mercoledì 9 dicembre 2009

In ogni essere umano vi sono molte più cose di ciò che non appaia, e che lui stesso sappia


di Francesco Lamendola

Gli esseri umani agiscono: è nella loro natura; e, anche se non lo fanno, vengono a trovarsi in determinate situazioni e circostanze, inevitabilmente, per il semplice fatto di esistere, di essere vivi nel mondo. Ciò è sufficiente a farli classificare, dai propri simili, in base agli atti che compiono o alle situazioni in cui si trovano, senza andare troppo per il sottile, senza indugiare a domandarsi quanto, di realmente loro, vi sia in quegli atti, in quelle situazioni.

E anche questa è una legge di natura. Noi tendiamo a semplificare, a semplificare tutto, in base alle categorie del nostro utile immediato e della nostra pigrizia intellettuale e morale. E, semplificando oltre ogni limite accettabile, finiamo per stravolgere il volto dell'altro, sino a trasformarlo in una maschera irriconoscibile, surreale. Egli non è più se steso: è diventato un fantasma, un fantasma che risponde ai nostri bisogni, alle nostre aspettative, ai nostri timori: qualche cosa che esiste soltanto nella nostra immaginazione, non nella realtà.

Allo stesso modo e con i medesimi meccanismi psicologici che ci spingono, istintivamente, a catalogare piante e animali in nostri amici o nostri nemici, così noi appiccichiamo una etichetta addosso ai nostri simili, inchiodandoli, una volta per tutte, ad un ruolo unico, costringendoli a interpretare sempre la stessa parte.
Questo è particolarmente evidente nelle biografie dei personaggi famosi. Alessandro è il conquistatore dell'Impero Persiano, Carlo Magno il fondatore del Sacro Romano Impero di nazione germanica, Mussolini il fondatore del fascismo e il ventennale dittatore dell'Italia. Bach, Mozart, Beethoven sono i musicisti per eccellenza; Tiziano, Monet, Van Gogh, sono i pittori; Platone, San Tommaso, Kierkegaard sono i filosofi; e così via. Oppure, si pensi agli sportivi, agli uomini di spettacolo: Carnera è il pugile, Merckx è il ciclista, Maradona è il calciatore; mentre Nurejev è il ballerino, Greta Garbo è l'attrice, Barbara Streisand è la cantante.

Ma si tratta di una serie di semplificazioni, questo è certo: e ne siamo consapevoli. Solo che, per comodità e per pigrizia, non siamo disposti a riconoscere apertamente che ciascuno di questi uomini e di queste donne è stato qualche cosa di più, anzi, certamente, molto di più, del ruolo pubblico che ha interpretato nella storia.
Vi è sempre, nell'essere umano, una parte profonda, una parte potenziale, che non è visibile al primo sguardo e che non ha nulla a che fare con il ruolo sociale o professionale; una parte che non si esaurisce negli atti compiuti, nelle parole pronunciate, fossero pure gli atti più spettacolari e le parole più sublimi.
La psicanalisi freudiana ha sviluppato questa intuizione in una sola direzione, quella dell'inconscio personale, e sotto un'unica prospettiva, quella sessuale; per di più, partendo da premesse totalmente opinabili: un materialismo e un razionalismo tanto dogmatici quanto ottusi, negando con zelo quasi fanatico ogni spiraglio di trascendenza. Freud ha esplorato solo le cantine maleodoranti e tenebrose della personalità umana; non ha tenuto conto dei piani superiori, non ha tenuto conto del Cielo spalancato sopra di noi, né del legame profondo, indissolubile, che allaccia ogni essere vivente a tutti gli altri, al cosmo intero.

Al di là dei nostri pensieri e delle nostre azioni coscienti; al di là delle nostre pulsioni inconsce, vi è ancora una infinita ricchezza, una infinita gamma di possibilità all'interno dell'essere umano; vi sono stanze luminose che non sono mai state esplorate, balconi e finestre di cui ignoriamo addirittura l'esistenza e che non sappiamo vedere nell'altro, perché non sospettiamo nemmeno di possederli all'interno della nostra stessa anima.

Una volta, nella scuola dove insegno, si verificarono dei furti di denaro. Ne parlammo in classe, e feci molta fatica a convincere alcuni ragazzi che l'autore di quei furti - certamente uno di loro, rimasto però ignoto - non meritava la pura e semplice qualifica di ladro. Durai fatica a trasmettere il concetto che nessuno di noi merita di essere inchiodato per sempre ad un singolo atto della propria vita, giusto o sbagliato che sia sotto il profilo morale; che in ciascuno di noi vi sono molte più cose di quanto non traspaia all'esterno o di quanto si possa supporre in basi ai nostri singoli comportamenti e alle nostre singole azioni.

