sabato 14 agosto 2010

La Germania e il popolo tedesco eterni obiettivi dei nemici dell’Europa.


Grazie alla nostra affezionata lettrice – e sostenitrice – Cinzia Minucci abbiamo ricevuto quest’articolo tratto da L’Uomo libero a firma di Sergio Gozzoli che proponiamo per intero.
Buona lettura.
La Germania e il popolo tedesco eterni obiettivi dei nemici dell’Europa.
Un testo rivelatore: GERMANY MUST PERISH! di Theodore Kaufman – Alle radici storiche della menzogna – La dannazione per l’Olocausto come vantaggioso surrogato della castrazione.
Chi abbia vissuto in età consapevole la Seconda Guerra Mondiale, e ne abbia poi seguito con un minimo di interesse le polemiche interpretative, sa che l’opinione ufficiale dei vincitori – e quindi dell’odierna cultura politically correct – è quella che il conflitto sia stato reso necessario dalla follia irrazionale di Hitler e del Partito nazionalsocialista che lo sostenne in Germania, insieme a tutti i movimenti fascisti o parafascistì del mondo che si erano schierati con loro.
A somma riprova di questa follia sta la perfidia dell’antisemitismo, concentrata nell’irrevocabile ed eterna accusa dell’Olocausto: sei milioni di ebrei freddamente massacrati in una crudele e pianificata volontà di genocidio.
Le conclusioni sull’Olocausto sono ormai considerate irreversibili: tutto, nella storia, può essere rivisitato e discusso, eccetto questa assiomatica verità. L’informazione ne riparla, in un clima di celebrazione, quasi ogni giorno. E in molti Paesi del mondo anche un minimo tentativo di riconsiderare le cifre, le condizioni e la tecnica del presunto smisurato eccidio viene punito come un gravissimo reato penale.
Alcune settimane fa, durante uno dei grandi dibattiti televisivi sul recente conflitto fra NATO e Serbia, una giovane signora – non smentita e non contestata da nessuno – affermò che la Seconda Guerra Mondiale era stato uno scontro fra Germania ed Ebrei.
E questa oggi, in buona fede, la convinzione di una gran parte del pubblico mondiale.
Ma nel 1941, a guerra ormai avanzata, e con gli USA ancora neutrali, negli Stati Uniti d’America venne edito un libro. Il suo titolo è GERMANY MUST PERISH!, LA GERMANIA DEVE MORIRE! – o perire, o andare in rovina, o essere distrutta: il verbo to perish ha in inglese una somma di significati analoghi a quelli dell’italiano perire, ma più penetranti.
[ i giornali americani presentarono il libro di Kaufman con risalto ed entusiasmo]
Questa è, letteralmente tradotta, la nota introduttiva al volume: «Delle migliaia di libri antinazisti pubblicati negli ultimi pochi anni, LA GERMANIA DEVE MORIRE! di Theodore N. Kaufman è l’unico volume che abbia sparso paura e terrore nel cuore e nell’animo dei Nazi. Questo libro irritò tanto il Dr. Goebbels che egli lo denunciò sulla prima pagina di ogni giornale in Germania e sull’intera rete-radio tedesca! E il giornale personale di Adolf Hitler, in un frenetico e pazzesco commento sul libro, dichiarò che non Kaufman, ma il Presidente Roosevelt era colui che aveva realmente scritto LA GERMANIA DEVE MORIRE!».
A parte però questa prima nota, ve n’è una seconda indirizzata al lettore: «GERMANY MUST PERISH! presenta un piano per la struttura di una pace permanente e durevole fra nazioni civili. Esso basa la sua tesi sulla definitiva sconfitta della Germania da parte dell’Impero Britannico e dei suoi Alleati, senza l’aiuto degli Stati Uniti.
Dovessero comunque le circostanze orientare il pubblico americano a rovesciare il suo voto a favore della guerra come misura di autodifesa (e la fervente preghiera dell’Autore è che ciò non debba mai accadere) bisogna che allora diventi fondamentale che le vite dei nostri concittadini non siano sacrificate invano come quelle dei loro padri una generazione fa.
