diritti umani», in nome dei quali il Potere americano — coi suoi cento tentacoli finanziari, ideologici, diplomatici e militari — si arroga il diritto di immischiarsi negli affari interni di qualsiasi Paese sul quale abbia appuntato le proprie mire.
Attraverso il Fondo Monetario Internazionale che il sistema controlla, attraverso le organizzazioni dell'ONU che sono sue emanazioni, attraverso sigle di comodo come Amnesty International e World Council of Churches (6), attraverso servizi segreti e forze militari delle alleanze che capeggia, questo Potere manda in bancarotta Paesi che aveva gonfiato di crediti perché fossero ricattabili, fa cadere governi che tentano un sogno di indipendenza, scatena rivoluzioni di palazzo e sommosse di piazza, provoca e accende conflitti, sovvenziona guerriglie: il tutto, dietro una sapiente e orchestrata campagna contro una qualche «violazione dei diritti umani» — e, naturalmente, all'ombra degli immortali principi democratici e progressisti della «ideologia americana».
* * *
Quasi 3300 anni fa — nel 1296 A.C. — a Kadesh sul fiume Oronte, in Siria, venne combattuta la prima grande battaglia storicamente ricostruibile nella sua dinamica e nelle sue fasi tattiche: da una parte l'esercito ittita guidato dal re Muwatallis, dall'altra l'armata egizia sotto il comando del Faraone in persona, il grande Ramsete II.
Nonostante le spudorate falsificazioni della storiografia ufficiale egizia, è oggi evidente che vinsero gli Ittiti: a stento, maledicendo al cospetto degli dèi la pusillanimità dei suoi ufficiali, il Faraone riuscì a scamparne illeso. E dovette sottoscrivere un trattato di pace — sorprendente per la «modernità» dei fini e dei contenuti — che in sostanza riconosceva la realtà della potenza del Regno ittita, il primo Stato organico edificato da un popolo di schiatta indoeuropea.
Era l'esordio, sul grande palcoscenico della Storia, dei popoli indoeuropei.
Ma era altresì, e allo stesso tempo, il primo atto storicamente noto dell'eterno conflitto fra l'Europa e l'Oriente, in quel tempo rappresentato dall'Egitto, dalle potenze mesopotamiche, e dal popolo ebraico.
L'Oriente era allora — etnicamente — in prevalenza semita e camita; sarebbe poi stato ariano con Hurriti e Kassiti, con Medi e Persiani, e di nuovo semita con Cartagine e con gli Arabi; avrebbe poi cavalcato con le orde unne e mongole, corso il Mediterraneo con le galere barbaresche, e penetrato a fondo i Balcani coi Turchi Ottomani, per tornare più recentemente a farsi ariano con gli slavi di Russia.
Ma l'alternarsi delle schiatte e degli imperi contro i confini orientali d'Europa non modificò mai il livello di tensione, né lo stato di sostanziale inconciliabilità dei due mondi.
Attraverso le battaglie di Maratona, del Granico, di Canne e di Zama, di Azio, dei Campi Catalaunici, di Poitiers, di Lepanto, di Vienna, di Poltava, della Beresina, dei Laghi Masuri, la battaglia di Kadesh del 1296 a.C. è legata a quella di Stalingrado dal filo rosso di una inesorabile continuità storica.
Gli Ittiti contro Egitto e Babilonia, i Filistei in Palestina, gli Spartani alle Termopili, Scipione a Zama, i Paladini franchi sui Pirenei, Pisa, Genova e Venezia per tutte le distanze del Mediterraneo, i Crociati in Terra Santa, i nobili polacchi contro i Mongoli, i Cavalieri Teutonici in Prussia e Livonia, gli Ungheresi e i Croati nei Balcani, Napoleone e Hitler in Russia, erano l'Europa; e i loro nemici erano l'Oriente: orde, popoli, imperi, civiltà diversi e ostili che premevano, incalzavano, si avventavano da Est e da Sud sull'Europa, si ritraevano sconfitti, tornavano a premere.
