martedì 8 giugno 2010

Ungheria’ 56: una verità scomoda



Marzio Pisani

La cornice storica recente – La cronaca di quei giorni – Budapest ’44-’45: l’olocausto di una città

Tutta la storiografia contemporanea, relativa sia ai decenni postbellici sia alla Seconda Guerra Mondiale col ventennio che la precede, è, palesamente, una storiografia di parte. Essa è infatti ancora del tutto allineata alle tesi di comodo elaborate, verso la fine del conflitto e subito dopo, dagli Uffici Propaganda politico-militari delle potenze vincitrici alla luce dello spirito di Yalta. A mascherare o far dimenticare la unilateralità delle fonti e delle tesi, serve l’apparente divaricazione fra i due maggiori vincitori e fra le loro — per così dire — «scuole di pen¬siero». Si presenta una facciata esteriore di confronto dialettico e di aspro scontro di opinioni per indurre all’ingannevole convinzione che la discussione sia completa — che copra cioè tutti i 3600 dell’angolo circolare di ricerca della verità — ma, soprattutto, che essa sia libera.

Si tratta di una palese mistificazione, giacché entrambi gli interlocutori appartengono allo stesso schieramento storico: quello dei vincitori. Perchè libera ricerca di verità vi fosse, sarebbe necessario che la discussione, sulla stampa e sullo schermo, avvenisse tra vincitori da una parte e vinti dall’altra.

Questa condizione elementare di imparzialità nella ricerca storica dei fatti e delle idee non è mai stata rispettata. Chi ha ricercato e scritto dalla parte dei vinti, o anche semplicemente con intento di oggettività, è condannato a restar fuori dai grandi canali di distribuzione editoriale e non ottiene mai spazi televisivi ancorché minimi: di fatto, egli deve operare in una sorta di «clandestinità legale». Come diceva Ezra Pound, la libertà di parola è niente, senza un microfono alla B.B.C.


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Ma se la serie infinita di orchestrate menzogne, omissioni, esagerazioni e distorsioni rappresenta una vergognosa prostituzione della cultura attuale al prepotere dei vincitori — una vera e propria «malattia morale» della nostra epoca con la quale i più si sono adattati a convivere — l’ultima macchinazione stonio-grafica, armata in questi mesi sulla rivolta ungherese del ‘56, grida veramente vendetta al cospetto della verità e non può essere passata sotto silenzio da qualunque uomo ancora veramente libero. Vediamo dunque brevemente qual è la addomesticata versione dei fatti che tentano di propinarci, ed andiamo poi invece a vedere più a fondo quel che accadde in verità.

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Come se mille altoparlanti si fossero messi a diffondere insieme la voce di un unico speaker, tutti i portavoce del sistema — storiografi, politologi e gazzettieri — ci ammanmscono una identica interpretazione degli eventi: la rivolta di Budapest fu una questione interna socialista, una sorta di guerra civile fra comunisti riformisti e comunisti stalinisti. il popolo prese le armi e sparò, certo, ma so¬lo sui comunisti cattivi. Quelli buoni anzi, li volle con sè: non erano forse comunisti i governanti che emersero dalla rivolta, che chiesero l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia, e che vennero infatti alla fine arrestati dai Sovietici e poi fucilati dal ristabilito ordine socialista? Nagy, per esempio. Egli fu l’eroe, il capo-popolo, e poi il martire. Ed era un comunista. Disciplinato, fedele, osservante. Sempre stato un comunista perfetto. Però era uno dei buoni. Quindi se ne chiede oggi la «riabilitazione». E poichè ancora si nasconde al mondo il luogo della sua sepoltura, gli zeloti della democrazia firmano petizioni al mondo comunista dell’Est perchè esso si penta e consenta sulla sua tomba pellegrinaggi di amanti del socialismo.
In altre parole, i Sovietici sono accusati non tanto di aver massacrato a migliaia gli Ungheresi, quanto di non aver capito lo «spirito» di quella rivolta, che era intesa soltanto a liberare il socialismo ungherese di capi incompetenti e brutali proprio perchè il fiore del socialismo «vero» potesse sbocciare più puro. Fu solo per questo, e per far capire al Cremlino che i suoi proconsoli a Budapest lo rappresentavano male, che gli Ungheresi affrontarono le divisioni corazzate sovietiche. Si trattò quindi, in fondo, di un grossolano errore tecnico di Mosca, di una sorta di «svarione» storico, forse favorito dall’ingenuità degli eredi di Stalin, ancora un po’ inesperti, forse, ma sicuramente amanti del progresso, della pace, e di tutti i popoli della terra — in particolare di quello ungherese, costituito da onesti lavoratori socialisti come loro.


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Si tratta, trasparentemente, di una storiella che non regge. Imre Nagy, nel suo primo discorso a rivolta appena iniziata, definisce provocatori i rivoltosi. Poi, firma la legge marziale e la richiesta di intervento militare sovietico. Quando, dal Parlamento, si rivolge all’immensa folla dei manifestanti chiamandoli «compagni», «Non siamo compagni» — inveisce il popolo di Budapest. Che abbatte la statua di Stalin, attacca le sedi del Partito Comunista, strappa falce e martello da tutte le bandiere ungheresi: da allora, la bandiera nazionale è un tricolore con un buco in mezzo. Ben strani comunisti riformisti, che non chiedono affatto riforme, ma la cacciata dei Sovietici, lo scioglimento del Partito Comunista, e la liberazione del Cardinale Midszenty. Che se la prendono con gli agenti della polizia segreta, col Patto di Varsavia, con gli ebrei. Che contro le bandiere rosse combattono con accanimento feroce, con disperato eroismo, con odio implacabile.
E allora perchè la storiografia ufficiale del Sistema — anzi tutta 1’«intellighenzia» occidentale — si sforza oggi di darci a bere la fòla di un popolo di rossi che si rivolta ad un governo rosso e si batte contro l’armata rossa? Innanzi tutto perchè le sarebbe ancora più difficile, anzi impossibile, darci a bere l’altra fola: quella cioè di un popolo di democratici che si ribella in nome delle libertà individuali e partitiche.


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Certo, il primo nucleo dei manifestanti era costituito di universitari — figli prediletti del regime rosso — che chiedevano libertà civili e politiche. Ma subito il loro corteo — come se il popoìo fosse da tempo in attesa di un pretesto, di una scintilla, di un segnale — fu ingrossato, sommerso, ingoiato e poi lasciato indietro da una massa popolare dieci o venti volte più numerosa, che non chiedeva riforme e libertà civili per gli individui, ma la Libertà per la Nazione ungherese. E il guaio è che, per tutta la durata della rivolta, ben pochi furono gli striscioni che inneggiassero alla democrazia, all’Occidente, ai suoi valori. Solo alla Patria Magiara, alle terre strappatele dai vincitori, agli eroi della tradizione nazionale inneggiavano le masse in rivolta, gli operai e i contadini in armi, i giovani che sfidavano i carri.
In un’ottica democratica e progressista i conti quindi non tornano: uno dei dogmi della cultura corrente stabilisce che il popoìo, per definizione, possa esse¬re soltanto o democratico o socialista. Tentium non datur. Un secondo dogma afferma che ogni cambiamento è possibile, legittimo, e magari anzi auspicabile, purché esso avvenga all’interno del sistema e gli sia funzionale e, soprattutto, purchè esso non turbi l’Ordine di Yalta.