Se i nostri soldati dovranno procedere per uccidere o morire in battaglia, che almeno essi ricevano non uno Slogan, ma una Solenne Proposta ed una Sacra Promessa.
Che questa proposta sia una Durevole Pace. (1)
E, questa volta, quella promessa va mantenuta!»
Il titolo del primo capitolo e «About This Book» – Su questo libro. I suoi argomenti – sia esso stato scritto da Kaufman col patrocinio di Roosevelt, o dallo stesso Roosevelt sotto pseudonimo – sono stupefacenti: «La guerra odierna non è una guerra contro Adolf Hitler. Né è una guerra contro i Nazi (Today’s war is not a war against Adolf Hitler. Nor is il a war against the Nazis.) E’ una guerra di popoli contro popoli, di popoli civili, ispirati dalla Luce, contro barbari incivili che hanno a cuore l’Oscurità. …E una battaglia fra la nazione tedesca e l’umanità.
Hitler non è da accusare per questa guerra tedesca più dì quanto lo fosse il Kaiser per la precedente. Né Bismarck prima del Kaiser.
Questi uomini non originarono né intrapresero queste guerre della Germania verso il mondo. Essi erano semplicemente degli specchi che riflettevano la secolare bramosia della nazione tedesca per la conquista e il massacro di massa (far conquest and mass murder).
Questa guerra è stata intrapresa dal popolo tedesco. È lui il responsabile. Ed è lui che deve pagare per la guerra! Del resto, vi sarà sempre una guerra tedesca contro il mondo. E con questa specie di spada sospesa sul capo delle nazioni civili del mondo, qualunque sia la vastità delle loro speranze e la combattività dei loro sforzi, essi non avranno mai successo nel trovare quella determinante e solida fondazione di pace permanente che essi dovranno stabilire se vorranno mai pensare di iniziare a costruire un mondo migliore.
Giacché non basterà che non vi siano in atto guerre «tedesche»: non deve rimanere neppure la più pallida possibilità che una di esse possa ripetersi. Un alt definitivo all’aggressione tedesca — non una occasionale cessazione – deve essere l’obbiettivo dell’attuale battaglia. Questo non significa un dominio armato sulla Germania, né una pace fondata su aggiustamenti politici e territoriali, e neppure una speranza basata su di una nazione sconfitta e pentita. Tali accorgimenti non sono garanzie del tutto conclusive per l’abbandono di ulteriori aggressioni tedesche.
Questa volta la Germania ha portato una guerra totale (2) contro il mondo. Di conseguenza, essa deve essere pronta a pagare una PENA TOTALE.
E v’è una, e una sola, di queste Penalità Totali.
La Germania deve morire per sempre.
Ma in assoluta realtà di fatto — non per fantasia.»
A questo punto il testo passa a considerazioni di ordine storico che, quanto meno nelle pretese dell’Autore, dovrebbero rappresentare una documentazione indiscutibile della eterna, indominabile, naturale vocazione tedesca al dominio del mondo. Dopo una premessa che asserisce la totale coincidenza in Germania della bramosia di dominio mondiale fra capi di vertice e passionalità popolare, coincidenza senza la quale i capi non sarebbero espressione intera e globale del proprio popolo, il libro comincia ad esaminare la storia del Germanesimo e del Pangermanesimo.
Il Pangermanesimo – che prese questo nome dopo avere unificato la vasta serie dei minori movimenti germanistici – è semplicemente l’idea di unificare, culturalmente e politicamente, tutti i popoli germanici entro gli stessi confini sulle basi di una comune tradizione di lingua e di costume. Ma nel testo questo corretto significato è sistematicamente dimenticato e distorto, ed il Pangermanesimo viene mendacemente presentato come un mito nazionale tedesco di dominio del globo.
Va comunque ricordato che la data di comparsa del Pangermanesimo coincide con l’epoca della massima espansione del colonialismo, che vede nel mondo i vastissimi imperi inglese, francese, olandese, portoghese, belga tenere in soggezione quasi tutti i popoli del pianeta, mentre la Russia ha da tempo fatto della Siberia la propria continuità geografica in Asia e l’America sta portando i propri confini – attraverso una lunghissima serie di conflitti dichiarati e no – dalle colonie europee del Nord e Centroamerica a quelle dell’estremo geografico opposto del Pacifico, a ridosso del Giappone.