Più e più volte — coi Persiani, con Annibale, con gli Arabi, coi figli di Gengis Khan, coi Turchi — l'Europa fu sul punto d'essere sommersa, stravolta, cancellata. Ogni volta si batté, reagì, attaccò, e riuscì a sopravvivere come centro motore della Storia, e cuore del mondo.
Ma allora il resto del mondo era tutto ad Oriente, poiché il «mondo» finiva sulle coste dell'Atlantico, fra l'estrema Thule e le Colonne d'Ercole; e l'Europa era, naturalmente, «l'Occidente».
Da due secoli però le cose sono cambiate; al di là dell'Atlantico, una nuova potenza è sorta, che ha slargato il mondo e duplicato il fronte. E da allora la minaccia per l'Europa non viene più solo da Oriente. La battaglia di Saratoga fra i rivoluzionari americani e le truppe d'Inghilterra, la firma della resa sudista ad Appomattox, il blocco della flotta spagnola dentro il porto di Santiago a Cuba, lo sbarco in Normandia nella Seconda Guerra Mondiale, sono i nodi più palesi di questo secondo filo rosso che lega fra loro la Dichiarazione d' Indipendenza del 1776 e l'accamparsi delle truppe di occupazione americane in Europa in questo dopoguerra: sono gli emblematici momenti apicali di questa recente e interminata lotta che oppone l'Europa al nuovo Occidente, e nella quale l'Europa, stretta contemporaneamente da Ovest e da Est, ha conosciuto finora solo sconfitte.
Avversata dall'Inghilterra — fino a ieri legata ad un Impero il cui baricentro era extraeuropeo, e da sempre stretta per affinità di sangue e di lingua all'Occidente — tradita dalla classe dirigente francese — ferma ancora in questo secolo all'Europa di Voltaire — privata dell'apporto dei Paesi scandinavi — che sembrano ormai usciti dalla Storia — l'Europa è stata vinta, frantumata, lottizzata; e vive oggi la più concreta minaccia di annientamento di tutta la sua storia millenaria.
Per lunghi millenni — certamente molti millenni prima' d'ogni testimonianza storica nota — i popoli europei seppero reggere il confronto con l'Oriente. Ma il nemico d'Occidente è più forte, più ricco, più perfido, più astuto.
L'Occidente e l'Oriente possono anche esser nemici, temersi e odiarsi. Ma finché l'Europa sarà viva, essi, per sentirsi al sicuro contro l'Europa, avranno bisogno l'uno dell'altro.
Finché l'Europa sopravvive, e cova in sé un minimo di potenzialità di ripresa, essi sanno di aver bisogno di una sotterranea intesa e di una strategia comune.
Fra i due, tuttavia, è l'Occidente che disegna la strategia, e che comanda la danza. È l'Occidente che, pur potendolo annientare — dopo Hiroshima, anche con le sole minacce — ha voluto invece che l'Oriente vivesse e crescesse; che, pur potendolo bloccare — nel ‘45, con la collaborazione offerta dagli stessi vinti — ha voluto invece che esso avanzasse sino al cuore dell'Europa: per giustificare così la «necessità» della propria presenza nell'altra metà del Continente, e, soprattutto, per non rischiare mai di trovarsi da solo ad affrontare un'Europa ancora capace di rinascita.
* * *
L'equivoco storico di un «Occidente» che accomuna l'America all'Europa, di «un Atlantico che unisce anziché dividere», è il marchingegno-chiave di tutto il processo di colonizzazione dell'Europa da parte degli Stati Uniti: la colonizzazione economica giustificata dalla dipendenza militare, la dipendenza militare dalla subordinazione politica, la subordinazione politica dal condizionamento culturale, il condizionamento culturale dalla soggezione psicologica.
Di fronte alla immane minaccia dell'Oriente sovietico, appesantita nel primo dopoguerra dalla mitizzata crescita della potenza cinese, era facile indurre gli Europei a credere in una comunanza di destini con l'Occidente.
Di fronte al più possente esercito del mondo accampato armi al piede nel cuore del continente, era facile indurre gli Europei a cercar rifugio nelle braccia degli Stati Uniti, e ad invocarne la presenza militare.