Non mi riferisco solo al discorso delle innumerevoli maschere che noi ci mettiamo sul viso, o che altri ci impongono, come sosteneva Pirandello; ma a qualche cosa di molto più profondo, di molto più essenziale, inerente alla condizione umana in quanto tale, alla sua struttura ontologica originaria. Mi riferisco al fatto che ciascuno di noi ha, in se stesso, fin dal concepimento, infinite potenzialità e, quindi, infinite possibilità: una serie soltanto delle quali si realizzerà, per un concorso di circostante interne ed esterne; senza, però, che le altre cessino di esistere, e sia pure allo stato latente.
In altri termini, noi dobbiamo sempre ricordarci che in ogni essere umano non vi è solo quello che egli sente, pensa, dice e compie; non vi è solo quello che giace nel suo inconscio personale; non vi è solo quello che noi vediamo di lui, o che egli medesimo vede e comprende di se stesso: ma di più, molto di più.

In ogni essere umano vi è la possibilità di un'infinita realizzazione, di una infinita perfettibilità, di una infinita auto-trascendenza. Ogni singolo essere umano è un mistero enorme, insondabile: un mistero sacro, perché in lui è stato impresso il sigillo dell'Essere. Davanti a un tale mistero ci si dovrebbe accostare in punta di piedi, con timore e tremore, e con la consapevolezza che la parte a noi visibile, e che siamo così abituati a giudicare, è meno ancora della punta dell'iceberg: perché la parte sommersa dell'iceberg, per quanto grande, è pur sempre finita, mentre qui stiamo realmente parlando di qualcosa di infinito.

Davanti all'infinito, ogni persona dotata di intelletto e consapevolezza dovrebbe sentirsi piccola, inadeguata, perfino indegna. Ebbene, c'è un mistero infinito in ogni essere umano, in ogni anima umana - anzi, in ogni vivente; ma questo è un discorso più ampio, che richiederebbe un apposito discorso, per il quale non è questa la sede adatta.
Essere coscienti di questo mistero, di questa profondità, di questo abisso, non equivale in alcun modo ad una forma di giustificazionismo ad oltranza. Certo che la società deve difendersi dai ladri; ma ciò non significa che sia lecito classificare sotto una etichetta sbrigativa un'anima umana, in base ad un singolo gesto o ad un singolo comportamento. A ciascuno il suo mestiere: ai giudici quello di giudicare; agli esseri umani come tali, senza specificazione di sesso, di età, di professione o altro, quello di cercare di comprendere.

Persino mentre sta compiendo la più esecrabile delle azioni, l'essere umano non si esaurisce in essa; così come non si esaurisce nell'attuazione del gesto più nobile e sublime. C'è sempre un resto, un residuo, che - è lecito sospettarlo - costituisce ancora e sempre la parte infinitamente più ampia, che non si esaurisce in quel gesto, in quella parola, in quella attività.
La verità è che non esiste un io personale, ma, piuttosto, un io effimero ed illusorio, che è parte del Tutto e che quanto più si crede distinto e separato da esso, tanto più tende a pensare e ad agire in maniera arbitraria e contraddittoria, inadeguata e insoddisfacente. Non c'è niente di più fuorviante di un io che si crede indipendente dal Tutto, e che, sulla base di questa supposta indipendenza, pretende di agire a titolo personale.
Noi siamo sprofondati nell'ignoranza: non sappiamo vedere, non sappiamo ascoltare, non sappiamo minimamente organizzare i dati della nostra esperienza; eppure pretendiamo di capire e addirittura di giudicare gli altri, quando siamo così inconsapevoli perfino di noi stessi.
Per avere una percezione più veritiera di cosa sia l'essere umano, dovremmo sempre ricordarci che è doveroso vedere in lui non solo ciò che egli è, ma anche quello che potrebbe essere; così come si dovrebbe rispettare nel bambino anche l'adulto che sarà domani.
Un pragmatismo miope e riduttivo ci ha abituati a non prendere in considerazione se non le cose immediate e, inoltre, a valutarle solo nella misura in cui ci possono tornare utili. Ma per capire qualcosa dell'essere umano, bisogna guardare al di là del dato immediato.