I Paesi bianchi sono sostanzialmente liberi: tutti gli altri Paesi del pianeta, eccetto tre – Giappone, Siam ed Etiopia – sono soggetti direttamente o attraverso protettorati a nazioni bianche.
Il Panslavismo, in Russia, trova gli stessi mèntori ideologico-culturali del Pangermanesimo in Germania, mentre la silenziosa crescila del Fabianesimo in Inghilterra fonda con più sicura forza l’idea di una egemonia anglosassone sul mondo attraverso la crescita culturale della casta dominante britannica, col sostegno della City e della Royal Navy.
Perché allora attribuire alla Germania questa passione di dominio mondiale, che mai nella storia tedesca è apparso come aspirazione globale? Il debole richiamo ad un giudizio di Machiavelli sull’amore dei tedeschi per le anni, o la citazione di alcune pagine del «Grande Enigma» di Bourdon, o il ricordo di due frasi di Nietzsche o di qualche minore autore tedesco, non riescono certo a documentare questa minaccia.
La verità è un’altra.
Da quando l’America ha iniziato, nel corso del secolo passato, la sua progressiva espansione commerciale nel mondo – ben coperta dalla deliberazione politica della dottrina di Monroe, che negava a tutti i paesi europei la possibilità di un qualunque intervento nell’ambito dell’intero continente americano -la Germania fu il primo Paese europeo a rendersi conto che non già per lei, ma per tutta l’Europa si apriva una fase di progressivo declino, mentre smisuratamente cresceva la potenza americana.
Era non lontana la fine del secolo scorso. Il Kaiser di Germania, a suo cugino lo Zar di tutte le Russie, propose, per la prima volta nella storia, l’instaurazione di un mercato europeo che – proteso verso il Meridione e l’Oriente -potesse difendere gli Europei dall’invadenza americana. Ma lo Zar Nicola II -per superficialità, per incompetenza, per mediocrità — lasciò cadere la cosa. Forse, qualche pressione antitedesca i Russi l’avevano ricevuta dall’Inghilterra e dalla Francia. Le quali anche – soprattutto la Gran Bretagna, allora totale dominatrice delle rotte e degli stretti mondiali nella subordinazione di centinaia di popoli – avrebbero dovuto sentire più della Germania la crescente minaccia americana. Ma la comunanza di lingua fra Inghilterra e America, le matrici religiose parzialmente convergenti, la forza della Società di Rhodes e Milner che sognava un ritorno dell’America nella gran Madre fabianista, e soprattutto la sovrapposizione delle stesse banche che da Londra muovevano verso l’America a creare il bozzolo dell’Occidente, impedirono al Regno Unito un sogno di ripresa. La continuità di questa politica segna oggi l’attuale caduta dell’Inghilterra a supino servitore degli interessi americani.
Ma la Germania in formazione e in crescita, insediata dalla Sorte nel cuore dell’Europa, al centro di potenze europee antiche e nuove alla Storia per recente unità, cominciò a sollevare, con forza analoga all’Inghilterra e quindi all’America, il problema dei propri diritti: spinta dal Pangermanesimo all’assorbimento dei tedeschi dell’Austria, dell’Olanda, del Belgio fiammingo, dei Sudeti, nel contesto europeo di milioni di Volksdeutschens – i tedeschi emigrati da secoli in Ungheria, Romania, Paesi slavi e Russia – essa cominciò a tentare una rincorsa alla potenza militare e ad una intrapresa di penetrazione nel mondo islamico. Fra le altre Potenze era buon seme quello italiano, e potevano esserlo quelli iberici. Non era ancora palese, allora, la formidabile crescita del Giappone nel cuore dell’Asia Orientale, né la volontà d’indipendenza di Indonesia e India, e poi della cosiddetta Cocincina francese, né la grande rivolta araba che si esprimeva ancora in termini antiturchi.