Di fronte alle professioni di amicizia dell'America, che dichiarava di essere scesa in campo soltanto per «liberare» l'Europa dal fascismo, era facile indurre gli Europei a credere in una restituzione piena della propria integrità, libertà e potenza, e a fantasticare di una «fratellanza» occidentale.
In verità, se di fratellanza dovesse trattarsi, i popoli dell'Est europeo ci sono — in termini biologici — assai più fratelli di quanto non siano, nel loro insieme, le varie genti che abitano oggi gli U.S.A.; e più ancora essi ci sono affini e vicini dal punto di vista culturale. Sotto la crosta superficiale della ideologia di regime, mai penetrata al di là della ufficialità e del conformismo di convenienza, vivono intatte le forze di una cultura, di una tradizione, di un costume comuni a tutti i popoli europei.
Nessun europeo, di fronte ad un portoricano di New York, ad un negro di Washington, ad un cinese di S. Francisco, ad un ebreo del New Jersey, ad uno yankee di Boston, può sentirli più affini o più vicini di un polacco, di un magiaro o di un rumeno; e neppure di un ucraino o di un russo bianco.
Nessun Sahara, nessun Himalaja, nessun Pacifico ci divide, ma solo una «cortina di ferro» che fu sì eretta da braccia sovietiche, ma su progetto occidentale.
Una cortina contro la quale più e più volte si consumò e si riaccese — nel sogno di un ritorno alla casa europea — il sacrificio eroico dei fratelli di Budapest e di Berlino, di Danzica e di Praga: vittime della turpe ipocrisia dell'Occidente, assai più e assai prima che della brutalità dell'Oriente.
* * *
Ma v'è un altro equivoco — che gioca come sottile strumento di trasformazione dell'Europa in provincia culturale americana — contro il quale è necessario gettare la luce chiarificatrice dell'analisi e della riflessione.
Dal primo dopoguerra ad oggi, attraverso processi di gradualità inavvertibile alternati ogni tanto a bruschi scossoni, tutte le società europee hanno conosciuto radicali trasformazioni di costume.
Da qualunque parte le si guardi, non v'è chi possa negarne gli aspetti degenerativi: la crisi della famiglia, le nevrosi di massa, l'immoralità dilagante, la diffusa insicurezza, la solitudine dei vecchi, lo sbandamento dei giovani, la crescita della criminalità, la nausea della pornografia, lo sconcio della prostituzione selvaggia, la piaga della corruzione, il flagello della droga.
Lo scempio nel campo dei costumi si appaia a quello nel campo del gusto e della cultura — dell'abbigliamento, del linguaggio, della letteratura, dell'architettura, dello spettacolo, della musica, delle arti figurative.
In sostanza, un vero e proprio collasso di civiltà.
Ora — a parte pochi degenerati — nessuno ha il coraggio di dichiararsi fautore di tutto questo. Anzi, quasi tutti formalmente lo deplorano.
E tuttavia, quasi tutti sostanzialmente lo accettano, o, quantomeno, lo subiscono. Perché?
È qui che entra in gioco l'equivoco.
Si accetta di subire tutto questo semplicemente perché si è convinti che si tratti dell'ineluttabile «portato» della industrializzazione, dell'avanzamento tecnologico, del crescente benessere. Lo si ritiene cioè l'inevitabile prezzo da pagare al prodigioso sviluppo scientifico ed economico di questo secolo, al quale nessuno, neppure volendolo, potrebbe rinunciare.
Ma questa idea è falsa.
Prima dell'ultimo conflitto mondiale, Paesi europei come la Germania, la Francia, la Cecoslovacchia, la Svizzera, la stessa Italia, erano all'avanguardia nella scienza, nella tecnica, nella organizzazione sociale: dalla chimica alle comunicazioni radio, dalla architettura alla legislazione assistenziale, dalle tecniche di propaganda politica alle costruzioni aeronavali, dagli sport di massa alla ricerca universitaria, l'Europa non aveva alcunché da invidiare all'America.