Bisognava quindi, i conti, farli tornare in qualche modo. La prima trappola tesa dalla storiografia ufficiale alla intelligenza e alla verità è quella di analizzare, ricostruire e raccontare la rivoluzione di Budapest come singolo «fatto di cronaca», del tutto avulso dal contesto generale della storia del popoìo magiaro. La seconda trappola è quella di gettare la luce dei riflettori su di un solo angolo di quella immensa ribalta accesa di mille passioni e agitata da mille forze: l’angolo nel quale, attorno a un tavolino, giocavano le loro carte della fedeltà a Mosca gli uomini del Partito, staliniani o moderati o revisionisti, così da lasciare in ombra
— e quindi fuori storia — il popolo primattore. Tutto veniva giocato fra Rakosi, Gerò, Nagy, e, al massimo, Maleter — che però con quella sua passione per le armi e per le uniformi di sapore un po’ prussiano, impersonava una figura di comu¬nista quanto meno ambigua. Gli altri — il popolo, i giovani, i militari, che invece di sparare sui rivoltosi sparavano sui Sovietici, i preti cattolici o luterani o orto¬dossi che benedicevano le bandiere col buco, i contadini e i sottoproletari che davan la caccia ai comunisti — tutti gli altri non contano nulla, e meritano al mas¬simo un flash o un fotogramma, ma non certo i riflettori da primo piano. Di queste trappole la verità è preda facile, ed il popolo d’Ungheria — tradito e massacrato ancora una volta — è la vittima sacrificale.
E così è ormai approvata, sancita e canonizzata la versione ufficiale: la rivolta di Budapest fu una questione interna al sistema, una faida fra socialisti, un tra¬gico sciagurato affaire mal gestito dalla troika moscovita orfana recente di Stalin.

La cornice storica recente
Se si vuole interpretare un evento come quello della rivolta di un intero popolo, non si può farlo senza inquadrare i fatti nella loro dinamica storica — quantomeno riferita agli ultimi decenni. E i precedenti storici ci dicono, in breve, che quello ungherese fu il popolo che insieme a quello croato, a quello tedesco e ai popoli baltici — combattè con maggiore accanimento e determinazione fino alla fine, e che esso non conobbe praticamente alcun reale fenomeno di resistenza popolare antifascista — eccezion fatta per piccoli nuclei comunisti, guidati da Laszlo Rajk rientrato in Patria da Mosca e sostenuti da ambienti ebraici. Inesistente fino al 1944, per ammissione della stessa storiografia marxista, la Resistenza ungherese fu soltanto un insieme di velleitarismi, fallimenti e piccole azioni di scarsa importanza senza alcun supporto popolare. Quando le armate tedesco-magiare dovettero abbandonare all’Armata Rossa la terra ungherese difesa palmo a palmo, 800.000 Ungheresi — su circa dieci milioni di abitanti! — lasciarono la Patria per continuare la lotta in Austria e in Germania, o comunque per non sottostare al regime dei vincitori. Non a caso, da amici e nemici, l’Ungheria venne definita «il più fedele alleato della Germania».
Il prezzo pagato dalla nazione ungherese per tener fede all’alleanza con l’Asse e porsi come uno degli ultimi bastioni difensivi dell’Europa centrale contro la marea sovietica, fu spaventoso: si contarono 400.000 morti fra combattenti e civili, decine di migliaia di feriti, mutilati e invalidi, più l’immensa fiumana di profughi che aveva lasciato il Paese insieme ai Tedeschi. L’U.R.S.S. si annetteva la Rutenia Subcarpatica, e similmente tutti gli altri territori magiari recuperati pochi anni prima tornavano a far parte di Cecoslovacchia, Romania e Jugoslavia. Su queste terre strappate alla Madrepatria si impose un vero e proprio programma di smagiarizzazione con stragi, deportazioni ed espulsioni. Ciò che restava dell’Ungheria era devastato dalla guerra: il sistema dei trasporti era solo l’ombra di quel che era stato pochi anni prima, le perdite nel settore dell’allevamento oscillavano dal 60% del bestiame bovino all’8 1% degli ovini; circa un terzo delle attrezzature agricole era andato distrutto. La nuova Ungheria democratica, «liberata» dall’Armata Rossa, si impegnò inoltre a pagare 300 milioni di dollari a U.R.S.S., Jugoslavia e Cecoslovacchia in conto riparazioni di guerra.
fl processo di comunistizzazione del Paese passava attraverso una fase iniziale che prevedeva l’instaurazione della democrazia. La cosa imbarazzante era che, di tutti i partiti ungheresi, solo quello comunista poteva vantare un passato di «resistenza» mentre gli altri — socialdemocratici inclusi — avevano collaborato con il regime hortysta fino al 1944 accettando, tra le altre cose, l’alleanza con l’Asse e la «crociata» contro l’Unione Sovietica. Si decise quindi di considerare legali anche quei partiti i cui dirigenti avevano cambiato bandiera solo negli ultimi mesi di guerra: socialdemocratici, Partito Nazionale dei Contadini e — unico partito «di destra» — i «Piccoli Proprietari». La tecnica dei comunisti fu quella di garantirsi subito una base di massa, e il loro partito cominciò a gonfiarsi a dismisura: tra i nuovi adepti figuravano numerosissimi ebrei — che, come si vedrà più avanti, costituivano da sempre il nerbo del partito — e molti opportunisti che ben poco avevano a che fare con l’ideologia del marxismo-leninismo. Non mancarono del resto neppure coloro che erano effettivamente attratti dalla propa¬ganda comunista, e che aderivano al partito in odio al tradizionale strapotere dei proprietari terrieri aristocratici. Tra le prime iniziative prese dai politici giunti a Budapest al seguito dell’Armata Rossa, figuravano le misure repressive contro i fascisti e gli hortysti (esecuzioni, deportazioni, esclusione diritto di voto per centinaia di migliaia di ungheresi) ed una riforma agraria che eliminava il latifondo suddividendo la terra tra i contadini. Apparve subito chiaro che questa riforma agraria veniva introdotta a puro scopo propagandistico e demagogico: una ben più organica riforma in tal senso era già stata introdotta dal regime nazionalsocialista delle Croci Frecciate, che da sempre avevano teorizzato la trasformazio¬ne del proletariato agricolo magiaro in una classe di piccoli proprietari, e che l’avevano attuata non appena assunto il potere dopo il voltafaccia di Horty. Pretendere comunque che i vincitori sovietici e i loro simpatizzanti locali riconoscessero che la tanto attesa riforma era già stata varata dal regime nazionalsocialista di Szalasy, sarebbe stato indubbiamente eccessivo. Del resto, il programma del regime comunista prevedeva non il frazionamento ma la collettivizzazione delle terre: negli anni seguenti infatti la piccola proprietà privata sarebbe stata eliminata del tutto.
Ad ogni modo, la speranza dei comunisti di vincere le elezioni si rivelò illusoria: i voti di tutti coloro che negli anni di guerra avevano sostenuto il regime di Horty, o avevano simpatizzato per le Croci Frecciate o altri movimenti fascisti, si riversarono sui Piccoli Proprietari che ottennero il 57% dei suffragi (2.691.000 voti) contro il 17,4% dei Socialdemocratici (822.000 voti), il 17% dei comunisti (801.000 voti) e il 6,9% dei Contadini (323.000 voti).
Ciò che realmente contava però non era la percentuale di voti ottenuta da questo o da quel partito, ma l’accordo raggiunto a Yalta tra le potenze capitaliste e il comunismo staliniano per la spartizione dell’Europa. I comunisti, protetti dalle forze d’occupazione sovietiche, procedettero quindi a piazzare loro uomini nei posti-chiave dell’apparato statale, della burocrazia, della polizia, dell’esercito. Gradualmente essi stesero un clima di terrore sul Paese e dettero inizio ad una serie di nazionalizzazioni nei settori più disparati: bancario, agricolo, industriale, dell’educazione — tradizionale monopolio della Chiesa cattolica e delle confessioni religiose minori. Sul piano politico si passò dalla democrazia pluripartitica ad un sistema a partito unico — quello comunista — nel quale erano confluiti anche i socialdemocratici e parecchi esponenti dei partiti borghesi («contadini» e piccoli proprietari).
ll partito si trasformò in un immenso apparato burocratico e, contemporaneamente, in una nuova classe sociale di privilegiati. E di fondamentale importanza tener presente che il sistema stalinista era letteralmente dominato dagli ebrei. Già al tempo della «dittatura del proletariato» del 1919 la dirigenza comunista era stata di fatto una espressione ebraica (lo stesso Bela Kun — Abele Cohen — era ebreo e con lui la maggioranza dei suoi collaboratori). Ora la storia si ripeteva: ebreo era il capo del regime, Rakosi, nato Roth — forse il miglior allievo di Stalin al di fuori dell’U.R.S.S. — ed ebrei erano i suoi collaboratori più potenti, come Erno Gerò (nato Singer), Mildos Farkas (nato Wolf) Ministro della Difesa dal Settembre 1948, e Jòzsef Révai massimo responsabile della propaganda del regime. Ebrei erano molti degli intellettuali e delle alte sfere del regime, ma anche dei dirigenti locali che rappresentavano l’infrastruttura del comunismo ungherese: burocrati, ufficiali della polizia politica, funzionari. I risultati

