venerdì 13 novembre 2009

L'anno in cui il mondo finì/3 - Una falce sulla Tour Eiffel



Franco BANDINI

tratto da: Il Sabato, 16.9.1989, n. 37, p. 87-97.

Stalin invade la Finlandia e Hitler scatena la forza d'urto della Wehrmacht in giro per l'Europa. Fino all'attacco su Parigi


La "phoy war", o "guerra in sordina", o "guerra degli altoparlanti", o "drôle de guerre", o comunque sia stata chiamata allora, dura sino al 9 aprile 1940, sino al momento in cui forze tedesche assai esigue ma audacemente manovrate occupano Danimarca e Norvegia, precedendo di un soffio un'analoga operazione anglo-francese studiata con le consuete lentezze, irresolutezze ed anche disinvolture tipiche degli Stati Maggiori e dei politici delle due democrazie. Vedremo il profilo ed il perché di questa stravagante svolta così periferica, ma forse è meglio esaminare prima proprio la "guerra in sordina", poiché i suoi sette mesi sono ricchissimi di insegnamenti, anche se si fa sempre finta di ritenere che durante quel lungo periodo non sia successo nulla.

Invece ci sono molte cose da dire, a cominciare dal fatto che nessuno si muove semplicemente perché nessuno ha un piano. Ci sono soltanto i limiti non scritti e non descritti, ma tassativi, entro i quali ciascuna Potenza impegnata intende mantenere gli avvenimenti. E da questi limiti che nascono le strategie, ed è su questo punto che la Seconda guerra differisce tanto dalla prima. Nel 1914, tutte le Potenze hanno gettato nel conflitto, e subito, ogni loro risorsa impegnandola fino allo spasimo in un vero e proprio cozzo di tori infuriati. Il costo spaventoso delle tragiche esperienze maturate sul campo, da Tannenberg a Ypres, da Gallipoli a Verdun, dalla Somme al Piave, filtra sui figli attraverso i racconti dei padri e modifica profondamente il carattere del secondo conflitto. Tra quei padri, ci sono i politici, soprattutto i generali, passati allora attraverso l'inferno di quelle battaglie. Per cui nella Seconda guerra si realizza uno speciale accordo silenzioso tra masse e capi, basato sul rifiuto inconscio o semiconscio non tanto della guerra, quanto di "quel tipo" di guerra. Differenza sottile ma importante, perché essa condiziona di sé l'intera gestione del conflitto, coi suoi splendori e le sue miserie, le sue contraddizioni apparenti.

Nel 1939 il periodo delle "masse grigie" è alle spalle in tutto il mondo civile. Son già nati i tecnici, gli specialisti e con loro son nati i motori, le radio, i telefoni, e perciò un nuovo tipo di consapevolezza e di rapporto con la realtà. Se si deve andare alla guerra, si va alla guerra ma, per la prima volta nella storia, col sottinteso che per fare un uomo ci vogliono vent'anni, e per un carro armato venti ore. Il carro è spendibile, l'uomo no.

Da questo punto di vista, la strategia più razionale del secondo conflitto è quella britannica, benché tutte le altre seguano ad una corta incollatura. Londra ha mandato sul continente, tra il 1914 ed il 1918, probabilmente più di 190 divisioni, ma ora, all'inizio del secondo conflitto, ne molla soltanto due, salite poi faticosamente a cinque, ed a sette nella primavera del 1940. Il loro compito non è quello di combattere, ma di rincuorare i francesi, dicendo loro "siamo qui anche noi".

Al momento in cui cominceranno a fischiare le pallottole, esse ripiegheranno prontamente sui porti della Manica in esecuzione di ordini che non hanno nulla a che vedere con la pericolosità dell'attacco tedesco, ma che son dettati esclusivamente dal fermo desiderio di non invischiare mai più in una battaglia terrestre le forze britanniche. Tra il 27 ed il 28 maggio del 1940 c'è un momento in cui tutto sta appeso ad un filo, a Londra: se il Corpo di Spedizione riuscirà a rientrare in Inghilterra, si rimarrà in guerra. Se sarà catturato, ci si metterà d'accordo con Hitler. Vedremo il come ed il perché.