E tuttavia, mentre in America il costume era già da tempo contrassegnato dall'edonismo, dal lassismo sessuale, dal gangsterismo, dalla corruzione, dalla promiscuità, dalla tendenza alla massificazione, il costume europeo restava radicato nelle tradizioni: solida la famiglia, coltivata la cortesia, gelosamente protetta l'innocenza infantile, idealizzata la figura materna, rispettata quella paterna, venerata la saggezza dei vecchi, mitizzato il coraggio dei giovani. La pornografia era confinata nella clandestinità, la prostituzione veniva controllata, la criminalità era bassa, l'omosessualità disprezzata, la droga del tutto sconosciuta.
Per quanto il processo di industrializzazione fosse rapido, il fenomeno dell'inurbamento era graduale e contenuto, l'attaccamento alla terra si manteneva profondo, e le norme tradizionali di comportamento non venivano scosse; mentre i «modelli» sociali — dell'uomo, della donna, del contadino, dell'artigiano, dell'operaio, dell'artista, del borghese, del soldato — erano così netti, definiti e caratterizzanti da rendere impossibile ogni rischio di massificazione. Del resto anche oggi — come abbiamo altra volta rilevato — il Giappone, vero e proprio modello di sofisticazione tecnologica e di efficientismo produttivo, mantiene costumi fondati sulle antiche radici delle proprie tradizioni, pur avendo raggiunto un alto livello di diffuso benessere.
Che il benessere sia pericolosa fonte di degenerescenza civile è certamente vero, ma solo in quanto esso è oggi inteso come mito ingannevole, fuorviante, e immorale; ingannevole, perché dato per scontatamente irreversibile, mentre in realtà irreversibile non è e non può essere; fuorviante, perché posto come fine esistenziale unico e massimo, a danno di scopi e traguardi umanamente più alti e nobilitanti; immorale, perché orientato allo sfruttamento dissennato di non inesauribili risorse ambientali, il cui depauperamento verrà duramente pagato dalle prossime generazioni.
Non è invece vero che lo «sviluppo» porti necessariamente e spontaneamente con sé rivoluzioni di costume, e che il benessere in sé — se rettamente inteso — non sia compatibile con un ordine morale di tipo tradizionale.
La verità è che, dietro all'equivoco della interdipendenza «sviluppo-permissivismo», o «benessere-lassismo», viene contrabbandata la progressiva americanizzazione del costume europeo.
Non si tratta di generico e ineluttabile «modernismo», bensì di specifico e pianificato «americanismo».
* * *
Chi pensasse che il problema del costume è questione di breve momento, secondaria rispetto al problema più propriamente — più palesemente — politico, commetterebbe un errore capitale.
Un popolo non può avere mai vera libertà e vera indipendenza, se non ha una propria identità. E l'anima della identità nazionale di un popolo sta — insieme alle sue connotazioni etniche — nella specificità del suo costume.
Le grandi trasformazioni culturali imposte da un vertice di potere sono sempre destinate all'insuccesso: ne sono esempi, per limitarci alla storia contemporanea, i « forzati » tentativi di occidentalizzazione dell'Iran da parte dello Scià e quelli, brutali, di snaturamento dell'anima afghana da parte del regime di Karmal, di sradicamento del confucianesimo in Cina da parte delle Guardie Rosse di Mao, di ateizzazione delle popolazioni dell'Est europeo, dei Paesi baltici, dell'Ucraina, della stessa Russia.
Lo snaturamento di una civiltà è invece più facile quando passa attraverso le vie sottili della piccola gradualità — l'abbigliamento, il linguaggio, le mode musicali, l'architettura, i ruoli sessuali e generazionali — lasciando formalmente intatta la facciata dell'edificio sociale.
È da questo mortale tipo di degenerazione che bisogna guardarsi, tenendo ben presente che assai prima della volontà di indipendenza politica ed economica viene la volontà di gelosa custodia del nocciolo profondo ed essenziale della propria civiltà, che sta tutto nel costume.