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delle ricerche effettuate da sociologi americani tra gli Ungheresi fuggiti in occidente dopo la rivolta sono illuminanti in proposito. Uno di questi sociologi, Jay Schuiman, ha riconosciuto che «I capi comunisti erano visti come ebrei da quasi il cento per cento della gente che abbiamo esaminato». Alcuni brani di queste inter¬viste sono stati pubbblicati ed appaiono particolarmente indicativi: « Tutti i posti chiave erano occupati da ebrei ... mi chiedevo perché i cattolici e luterani non riuscissero ad ottenere questi impieghi. C’erano molti ebrei a Pòpa, ma nessuno faceva lavori manuali e nessuna delle loro mogli lavorava». (1) «I leader di queste cooperative (di Stato) erano sempre dei Cohen e degli Schwanz». «È un fatto risaputo che gli ebrei sono politicamente in primo piano». E ancora «quando sono tornati in Ungheria nel 1945, non avevano un soldo e in un solo anno se la sono cavata molto bene. Non riesco a capire come abbiano fatto ... Il regime appartiene a loro. Sono stati gli ebrei a fan nascere la maggior parte dei problemi ungheresi. I contadini del mio villaggio ritenevano che avessero aiutato i comunisti ad arrivare alpotere, e pensavano che fossero il nucleo dirigente del comunismo. Non c’era un solo ebreo rispettabile nel villaggio.»
ll sistema stalinista sviluppò la sua offensiva politica in diverse direzioni, soprattutto per mezzo della A.V.H., la temuta polizia politica forte di 35.000 agenti e di una rete di informatori molto estesa. Nel solo periodo 1952-1955 vennero processati e condannati oltre 516.000 Ungheresi. Parallelamente, il sistema comunista perseguiva una politica culturale mirante ad estirpare dalle radici la cultura nazionale ungherese.
E importante notare, tuttavia, che in Ungheria si sviluppò una resistenza anticomunista molto prima del 1956. Questa resistenza si sviluppò prima in forma legale e semilegale e, successivamente, nella clandestinità. Alle elezioni del 1947, prima dell’instaurazione del sistema a partito unico, si presentarono ben 6 partiti di opposizione che «coprivano tutto lo spazio politico della destra, fino a raggruppamenti completamente fascisti e appena mascherati» (2) e che ottennero complessivamente oltre 2 milioni di voti, contro 1.800.000 voti dei comunisti ed i 2 milioni dei partiti democratici che facevano parte della coalizione governativa. Va ricordato, per inciso che 300.000 Ungheresi erano stati privati del diritto di voto per i loro trascorsi fascisti, e che molte centinaia di migliaia erano rifugiati all’estero. Tra questi ultimi, in particolare, si costituirono organizzazioni politiche e paramilitari patriottiche come la M.H.B.K., associazione internazionale dei veterani ungheresi della 2a guerra mondiale, e nuclei di sopravvissuti delle Croci Frecciate erano attivi tra gli esuli residenti in Europa Occidentale, in U.S.A., in Canada. Oggi ancora si contano a decine le pubblicazioni di orientamento fascista diffuse in queste comunità ungheresi nel mondo.
Anche nella stessa Ungheria, nonostante la repressione poliziesca, sopravvivevano o si costituivano nuclei clandestini armati. Inoltre, le ricostituite Forze armate ungheresi, comprendevano un buon numero di ex combattenti del fronte dell’Est, fra i quali non aveva mai fatto presa alcuno spirito di cedimento o di titubanza ideologica nella determinazione a battersi fino in fondo.
Certamente questi sopravvissuti del regime di Horty, insieme ai superstiti delle Croci Frecciate e agli altri nazionalisti in Ungheria o all’estero, difficilmente avrebbero potuto giocare un ruolo determinante se non fosse stato per la crisi, profonda e irreversibile, che attanagliava il partito e il regime comunista. I funzionari di partito rappresentavano infatti una nuova classe privilegiata, che a sua volta attirava con la promessa di vantaggi sociali ed economici una massa enor¬me di opprtunisti o, più semplicemente, di comuni cittadini che cercavano solo di evitare guai nascondendosi dietro una tessera. Questo spiega perchè, nei giorni della rivolta, migliaia di iscritti al partito non esitarono a bruciare le bandiere rosse ad abbattere i simboli dello stato socialista, a combattere e a morire nella lotta contro l’Armata Rossa. Alla vigilia dell’insurrezione il partito, nonostante le purghe e le espulsioni di massa degli anni precedenti, contava 800.000 iscritti. Nei giorni della rivoltà esso rimase del tutto inerte, dissolvendosi sotto l’urto degli eventi; e quando si ricostitui, dopo il ritorno in forza dell’Armata Rossa, giunse a contare soltanto 200.000 aderenti. I risultati di questo fenomeno di elefantiasi furono una crescente burocratizzazione ed una totale ed irrimediabile frattura tra il partito e la popolazione. Parallelamente il partito presentava una frattura interna fra «stalinisti» e «riformisti». Questo disaccordo intestino — che negli anni precedenti non aveva mancato di provocare purghe, processi-farsa seguiti da arresti ed esecuzioni capitali, esilii e dimissioni più o meno volontarie, il tutto nella migliore tradizione del socialismo reale — offrì una occasione insperata a tutte le realtà anticomuniste ancora esistenti sia in Patria che in esilio, quando l’ala riformista e moderata decise di forzare la mano ai propri rivali stalinisti.
D’altro canto l’insurrezione non fu del tutto estemporanea ed inattesa come oggi si vorrebbe far credere. Già nel 1953 si erano verificati scioperi e disordini, e nel 1955 erano stati resi noti arresti ed esecuzioni di oppositori politici organizzati in gruppi clandestini. La liberazione di un certo numero di prigionieri politici e la propaganda dell’occidente favorirono ulteriormente il coagularsi di un’opposizione più o meno clandestina, seppure tollerata dai «revisionisti» in funzione antistalinista. E opportuno notare, inoltre, che i gruppi più attivi e meglio organizzati nel preparare l’insurrezione erano del tutto indipendenti dai rappresentanti degli ex partiti democratici liquidati dallo stalinismo — che tentarono poi velleitaiiamente di gestire la rivolta. Uno degli organizzatori di questi nuclei di opposizione, poi fuggito in Occidente, Ferenc Aprily — già tenente dell’esercito e veterano del fronte dell’Est — ha spiegato: «Noi non volevamo legarci a nessun singolo gruppo o uomo politico, cosicché i combattimenti si svilupparono, per così dire, semplicemente là dove sembrava via via necessario. Io ero consigliere e capo di un gruppo di 35 combattenti.». (3) Naturalmente nuclei di questo tipo non potevano pensare di abbattere il regime da soli, ma potevano sperare di inserirsi nel movimento di protesta popolare per assumerne la guida, trasformarlo in un vero movimento insurrezionale e condurlo poi alla presa del potere. Una breve analisi degli avvenimenti del 23 Ottobre 1956 e tutta una serie di testimonianze confermano che la rivoluzione ungherese fu il risultato di un movimento di popolo animato da sentimenti nazionalisti, sfuggito ad ogni tentativo di strumentalizzazione, e incanalato da una minoranza anticomunista, estremamente decisa sulla strada dell’insurrezione nazionale.