Ma erano tutte premesse che, già nel Primo Conflitto Mondiale, potevano far presagire – senza il dominante intervento americano – una vittoria degli Imperi Centrali dopo la Rivoluzione Russa, e comunque una ripresa di sforzi qualche decennio dopo la sconfitta.
Erano intanto nate in Europa – prima e magistrale quella italiana – le Rivoluzioni nazionalpopolari europee, mentre il militarismo nipponico creava ad Oriente una nuova forza mondiale.
Erano rinnovate forme di tenace, caparbio attaccamento alla propria realtà nazionale, alla sua sovranità politica, alla autarchia della propria produttività. La loro intesa in senso europeo – e del Grande Mondo Orientale per i Paesi dell’Est asiatico – creava una naturale barriera di protezione e sostegno ad una Germania non disposta a soccombere agli anglosassoni.
In sostanza, quel che si confrontava già allora erano due mondi antitetici in termini di visione della storia e due grandi potenziali di mercato mortalmente antagonisti: l’Europa da una parte, l’America dall’altra. E, sull’opposto Iato del globo, attraverso le immense distese marittime del Pacifico, era la Grande Asia Orientale ad affrontare, ancora una volta, l’America.
Ma da un punto di vista americano, il cuore di questo vasto movimento ideale, civile, politico e alla fine tecnologico-economico era la Germania.
Lo era allora, lo sarebbe stata sempre. E la capacità profonda del suo popolo di esprimere forza, intelligenza, istintivo amore per l’ordine. Lentamente, laboriosamente, faticosamente il Paese sconfitto – e dopo la Seconda Guerra debellato e diviso in tre – è ritornato negli anni ’70-’80 uno dei primi creditori mondiali. Mentre l’America passava dai decenni in cui era la splendida riserva dei risparmi propri e altrui, a quelli, tragici, di più grande debitrice del globo.
Niente al mondo in quegli anni faceva prevedere la Perestroika di Gorbaciov, né una fantomatica possibilità di unificazione tedesca. E tuttavia tutto, nel mondo, congiurava per questo. Nascevano fenomeni di opposizione alla società multirazziale, rinascevano i sogni di un’Europa convinta del suo destino, si alzavano voci solenni contro il Mondialismo incentrato sull’egemonia americana, esplodevano i ribellismi arabi.
E l’America era profondamente percossa dalla sconfitta in Vietnam, perdeva battaglie tecnologiche, diveniva una società sempre più in crisi.
Unificati i suoi due principali tronconi dopo la caduta del Muro, la Germania coltivava in quell’epoca un suo grande disegno: riportare le decotte industrie tedesche dell’Est, col concorso del denaro pubblico, ad un altissimo livello che avrebbe condotto non solo la capacità produttiva tedesca, ma anche quelle polacca, ucraina e baltica ai massimi livelli mondiali. Era il sogno di Herrhauser, era quello di Rohwedder: due grandi economisti tedeschi, incaricati, uno dopo l’altro, di realizzare questo disegno.
Ma furono ambedue uccisi: saltò la macchina del primo nel 1989, e tre colpi di fucile sparati dal suo giardino freddarono nel 1991 il secondo.
Sconosciuti i colpevoli. Sconosciuti allora, sconosciuti oggi.
Il governo tedesco capì il messaggio.
Affidalo l’incarico di Rohwedder ad una donna, essa svendette le industrie dell’Est ai banchieri cosmopoliti, e la vasta area di milioni di occupati tesi a far crescere l’Europa, si ridusse ad uno stuolo di milioni di sottoccupati e cassintegrati a generare, nel cuore del continente europeo, una vasta e penosa plaga di assistenzialismo.
E l’America sostituendo la Germania – ricostituì potenza produttiva e forza di denaro.
Ma torniamo a GERMANY MUST PERISH!, quel libercolo ingenuo, fanatico e grossolano, antistorico nei contenuti, ma adatto all’incolto e semplicistico gusto americano. Esso doveva, nel 1941, preparare l’America all’intervento, sperando che un attacco giapponese potesse contribuire a spingere il popolo americano alla guerra. Ma esso doveva anche costituire, nel linguaggio dei simboli, una dura minaccia per la Germania.