Poggiando sul confucianesimo, la Cina si garantì oltre duemila anni di civile convivenza, di stabilità politica, di potenza e di libertà; e riscoprendo il confucianesimo, si appresta oggi ad una grande rinascita. Ma Confucio non dettò leggi, né schemi di strutture politiche, né riforme sociali o burocratiche: Confucio si limitò a definire le regole di comportamento individuale nei rapporti fra i sessi e le generazioni, dando veste letteraria o filosofica alla saggezza popolare.
Non a caso, il primo atto della strategia di «americanizzazione» del nostro costume fu l'abbandono-da parte della cultura ufficiale europea caudatariamente asservita a quella occidentale-di ogni citazione, di ogni richiamo, di ogni memoria dei nostri antichi proverbi popolari.
La saggezza popolare, i valori, le tradizioni, le memorie; la lingua parlata e scritta, le conquiste faticate e sublimi: le antiche strade consolari, i ponti, i canali, le viottole ombreggiate di lanici o di cipressi, i muretti a secco a sostenere le colture lungo i fianchi ripidi dei colli, dove da millenni germogliano l'orzo e la segale, e si radicano la vite e l'ulivo; i monumenti insigni, i castelli severi, le superbe cattedrali e le torri; ma anche i campi, i mercati, le botteghe artigiane; la cultura delle cattedre e le canzoni delle osterie, le officine e i musei, i giardini e gli orti; un mondo dove gli uomini sono uomini, le donne donne, i vecchi son vecchi e i ragazzi ragazzi, e dove i forti son forti e gli imbecilli, imbecilli. Ecco, tutto questo è la «nostra» civiltà, un patrimonio ineguagliabile di grandezza, di vitalità, di intelligenza che ci avvicina agli dei.
Ed è questa civiltà la «Patria» europea che uomini come noi non accettano di veder morire, il patrimonio essenziale che gli Europei hanno il dovere di trasmettere ai figli intatto, proteggendolo da quella mostruosa macchina di alienazione che è il costume della «civilizzazione» occidentale.
* * *
Fra l'Europa e l'Occidente la storia ha scavato un profondo fossato, che potrebbe essere colmato soltanto dal cadavere della civiltà europea. Se i popoli del Vecchio Mondo possiedono ancora sufficiente vitalità biologica, e istinto di conservazione civile, l'Europa può sopravvivere e tornare padrona del suo destino, bene in piedi sull'orlo del fossato.
Ma una cosa deve restare ben ferma e chiara: è sul terreno del costume-per un costume tradizionale europeo contro quello occidentale-che si combatte oggi la battaglia preliminare per la sopravvivenza e l'indipendenza d'Europa.
Dal costume alla cultura, dalla cultura alla consapevolezza ideologica, dalla consapevolezza ideologica alla volontà politica: è una inesorabile catena logica, in cui ognuno degli anelli presuppone il precedente.


Sergio Gozzoli

(1) La città si chiamava, in origine, Nuova Amsterdam.
(2) Ci si riferisce, naturalmente, al mondo europeo visto nell'insieme degli ultimi duecento anni: nei recenti decenni, infatti, l'influenza negativa dell'americanismo comincia anche qui a corrodere il senso della tradizione.
(3) «La nascita degli Stati Uniti d'America» di Alfredo Bonatesta - in l'Uomo libero n. 12.
(4) PALMER R.R., Storia del Mondo Moderno, della Cambridge University Press, vol. VIII, pag. 552; cfr. anche Alfredo Bonatesta, art. cit.
(5) Si tratta di un numero ristretto di famiglie-sempre le stesse da molte generazioni-che usano spesso, come un tempo fra case regnanti, stringere e consolidare i vincoli fra loro sposando i propri membri all'interno della propria «casta».
(6) Associazione di varie Chiese protestanti, che si occupa fra l'altro della raccolta di fondi a favore di gruppi rivoluzionari e organizzazioni di guerriglia nel Terzo Mondo. E strettamente collegata a Fondazioni sostenute e controllate dall'alta finanza americana.

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