La cronaca di quei giorni
Il 22 Ottobre, sull’onda del moto di protesta antistalinista e revisionista, gli universitari, fiore all’occhiello del regime, costituiscono un’organizzazione stu¬dentesca che, seppur formalmente marxista-leninista, è indipendente dal partito. La neonata associazione decide subito di organizzare una manifestazione per il giorno seguente.
Il 23 Ottobre alle 15, circa 15.000 persone sfilano per le vie di Budapest. Sono per lo più studenti, ma a questi si uniscono intellettuali, centinaia di ex-detenuti politici e migliaia di cittadini. Mano a mano che la folla cresce di numero gli slogans «revisionisti» vengono sostituiti da quelli patriottici ed antisovietici. Le bandiere nazionali prive dello stemma comunista sono sempre più numerose. Alla fine della manifestazione, la folla — sono ormai 50.000 persone — anziché disperdersi punta minacciosa in direzione del Parlamento, il corteo è ormai sfuggito al controllo degli organizzatori. I patetici appelli alla calma dei comunisti restano inascoltati. A sera il Parlamento è assediato da una folla di 200.000 persone che inveiscono contro il comunismo e l’Unione Sovietica, il tentativo di Nagy di calmarli non ha successo. Quando pronuncia il rituale «compagni» la folla urla:
«Noi siamo Ungheresi!». Dimostranti cominciano a raccogliersi davanti all’edificio della radio. il discorso radiofonico di Gerò che esalta 1’ «unità del partito per la democrazia socialista» e attacca «lo sciovinismo e l’antisemitismo» esaspera ulteriormente la folla. Verso le ore 21 la situazione precipita: «Apparvero segni di un’azione preordinata e disciplinata ... alcuni drappelli si separarono dal corpo dei dimostranti e, molti sicuri e con chiara idea su quello che c’era da fare, dove si doveva andare e come si dovevano distribuire i compiti, un primo gruppo si diresse alla stazione radio; un secondo, alla sede del quotidiano Szabad Nep; un terzo, alla centrale telefonica; un quarto, un quinto e un sesto a un posto motoristico con 60 autocarri, a ... una fabbrica d’armi e a un deposito di munizioni». (4)
Per tutta la notte tra il 23 e il 24 Ottobre a Budapest infuriano i combattimenti. I camion degli insorti trasportano armi e munizioni verso i luoghi degli scontri o attràversano la città incitando alla ribellione e raccogliendo nuovi volontari. I reparti militari ungheresi fatti affluire nella capitale passano le armi ai rivoltosi o si schierano apertamente al loro fianco. Praticamente, solo l’A.V.H. (la polizia politica) e unità della polizia regolare restano dalla parte del regime. Al mattino, gli insorti dominano il centro città mentre sono intervenuti nella bat¬taglia i primi reparti corazzati sovietici.
Riassumendo: in poco più di sei ore una manifestazione che doveva essere «comunista revisionista» si trasforma in insurrezione nazional-popolare contro il comunismo’. Questo sarebbe stato impossibile senza sia pur piccoli gruppi orga¬nizzati clandestini che, evidentemente, incarnavano le più profonde aspirazioni del loro popolo. Ma quali erano queste aspirazioni? Nagy al potere? E quanto-meno improbabile, dal momento che Nagy era stato nominato Primo Ministro la stessa notte del 23 Ottobre senza che questo ponesse termine ai combattimenti. Vediamo invece quali furono le «costanti» dell’azione politico-militare degli in-sorti.
Innazi tutto, liquidazione del partito e della odiata A.V.H.: i massacri di comunisti avvenuti in occasione dei combattimenti per la radio e in piazza della Repubblica a Budapest sono solo i casi più noti, ma episodi simili si verificarono durante tutta la rivoluzione in moltissimi altri centri minori e — cosa più impor¬tante — avevano spesso un carattere di sistematicità.
Parallelamente, l’insurrezione ebbe un forte carattere antisemita. Al primi di novembre la comunità ebraica di Vienna informava i rabbini di New York che «sangue ebraico scorre in Ungheria per opera dei ribelli».(5) Un giornalista americano si senti spiegare che «gli ebrei dovevano essere sterminati perché avevano portato il comunismo in Ungheria» (6) mentre un corrispondente israeliano lamentava la liberazione di prigionieri politici di tendenze naziste, le scritte e gli slogans antiebraici e il clima di antisemitismo prevalente tra gli insorti di Budapest. Secondo il Congresso mondiale ebraico, si sarebbero registrati «eccessi an¬tisemiti» in più di 20 centri abitati al di fuori di Budapest, a causa di «gruppi fascisti e antisemiti» tornati allo scoperto con la crisi del regime comunista. Le inchieste condotte dagli Americani tra gli Ungheresi riparati in Occidente rivelarono che l’antisemitismo era un sentimento molto diffuso tra i rifugiati — fatto ab¬bondantemente confermato dai giornalisti che ebbero modo di visitare i campi profughi. Naturalmente, la storiografia comunista ha presentato queste azioni come «pogrom», motivati da una sorta di odio isterico di massa, omettendo di precisare che, nell’Ungheria del ‘56, sparare ai quadri comunisti e soprattutto agli ufficiali della polizia politica voleva dire quasi necessariamente sparare su ebrei.
Un altro punto fermo dell’insurrezione fu il sentimento nazionale col suo corollario di antisovietismo: per tutto il periodo della rivolta gli insorti attaccaro¬no le truppe sovietiche e chiesero il ritiro totale e immediato delle forze di occupazione, la denuncia del Patto di Varsavia e la assunzione di una posizione di neutralità da parte dell’Ungheria. Fecero la loro comparsa anche slogans inneggianti al recupero dei territori irredenti e al rovesciamento di tutto il sistema comunista; la parola d’ordine dell’insurrezione anticomunista venne lanciata anche alle truppe sovietiche, e alcuni reparti di razza slava passarono effettivamente agli insorti, tanto che il Comando sovietico, in vista della «seconda ondata», preferì fare affluire in Ungheria unità composte da Asiatici, più tetragoni a suggestioni di carattere ideologico ed emozionale.
È infine sorprendente che si passi oggi sotto silenzio il fatto che tra i numerosi Comitati rivoluzionari sorti in tutto il Paese, molti non aderirono al nuovo regime «democratico» di Nagy. Fin dall’inizio dell’insurrezione gli insorti costi¬tuirono proprie organizzazioni politico-militari come l’«Organizzazione dei Giovani Combattenti Ungheresi» e il «Nuovo governo rivoluzionario e comitato di difesa nazionale», che erano indipendenti dai partiti democratici ricostituiti in fretta e furia da vecchi politici screditati. I diversi comitati rivoluzionari costrinsero Nagy alla cosiddetta «svolta a destra» con la loro costante pressione politica (giornali e radio libere fecero la loro comparsa fin dall’inizio) e soprattutto militare. Nagy prima spedì in esilio i principali stalinisti, quindi, per non rischiare di essere rovesciato, abolì il sistema unipartitico, costituendo governi con i rappre¬sentanti dei vecchi partiti borghesi — governi che, ad ogni rimpasto, risultavano essere sempre meno comunisti. Infine si decise — lui che era firmatano della richiesta di intervento sovietico — a denunciare il Patto di Varsavia e a proclamare la neutralità. È importante tener presente che, nonostante Nagy si fosse trasformato m un Kerenski alla rovescia, gli insorti non si accontentarono di questi cambiamenti, spingendosi su posizioni mano a mano più radicali. Il «Consiglio Nazionak Tnansdanubiano» (rappresentante di tutti i comitati rivoluzionari dell’Ovest) si trasformò in un vero governo dell’Ungheria Occidentale in aperta sfida a quello di Nagy. Su posizioni simili era il «Consiglio Nazionale Rivoluzionario» di Budapest. Anche i comitati dell’Est diffidavano di Nagy, soprattutto quando si avvidero che, a dispetto delle sue «trattative», i Sovietici non solo non si stavano ritirando come promesso, ma facevano invece affluire rinforzi.