In realtà, la scelta irrevocabile inglese è quella di una strategia periferica, basata sul tentativo di attrarre le riserve centrali tedesche il più lontano possibile dal cuore dell'Europa, in modo da disperderle e logorarle. Tradotto nella pratica, questo metodo comporta fatalmente di attizzare fuochi di guerra dovunque sia possibile, profittando di un dominio marittimo che consente di spostarsi con facilità lungo tutta la periferia. Comporta anche l'identificazione dei punti deboli del nemico, secondo il vecchio principio del «battili dove non sono»: purtroppo per noi italiani, il punto debole più vistoso dell'Asse è proprio lo Stivale, e gli inglesi vi ricercheranno con tenacia, preveggenza e successo quelle occasioni che l'enorme potenza ed alta qualità della "Wehrmacht" negano altrove. Il nostro orgoglio nazionale ci impedisce di distillare il succo profondo di alcuni sintomi: ma è un fatto che la Flotta britannica del Mediterraneo mette a punto già nelle manovre del 1936 quel piano di aerosiluramento delle navi da battaglia italiane che avverrà nella "notte di Taranto", quattro anni dopo. Ed un altro fatto è che i piani di sbarco dell'operazione "Influx", lo sbarco in Sicilia, sono già pronti alla fine del 1940, sulla premessa che l'isola offrirebbe "grandi opportunità". Che poi son quelle che Anthony Eden codifica in una frase lapidaria: "Preferiamo avere l'Italia nemica, anziché amica". Linea di condotta che ci causerà una sequela di disgrazie.

Una strategia periferica sta in piedi soltanto se c'è qualcuno disposto a "tenere il fronte" sul Continente. E questo qualcuno, per gli inglesi, è la Francia. Ma la Francia non ha piani, perché non ha i mezzi per farne funzionare nessuno, neppure limitato. Si può ben essere coinquilini della glorie ed avere tra i propri avi Napoleone, ma nulla può porre riparo al fatto che i francesi sono quaranta milioni ed i tedeschi quasi il doppio. Perciò la Francia combattente si seppellisce nella Linea Maginot, dimenticando che essa è stata costruita allo scopo principale di risparmiare sul Reno quelle forze cospicue che dovrebbero funzionare da massa di manovra.

Anche Hitler è senza piani, ed è anche il solo a sapere che la posizione della Germania è critica al punto da non lasciare alcuna via di uscita reale. I suoi avversari e l'Unione Sovietica, provvisoriamente amica, divengono ogni giorno più forti e lo spazio centroeuropeo è troppo angusto per una manovra a linee interne. Attaccare la Russia significa immobilizzare la "Wehrmacht" per un minimo di tre o quattro mesi su quelle lontanissime terre, e fornire ai francesi un'occasione irripetibile. Attaccare i francesi è soltanto un po' meno pericoloso, richiedendo sei settimane: ma immobilizzerebbe egualmente l'esercito ad ovest, e Stalin sarebbe uno sciocco a non approfittarne, allungando le mani troppo vicino alle fonti di petrolio rumene, al Baltico, ai Balcani meridionali. In nessun caso sarebbe comunque possibile sbarcare in Inghilterra: perché conquistare Londra con le ingenti forze necessarie obbligherebbe Stalin a piombare su Berlino. Quello della guerra è un gioco duro, e vi sono ammessi soltanto i piccoli sbagli. Quelli grandi sono mortali.