Al contrario, le cose più preziose sono quelle che non si vedono; le cose più importanti, quelle che si misurano sul metro del distacco, non del possesso.
Per realizzare la propria evoluzione spirituale, l'anima umana ha bisogno di passare attraverso una serie di prove severe, che culminano nell'accettazione della rinuncia all'io e della rinuncia all'attaccamento all'esistenza fisica. Solo quando l'anima è pronta ad affrontare serenamente un tale passo, si può dire che la sua evoluzione spirituale sia compiuta.
Insistiamo sulla scelta di questo participio: «compiuta», nel senso etimologico di conclusa secondo la propria natura; così come diciamo «perfetta» una cosa che è stata portata a compimento. La mistica francese Marthe Robin, che visse per anni ed anni senza toccare cibo né bevanda (cosa giudicata impossibile dalla scienza materialista), che uomini illustri come Jean Guitton ebbero il privilegio di conoscere, parlando di una persona che era morta, diceva semplicemente: «Allora, è compiuta». Si rifletta a lungo sul senso di questa espressione, e lo si troverà meraviglioso.
Come ha osservato l'illustre psichiatra americano M. Scott Peck nel suo libro «The Road Less Traveled» ,1978; traduzione italiana di Franca Castellenghi Piazza, intitolata «Voglia di bene», Edizioni Frassinelli, 1985, p. 60:

«Molti considerano [la rinuncia] dell'io e della stessa vita una sadica crudeltà da parte di Dio o del destino che fa della nostra esistenza una specie di brutto scherzo, e si rifiutano di accettarla. Questo atteggiamento è soprattutto diffuso nella cultura occidentale, per la quale l'io è sacro e la morte è un indicibile insulto. È vero invece il contrario, è precisamente della rinuncia al proprio io che gli esseri umani traggono la gioia più estatica, profonda e durevole della vita. In questo "segreto" sta la grande saggezza della religione.»

Ricapitolando.

L'essere umano non può mai vedersi ridotto alle dimensioni del suo io empirico, delle sue azioni e delle sue manifestazioni apparenti. In lui vi è una parte profonda e potenzialmente illimitata, che esige rispetto per la sua dimensione sacra. Offendere l'essere umano, per quanto indegno e colpevole possa risultare il suo comportamento, equivale a insultare questa sua sacralità interiore, che nessuno ha il diritto di ledere o sminuire.

Al tempo stesso, una vita umana può dirsi tanto più riuscita, quanto più essa si è applicata al compito della propria evoluzione spirituale; e, per giungere a tanto, è necessario che essa impari a spogliarsi dell'io e del proprio attaccamento cieco alla vita, intesa come dimensione materiale e come soddisfacimento di esigenze puramente edonistiche.

In questo senso, è perfettamente vero quel che diceva Platone: essere la filosofia, cioè, null'altro che una preparazione alla morte. Prepararsi alla morte fisica, significa predisporsi nel giusto stato d'animo alla tappa finale del nostro viaggio: che non è il nulla, ma quella pienezza cui tende l'anima umana con tutta se stessa, e, rispetto alla quale, anche il bene terreno più grande appare sempre incompleto e insoddisfacente.
Il fiume non teme di compiere l'ultima tappa del proprio viaggio, ovvero gettarsi nel mare; così come l'acqua non teme di affrontare il salto vertiginoso della cascata, perché non si tratta che di una tappa di avvicinamento alla propria meta. Ogni cosa tende al conseguimento della propria meta e del proprio fine; ogni cosa tende a realizzarsi trascendendosi. Il seme deve morire per diventare pianta; il bruco deve scomparire, per rinascere come variopinta ed elegantissima farfalla. Ogni cosa corre verso la propria fine per realizzare il proprio compimento, per spostarsi su un piano più elevato.
Tale è il destino dell'anima, tale il senso del suo viaggio terreno.

Ma per affrontarlo con forza e con letizia, è necessario che l'anima, prima, riconosca pienamente se stessa: vale a dire, riconosca di avere in sé molte più cose di quelle che traspaiano dalle sue parole e dai suoi atti; di avere in sé una dimensione sacra, ineffabile e tale da metterla in comunione con tutta l'infinita pienezza ed armonia dell'Universo.

www.ariannaeditrice.it

tratto da: http://www.mentereale.com/articoli/in-ogni-essere-umano-vi-sono-molte-pi-cose-di-cio-che-non-appaia-e-che-lui-stesso-sappia

Nessun commento:

Posta un commento