Un aspetto fondamentale della rivoluzione ungherese oggi deliberatamente dimenticato dagli occidentali, che è stato invece paradossalmente ammesso da parte comunista, fu l’apporto dato dai fascisti ungheresi — Croci Frecciate in particolare — numerosi soprattutto tra gli esuli. Agence France presse riferiva che «si conferma che nella Germania occidentale si apprestano febbrilmente formazioni militari», legate alle «Croci Frecciate» e ad altri «ultranazionalisti». Fin dal primo giorno ex militari dell’esercito fascista di Szalasy e Svevi d’Ungheria di lingua tedesca lasciarono il campo profughi di Traunstein diretti alla frontiera ungherese. ll 2 Novembre 1956, il giornale «Uj Hungaria» diffuso tra gli Ungheresi in esilio in Occidente, annunciava che «battaglioni di volontari» reclutati tra i fuoriusciti in Austria, Germania ed altri Paesi europei erano «in viaggio verso l’Ungheria; forse hanno già passato la frontiera». Anche un dirigente della già citata orga¬nizzazione paramilitare M.H.B.K., costituita da ex militari dell’esercito di Szalasy, in un articolo pubblicato su Szabad Magyansag (rivista di estrema destra degli Ungheresi residenti negli U.S.A.) spiegò che un piccolo contingente dell’organizzazione era riuscito a raggiungere l’Ungheria «a dispetto di tutti gli ostacoli e i divieti» posti dagli Occidentali, precisando inoltre che «allo scoppio della rivoluzione la nostra direzione cominciò a trattare, e noi eravamo pro nti per ogni azione attiva» (7).
Non va dimenticato, peraltro, che un buon numero di «turisti» pare si fosse infiltrato in Ungheria già nel periodo precedente la rivolta e che comunque nei giorni della rivoluzione gran parte dell’Ungheria Occidentale era virtualmente in mano agli insorti che controllavano tutta la frontiera con l’Austria. Secondo fonti giornalistiche austriache, lungo la frontiera esistevano «centri di comando ben stabiliti» costituiti da hortysti ed altri nazionalisti che andavano ad ingrossare le fila degli insorti. Né va dimenticato il ruolo svolto dalle radio trasmittenti che, dalla Germania e dall’Austria, contribuivano a coordinare le azioni militari degli insorti. È impossibile stabilire quanti esuli ungheresi riuscirono effettivamente a prendere parte alla rivolta: secondo alcune fonti, circa 2.000 ungheresi armati avrebbero passato la frontiera entro il 4 Novembre, mentre altre fonti parlano di «decine di migliaia», anche se appare veramente difficile credere che tutti questi esuli abbiano potuto effettivamente passare il confine prima dell’offensiva finale sovietica. La presenza di questi volontari armati, comunque, qualunque ne fosse il numero, contribuisce a spiegare il crescente radicalismo dei «comitati rivoluzionari» dell’Ungheria occidentale e la loro inflessibile ostilità nei confronti del nuovo governo demo-comunista di Nagy. A tutto questo si deve aggiungere che migliaia di prigionieri politici erano stati liberati durante la rivolta e che molti di questi erano militanti fascisti e hortysti — tra questi figuravano anche ex-dirigenti delle Croci Frecciate come Mildos Serenyi e Odon Malnasi, già responsabile del settore propaganda. In tale quadro va ricordata la presenza di elementi come Antal Mayer, già volontario delle Waffen-SS ungheresi e capo di un reparto di insorti a Budapest, e di noti hortysti a Pecs, tradizonale feudo nazionalista che offri una resistenza particolarmente accanita ai Sovietici in occasione dell’offensiva finale. Significativo fu l’atteggiamento tenuto dall’aviazione che, almeno nelle intenzioni dei suoi quadri dirigenti, si dimostrò molto più estremista dell’esercito, fino al punto di richiamare in servizio aviatori veterani della 2a Guerra Mondiale e di lanciare un ultimatum ai Sovietici nel momento in cui il Governo Nagy stava «trattando» con i rappresentanti di Mosca.
Per quanto riguarda invece il personaggio Nagy — oggi esaltato congiuntamente da democratici e comunisti come una sorta di «eroe nazionale» — molto ci sarebbe da dire. Ci limitiamo qui a ricordare come Nagy fu, insieme, uomo «del Sistema», capro espiatorio, e uomo «delle mezze misure». Fu uomo del sistema quando mise la fedeltà al partito comunista al di sopra di ogni altra cosa, alleandosi agli stalinisti e invocando con loro l’intervento sovietico per soffocare sul nascere la rivoluzione nazionale. Fu invece capro espiatorio in quanto obbligato a governare dagli stessi rivali stalinisti, consci che chi reggeva l’Ungheria in quei giorni, anche solo nominalmente, non avrebbe potuto non commettere errori — e per questi errori avrebbe poi dovuto pagare. Fu infine l’uomo delle mez¬ze misure, che chiama i Sovietici e poi tratta con loro per ottenerne il ritiro; che denuncia il Patto di Varsavia, ma impedisce ai reparti ungheresi di organizzare una vera resistenza efficiente e coordinata su tutto il territorio nazionale; che tenta di far deporre le armi agli insorti ma cede ogni volta che questi avanzano richieste più oltranziste. In sostanza, una mezza figura in balia degli eventi, parzialmente nobilitata solo più tardi con l’atteggiamento tenuto dopo l’arresto.
Ben altri furono gli eroi della nazione magiara in quei giorni. Eroi furono gli insorti comandati dal giovane frate francescano Basil Vegvari che, arroccati sulla collina del Castello di Buda e armati con bombe molotov e armi leggere, respinsero ogni intimazione di tesa e resistettero fino al 7 Novembre agli attacchi dei carri e ai bombardamenti dell’artiglieria e dell’aviazione. Eroi furono quei combattenti che continuarono la guerriglia anche dopo che la rivoluzione era stata soffocata; e i ragazzini che, armati di molotov e taniche di benzina, incendiavano i carri sovietici per le vie di Budapest. Eroi furono persino quei soldati dell’Armata Rossa — per lo più Ucraini — passati agli insorti in una lotta senza speranza contro chi opprimeva anche la loro terra. Eroi furono infine i disperati militanti dell’ora estrema, che dalle ultime radio in loro possesso gridavano al mondo: «Noi stiamo per morire per l’Ungheria e per l’Europa».
Se quanto detto finora già illumina a sufficienza una verità che la storiografia ufficiale vuole invece tenere nel buio, la vena chiave di lettura dei «fatti d’Ungheria» del ‘56, sta però in una precedente tragica pagina della storia di questo popolo di coraggiosi: la difesa a oltranza di Budapest assediata dall’Armata Rossa nell’ultimo inverno di guerra. Fu una pagina scritta, a soli undici anni di distanza dagli stessi uomini e dalle stesse donne che combattevano nelle stesse piazze e sugli stessi ponti, sparando dalle stesse finestre e sugli stessi nemici. Una pagina che qui ci sentiamo in dovere come storici e come uomini liberi, di rievocare per intero.