Che la Germania non abbia mai, nei millenni, sognato un dominio del mondo che l’Inghilterra invece operava da secoli col concorso subordinato di altri Paesi europei, non era rilevante per GERMANY MUST PERISH!. Quel che serviva era ricordare all’Occidente che una Germania dalle grandi risorse intrinseche, come era stata in grado di riaccendere il conflitto Europa-America dopo 25 anni, avrebbe di nuovo potuto rifarlo ancorché battuta e debellata.
Era quindi necessario terrorizzarla di fronte al mondo. Quello che il libro presenta, in conclusione è la minaccia della castrazione di un popolo: maschi e femmine. Poiché questa era la punizione che il libro proponeva: la sterilizzazione di tutti i tedeschi. Non a caso, qua e là nel mondo, in paesi nordici e scandinavi di antica e sicura fede democratica, la sterilizzazione dei portatori di tare ereditarie era stata a lungo effettuata. Nel silenzio, o comunque nell’omertà generale. È un principio che in qualche misura doveva conservarsi vitale e vivo. Era la matrice di un processo che doveva mantenersi valido nelle strutture organizzative, nella disponibilità dei medici e del pubblico, fermo e stabile nelle leggi di Paesi scontatamente democratici, per potere poi essere richiamato – come minaccia, come realtà operativa – e finalizzalo alla totale estinzione del popolo tedesco.
L’ultimo capitolo del libro, Death to Germany, Morte alla Germania, si apre con un richiamo all’antica legge non europea, ma ebraica «An eyefor an eye, a tooth far a tooth, and a life far a life»: occhio per occhio, dente per dente, e una vita per una vita. Ma v’è, in termini più giuridicamente consistenti, la frase di Heinrich von Treitschke: «Ecco la fine, qui l’umanità non è più possibile. Si deve poter infliggere alla fine una punizione dietro la quale vi sia il nulla, e questa non può essere che la punizione della morte.» Non è una legge, ma ha il tono del Salmo. Anche se concepita nei rapporti tra Stato e individuo, e non fra stati vincitori e vinti, essa sembra calzare al testo come norma conclusiva.
E così, conclude il libro, sia fatto alla Germania!
E qui parte il discorso scientifico sulla sterilizzazione di tutti i Tedeschi. E un metodo moderno, chiarisce l’autore, conosciuto dalla scienza come sterilizzazione eugenica — che significa «miglioramento della razza»: è «pratical, humane and thorough», – cioè è pratico, umano e risolutivo. È un metodo, aggiunge il sano democratico e antirazzista Autore, che va visto quale mezzo tecnico per ripulire la razza umana dai degenerati, dagli insani, dai criminali ereditari.
E un metodo che neppure un razzista si sognerebbe oggi di offrire: alla peggio si nasconderebbe dietro il «seme dei geni» conservato in frigorifero. Ma l’accanito e fanatico cultore della democrazia di stampo americano lo propone con serenità ed orgoglio: è contro il popolo tedesco. Con 20.000 buoni chirurghi, ed escludendo i vecchi sopra i 60 anni e le femmine sopra i 45, in due generazioni il mondo sarebbe libero dalla nazione tedesca. La scomparsa della Germania – e il vecchio eugenista mondiale ritrova l’antico spirito delle conquiste – non creerebbe effetti più negativi di quel che accadde con la graduale scomparsa degli Indiani d’America.
Che cosa accadde mai, allora, col genocidio protratto per lunghi decenni dei pellerossa padroni dei vasti confini dell’West? Proprio niente: si allargò l’America a potenza continentale.
Nient’altro succederà se moriranno, entro due generazioni, tutti i Tedeschi. Questi son coloro che si oppongono, primi ma sempre seguiti da molti, all’imperialismo mercantile americano e al mondialismo armato della egemonia aeronavale USA. Pericolo mortale per la plutocrazia mondialista, oggi e domani: la soluzione è la loro cancellazione.