Budapest ‘44 - ‘45: l’olocausto di una città
Nei vent’anni e più della sua reggenza l’Ammiraglio Horty — pur riducendo a zero la presenza comunista nel paese — aveva conservato all’Ungheria un regime pluripartitico e parlamentare ed aveva sempre esercitato una dura repressione nei confronti dei movimenti dichiaratamente fascisti, ed in particolare del forte movimento nazionalsocialista delle Croci Frecciate: all’inizio del conflitto, nel 1939, il loro capo Szalasy era infatti rinchiuso nelle carceri del Regime. Quando però, nell’Ottobre del 1944 il Reggente Horty — che non aveva mai cessato di mantenere sotterranei contatti con gli Angloamencam — sì illuse di poter uscire dal conflitto, l’esercito ed il popolo magiari si rifiutarono di seguirlo, raccogliendo invece con entusiasmo l’appello delle Croci Frecciate di Szalasy che dettero vita in pochi giorni ad uno stato nazionalsocialista e proclamarono la guerra ad oltranza. In breve furono potenziate le Forze Armate con nuovi reparti, unità di èlite e milizie di partito, mentre numerosissimi affluivano giovani e giovanissimi volontari. Da quel momento l’Ungheria rappresentò uno dei pilastri della fortezza europea e dell’ideale euro-fascista del Nuovo Ordine.
La guerra comunque infuriava già da tempo in terra magiara. Gli ultimi mesi del 1944 vedevano i Sovietici-Romeni avanzare lentamente nella pianura ungherese, contrastati duramente dai magiaro-germanici. A Nord, la 1a Armata ungherese era costrétta a ritirarsi in Slovacchia mentre, a metà Novembre, l’Armata Rossa premeva ormai in direzione di Budapest. Quando però divenne chiaro che il tentativo di conquistare la capitale magiara con un attacco frontale non po¬teva aver successo, i Sovietici iniziarono una vasta manovra di accerchiamento che si concluse tra il 13 Dicembre e la vigilia di Natale.
Gli Ungheresi avevano da tempo trasformato la loro capitale in una gigantesca fortezza, presidiata da una consistente guarnigione magiaro-tedesca. La difesa ad oltranza della città, oltre ad avere un ovvio significato morale, serviva a negare al nemico il possesso di un nodo stradale di fondamentale importanza per le sue future avanzate verso Occidente. Le forze concentrate a Budapest, inoltre, minacciavano le retrovie nemiche, costringendo Sovietici e Romeni a schierare numerose divisioni intorno alla città fortificata. Le forze magiare che difendeva¬no la fortezza-Budapest comprendevano la ia Divisione Corazzata, la 10a Divisione Mista, la 1 2 Divisione di Riserva, il Gruppo Billnitzer (4 battaglioni di artiglieria d’assalto e un battaglione di autoblindo), una flottiglia fluviale, varie unità antiaeree nonchè reparti della milizia di partito di Szalasy per un totale di almeno 33.000 uomini in armi. Tra le divisioni nominalmente tedesche che presidiavano la città (39.000 uomini), figuravano inoltre le Waffen-SS ungheresi della 22a Divisione «Maria Theresa». In totale, circa 50.000 Ungheresi e 20.000 Ger¬manici.
In precedenza, anche la popolazione civile era stata mobilitata da Szalasy per i lavori di fortificazione: le colline erano ora costellate di «tane di lupo», e tutta la città era disseminata di bunker, trincee, fortini, nidi di mitragliatrici, campi minati, reticolati e sbarramenti anticarro; gli edifici più robusti erano stati trasformati in capisaldi, e le gallerie della metropolitana in rifugi antiaerei; in generale, ogni casa ed ogni strada dovevano diventare centri di resistenza ed alcune posizioni in particolare — come l’imponente Castello di Budapest, la Stazione Est, il Mercato dell’8a zona ecc. — erano destinati ad essere difesi all’ultimo sangue, mentre le imbarcazioni fluviali, armate di cannoni e pezzi antiaerei, proteggevano i ponti tra Buda e Pest.
Per gli Ungheresi, la difesa a oltranza di Budapest rappresentò quel che l’insurrezione di Varsavia era stata per la resistenza polacca: il momento più tragico e più alto della volontà di lotta e dello spirito di sacrificio di una Nazione in armi, un’epopea di lotta popolare animata da un coraggio fanatico e disperato. «Quell’accozzaglia di reparti improvvisati e male istruiti si batté eroicamente ... Ben presto gli assediati sentirono la deficienza di vettovagliamento e di munizioni, che si tentò di attenuare con qualche rifornimento a mezzo di paracadute ed aeroplani. La difesa, nonostante tutte le difficoltà, fu ostinata: un esempio di eroismo fu costituito dalla lunga difesa della Stazione Est, eseguita da poche unità tedesche ed un¬gheresi, composte in gran parte da ragazzi quindicenni: tale resistenza costò in pochi giorni al Maresciallo Mulino vski quattro divisioni». (8)
I Sovietici sottoposero la città-fortezza a pesanti bombardamenti aerei e di artiglieria nel tentativo di ammorbidirne le difese: «Budapest è uno sterminato desento di macerie, di case sventrate, di ciminiere mozze e annerite dagli incendi, di strade sconvolte, di palazzi bruciati, di giardini arati dai colpi dell’artiglieria: i lungofiume del Danubio sono spazzati ora dagli attacchi dei cacciabombandieri ora dalfuoco concentrato delle katiusce». (9) Il 25% delle case era ormai distrutto, oltre la metà dei civili viveva sottoterra in grotte, cantine e gallerie della metropolitana, i telefoni avevano cessato di funzionare, mancavano la luce e il gas, scarseggiavano persino il pane e l’acqua potabile, ma, nonostante i continui assalti e bombardamenti, Budapest resisteva. I Sovietici riuscirono a penetrare nella città, ma la ostinata resistenza dei Magiaro-Germanici, le strade minate, ed il fuoco preciso dei giovani cecchini delle Croci Frecciate rendevano l’avanzata lenta ed esasperante. Mentre infuriavano i combattimenti lungo il perimetro difensivo, nuclei della resistenza riuscirono ad organizzarsi e ad infiltrarsi nella città assediata ffettuando attentati e azioni di sabotaggio. Questi piccoli nuclei, isolati e braccati, si appoggiavano soprattutto sulla locale comunità ebraica (circa 95.000 persone, secondo alcune fonti) e questo provocò pogrom antisemiti da parte della popolazione fino a che le autorità crocifrecciate non decisero di mobilitare gli ebrei come lavoratori per opere di difesa.
La pressione sovietico-romena dall’esterno si faceva intanto sempre più forte, e nella prima metà di Gennaio l’Armata Rossa riuscì, a prezzo di grandi sacrifici e di altissime perdite, a conquistare i quartieri di Csepel e Ujpest e la Stazione Est — dove particolarmente. accanita fu la resistenza dei giovanissimi volontari delle Croci Frecciate. Persino uno storico marxista come Herbert Aptheker ècostretto a riconoscere — seppure a denti stretti — il valorè dei combattenti un¬gheresi a Budapest: «le truppe fasciste ungheresi sotto il comando del sadico folle Szalasy, e a fianco di divisioni scelte dell’Armata nazista, resistettero per 50 giorni all’attacco generale sferrato dall’Armata Rossa: per quasi due mesi le forze fasciste riuscirono a mantenersi nella città — una città di pià di un milione di abitanti, in¬vestita da una battaglia che superò per durata e accanimento l’estrema resistenza di Hitler a Berlino.».
Contemporaneamente, altre forze dell’Asse, schierate a 30-40 Km a Ovest di Budapest, tentavano con una serie di contrattacchi di rompere l’accerchiamento nemico e di raggiungere la città assediata — obbiettivo mancato di poco il 1° Gennaio 1945 — per riportare il fronte ungherese verso est. Tra queste unità figuravano notevoli forze magiare della Honved, comprendenti una divisione corazzata, una di cavalleria e tre di fanteria.
Nella città assediata, le unità della Honved si logoravano nel corso di feroci combattimenti e, ormai decimate ed esauste, cominciavano a lasciare aprire qualche falla nella difesa, tamponata sempre più spesso dai reparti della milizia crocifrecciata e dalle SS ungheresi. Nella seconda metà di Gennaio, sotto la soverchiante pressione dei Sovietico-Romeni, i difensori dovettero evacuare la parte orientale della città: «Si ritirarono oltre il Danubio ad Ofen (Buda) dove, alla fine, non tenevano che il Castello: la lotta non aveva alcun senso, ma i soldati si difesero eroicamente fino all’ultima cartuccia” (11)
Nel corso della battaglia si raggiunsero eccessi di autentica ferocia. I parlamentari che proponevano la resa ai difensori vennero accolti a fucilate. Gli assedianti, naturalmente, non furono da meno: per esempio, quando l’Albergo Gellert, trasformato in ospedale, dovette arrendersi per aver esaurito i viverj, i Sovietici appiccarono il fuoco all’edificio dopo averne accuratamente cosparso i locali di benzina, bruciando vivi centinaia di feriti, medici ed infermien.
L’ultima resistenza magiara si concentrò nel quartiere Gellertberg, e impegnò i Sovietici per quasi tre settimane. Infine, l’11 Febbraio 1945, in una sortita disperata, i difensori si gettarono verso ovest nel tentativo di sfondare il cerchio d’assedio e di raggiungere le linee magiaro-tedesche. Circa 40.000 tra militari e civili ungheresi e soldati tedesche si lanciarono ad ondate successive contro le posizioni fortificate sovietico-romene, facendosi falciare dall’artiglieria e dalla fanteria nemiche: solo 785 riuscirono a passare, raggiungendo la salvezza al di là delle linee.
Tra le rovine di Budapest restavano a combattere solo poche unità, ormai stremate, e circa 10.000 feriti. Il 12 Febbraio i Sovietici, scatenato un pesante bombardamento d’artiglieria, lanciarono l’assalto finale, riuscendo a concludere l’occupazione della città entro la mattina seguente.
Le truppe ungheresi, comunque, continuarono a battersi anche dopo la ca¬duta di Budapest. La 2a Armata era stata sciolta ed i suoi reparti superstiti assegnati alla 1a ed alla 3a Armata, od aggregati ad armate germaniche. La 1a Armata si ritirò in Moravia, mentre la 3a tenne il campo nell’Ungheria nord-occidentale: la «1a Divisione Ussari», in particolare, si sacrificò interamente. Ancora nel Marzo 1945 i Tedesco-Magiari lanciarono un’ultima, disperata controffensiva e, successivamente, difesero strenuamente l’Ungheria occidentale. Le forze magiare non deposero le armi nemmeno dopo che l’Armata Rossa ebbe completato l’occupazione dell’intera Ungheria. Il governo nazionalsocialista ungherese si stabilì a Vienna, gli ultimi reparti aerei continuarono ad operare dalle basi dell’Austria, mentre le superstiti divisioni magiare proseguirono la lotta sul territorio del Reich fino alla fine della guerra — a Vienna, a Breslau, a Kustrin, sull’Oder, e sul confine austrojugoslavo. Nell’Ungheria occupata, infine, bande di Croci Freccia-te davano vita alla guerriglia.
Con l’occupazione sovietica, un’ondata di orrore si abbattè su tutto il Paese. I crimini di guerra commessi allora contro il popoìo ungherese dall’Armata Rossa costituiscono uno dei capitoli della Seconda Guerra Mondiale che la storiografia ufficiale si rifiuta ancora di approfondire.