Ma non si fa la storia – nel bene e nel male – senza rifare allo stesso tempo la geografia: che accadrà della Germania, quando non ci saranno più i tedeschi? L’autore prende in considerazione il problema, e abbozza una mappa nella quale la Polonia – persa la fetta già incorporata dall’URSS – sposterebbe verso Occidente il suo territorio inglobando Berlino, l’Olanda fedele quadruplicherebbe il suo, la Francia si incuneerebbe fino a Monaco per confinare con una Cecoslovacchia almeno triplicata, mentre Belgio e Svizzera si accontenterebbero di incrementi territoriali minori. E nessuno si sorprenda della eliminazione dell’Austria: nella mentalità americana, gli Austriaci sono tedeschi e come tali devono scomparire anche loro.
È il 1941. Ma pochi anni più tardi, a guerra ormai in procinto di concludersi dopo l’immane intervento americano, dopo gli anni dei bombardamenti a tappeto sull’Europa con la sua sostanziale distruzione, dopo Montecassino, Dresda, Hiroshima e Nagasaki, cosa accadde di nuovo, a far rientrare il progetto di sterilizzazione obbligata dei Tedeschi?
Sorse – quasi all’improvviso – qualcosa che GERMANY MUST PERISH! non aveva previsto, forse non sapeva neppure immaginare: sorse l’Olocausto ebraico.
Era la più grande costruzione celebrativa di un popolo. Un popolo che finiva vincente senza avere mai dichiarato alcuna guerra, e che poteva attingere le dimensioni di vittima insuperabile e atteggiarsi, di colpo, a centro culturale del mondo: per farsi costruire nella terra da colonizzare, la Palestina, un bilancio da forte potenza nucleare.
E la Germania doveva vivere, non morire, per produrre e pagare ad Israele fin dentro il Duemila le fortissime spese destinate a garantire un’indiscussa superiorità militare sull’intero mondo islamico.
Ma era anche una autocelebrazione che elevava a carnefici eterni, per la storia, finché sarà scritta, le decine di milioni di tedeschi ritenuti tutti moralmente responsabili.
Non più, quindi, la conquista del mondo, ma il genocidio del popolo ebraico: era una condizione per la Germania di infamia perpetua, di perfidia quotidianamente riattribuita da libri e filmati, di progressiva separazione nei confronti dei camerati europei di ieri, di rigetto e di rifiuto da parte degli europei di domani.
Non contavano le decine di milioni di vittime dei bolscevichi, né il milione di soldati e ufficiali tedeschi fatti sistematicamente morire nei campi di prigionia americani, né le centinaia di migliaia di fascisti rimasti ad imbiancare di croci i Kriminal Camps, né i milioni di europei massacrati a guerra finita in tremende pulizie etniche, conclusesi con quella tragica di Palestina: via gli arabi dalle case, dai villaggi, dalle città – attraverso qualunque crudele mezzo -per lasciare spazio alle nuove città israeliane.
Ecco dunque la castrazione morale dei Tedeschi, la castrazione a tempo indeterminato, per sostituire la più infamante e complessa sterilizzazione sessuale-chirurgica.
Questo spiega la mancata attuazione del progetto di sterilizzazione previsto dal libro.
Ma questo spiega anche molte altre cose: prima fra tutte la mendace ricostruzione della guerra, delle sue premesse, dei suoi protagonisti, delle sue conclusioni e delle singole storie nazionali.
Quasi la metà dei popoli del mondo – ma in fondo tutti, anche i vincenti, giacché la storia è mendace anche per loro – sono obbligati oggi a non riguardarsi indietro, e a gettare la prima metà del secolo in un grande buco nero.
Spariscono decenni di eventi grandiosi, di geniali costruzioni ideali, di entusiasmi trascinanti.
Si rovesciano i Valori, si rovescia la Verità.
Tutto, in fondo, è oggi piantato sulla menzogna.
Ma sulla menzogna, soprattutto se riferita ad eventi storici, non si costruisce niente di positivo: le terribili miserie di ieri torneranno ad esplodere in violenze cento volte più drammatiche. Mentre deflagreranno dieci Cambogie, dieci Serbie, dieci Kurdistan, dieci Palestine.
Forse, fra i mille esempi di mendacio, uno dei più didattici è proprio il nostro – quello italiano.

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