* * *


Questa dunque la verità sulla rivolta d’Ungheria del ‘56, sulle sue ragioni storiche, sulle sue connotazioni ideologiche. Una verità che va testimoniata, in omaggio all’orgoglio, alla nobiltà e all’eroismo del popoìo ungherese. Ma anche una verità che va testimoniata a denuncia delle menzogne e dei silenzi di una stampa, di una televisione, di una intera «cultura» che la maggior parte della gente crede in buona fede, siano «libere» e «pluralistiche» e che invece soffocano, strozzano e uccidono ogni giorno la verità. Quel che appare veramente diabolico — diabolico in quanto umanamente «incredibile» — è non tanto la capacità di distrorcere. i fatti, cioè di mentire, quanto quella di raggiungere un accordo totale nel tacere i fatti. Difficile dire se la decisione di seppellire un evento di cronaca o di storia sotto una coltre di silenzio sia presa tacitamente da tutti — tutti insieme, senza una eccezione! — o se essa sia piotata. Vogliamo qui dare un esempio — in omaggio ad un altro eroico popolo europeo, quello croato — di questi incredibili «giochi di squadra» della intera rete mondiale dei mass-media. il 26 febbraio 1986, l’ottantasettenne Andrija Artukovic, già Ministro dello Stato croato durante l’ultimo conflitto mondiale, è stato estradato dagli Stati Uniti in Jugoslavia per esservi processato come «criminale di guerra» (e condannato a morte il 14 maggio). Del fatto fu dato sulla stampa d’ogni Paese ampio rilievo. Da allora, in decine di Paesi del mondo, le comunità di esuli croati hanno inscenato manifestazioni di protesta contro gli U.S.A. Nel corso di una di queste manifestazioni, tenuta a Toronto in Canada da una folla di migliaia di Croati, uno di essi, Marko Djukic, si cosparse gli abiti di benzina e si diede fuoco davanti all’Ambasciata americana «per attrarre l’attenzione del mondo» sull’iniquità di un processo che non può offrire alcuna garanzia di legalità e di giustizia. Eroismo tragicamente inutile: non un solo grande quotidiano, non una rivista di vasta tiratura, non un telegiornale che abbiano dato eco al suo gesto drammatico e spettacolare. Non uno. Ricordiamo tutti le migliaia di fotografie e di servizi su Jan Palach a Praga, o sui bonzi buddisti in Vietnam. Ora, chi decide che Marko Djukic non deve, assolutamente, fare notizia, e gli altri si? Che il suo gesto deve essere tenuto nascosto? Che la vita, che il sacrificio supremo di un uomo che crede nel suo popoìo e nella sua libertà contano meno di niente? Qualcuno che lo decide deve pur esser-vi. E tutti quelli disposti ad obbedire, devono anche esservi. Bene, è questa la gente che ci spezza ogni giorno sul gran tavolo della democrazia il pane della verità, perchè se ne possa ingoiare solo la prevista razione. Ma la verità, o è tutta, o non è. E senza conoscere la verità, come faranno mai gli uomini di questa società «libera» a raggiungere opinioni e convinzioni proprie, cioè libere?
Senza conoscenza — come senza cultura — non può esservi libertà. Con buona pace di Popper, e di tutti gli altri intellettuali servi interessati del sistema, che in ossequio ai «Padroni» ci vengono a raccontare che questa società, è, moralmente parlando, la migliore possibile. Una società che possiede la forza di pianificare — senza una ribellione, senza una crisi di coscienza — il «razionamento della verità» attraverso migliaia e migliaia di quotidiani, riviste ed emittenti radiotelevisive, è una società mostruosa, immorale e inumana.

Marzio Pisani

(1) David Irving – Ungheria 1956. La rivolta di Budapest – Mondadori – Milano 1982, pag. 37. Per l’antisemitismo nell’Ungheria del 1956 vedi tutto il IV° capitolo.
(2) Herbert Aptheker, La verità sull’Ungheria – Parenti Editore – Firenze 1958, pag. 89.

(3) Herbert Aptheker, op. cit. pag. 382.

(4) Herbert Aptheker, op. cit. pag. 322.

(5) Herbert Aptheker, op. Cit. pag. 380.

(6) Herbert Aptheker, op. Cit. pag. 379.

(7) Per il coinvolgimento di Croci Frecciate, hortysti e altri fuoriusciti vedi Herbert Aptheker, op. Cit. Cap. VIII° e IX°. Il testo è fondamentale per conoscere la versione e l’interpretazione dei fatti di parte comunista.

(8) Walter Hagen, La guerra delle spie, Garzanti Ed. – Milano 1952 – pag. 253.

(9) Enzo Biagi, La seconda Guerra Mondiale una storia di uomini, Gruppo Editoriale Fabbri – Pag. 2287.

(10) Herbert Aptheker, op. Cit. pag. 52. E’ degno di note il fatto che I Sovietici stimarono le forze dei difensori (in realtà poco più di 70.000) intorno ai 180-200.000 uomini.

(11) Walter Hagen, op. cit. – pag. 254.

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