Neppure Mussolini ha un piano, né la voglia di farne uno. Le sue valutazioni sulle possibilità militari di questo e di quello son di regola sbagliate, il che del resto lo accomuna a molte "teste fini" inglesi, francesi e anche americane. In compenso, fiuta da buon politico - e politico socialista - un insistente "vento dell'Est", con una intuizione a lungo termine che non pare sia mai stata messa nel dovuto rilievo. E' questa l'epoca in cui crescono i suoi sfoghi contro la borghesia, colpevole di ogni nequizia, e contro la monarchia, "relitto del passato"; e contro la Chiesa, che guarda "sempre più da ghibellino". Vorrebbe eliminare questi tre ostacoli, nell'inconscio tentativo di avvicinare quello che ritiene "un fascismo slavo, dato che il comunismo è morto". Su questa strada si spinge piuttosto avanti, facendo pervenire a Mosca parecchie indiscrezioni sulle intenzioni tedesche, e persino una lettera anonima. Dichiara in pubblico di esser disposto anche "a marciare coi russi", e quando gli studenti di Milano e Torino insorgono contro il brutale attacco sovietico alla piccola Finlandia, egli li approva, autopersuadendosi che quelle manifestazioni "sembrano" contro i russi, ma invece sono contro i tedeschi. Eppure, erano proprio contro i russi, e furono una delle ribellioni più autentiche di un'opinione pubblica ancora molto legata al senso morale della Storia.

Non soltanto in Italia, perché tutto il mondo civile prende le difese della microscopica Repubblica finnica, attaccata senza motivo il 30 novembre 1939 dall'orso sovietico, in una "guerra dimenticata" le cui ragioni profonde forse non conosceremo mai: ma che ha per effetto immediato quello di ridurre quasi a zero il credito sovietico presso l'Occidente, già indignato, senza distinzioni di frontiere, per l'invasione da parte dell'Armata Rossa della Polonia orientale in appoggio a Hitler, con quello che subito i giornali inglesi chiamarono "il colpo di pugnale alla schiena". Questa espressione passerà poi alla storia come coniata da Roosevelt e Daladier nei riguardi del tardivo attacco italiano alla Francia. Con ragione. Ma sarà bene non dimenticare che essa nasce nel 1939, con un bersaglio molto diverso. I "cento giorni" della Finlandia dimostrano assai bene la difficoltà di far aderire la narrazione della Storia vera a tesi di comodo, perché essi creano quasi istantaneamente un "fronte" antisovietico, che finisce per legare sul piano psicologico le due democrazie in guerra alle due dittature europee. Unica eccezione gli Stati Uniti, e meglio sarebbe dire Roosevelt ed i suoi consiglieri, fortemente radicati già da questo momento in una visione del mondo dominata da due sole Potenze, appunto Stati Uniti e Russia. Questa visione viene di lontano, perché nasce dalle viscerali simpatie dell'opinione pubblica americana per la Rivoluzione sovietica, "scopa degli odiosi zar", e dai potenti supporti morali e materiali forniti a Lenin nelle sue fasi più critiche: si sviluppa a ridosso del secondo conflitto sulle ali di una "new left" che è contemporaneamente antinazista, antibritannica e filosovietica. Durante la guerra produrrà guasti enormi, origine prima della disgraziata situazione nella quale oggi il mondo deve acconciarsi a vivere.

Ad aiutare la Finlandia corrono tutti, Stati e cittadini, con un fenomeno almeno tanto rilevante quanto quello delle Brigate internazionali nella Spagna del 1936. Arrivano 145 apparecchi, in gran parte da caccia, acquistati a prezzo fittizio, ed altri 79 regalati: Morane francesi, Gloster inglesi, Brewster americani ed anche 35 ottimi G50 della Fiat, che i finlandesi ribattezzano "Fijju", impressionati dalla velocità sibilante. Ma ci sono, oltre alle macchine, anche i volontari, danesi, norvegesi, svedesi, tedeschi, spagnoli, italiani, americani: nasce una grossa Squadriglia internazionale, e nasce il progetto di un Corpo d'armata autonomo al comando di Kermit Roosevelt, personaggio "prezzemolo" che si ritrova qua e là, un po' in tutte le vicende della guerra, come accade al suo omologo britannico, Randolph Churchill: entrambi più occhi ed orecchie dei loro illustri parenti che uomini d'azione autonoma.

Come si sa, la Finlandia regge eroicamente fino al marzo del 1940 contro forze russe che salgono durante i cento giorni da 36 a 50 divisioni, e da 500mila ad 800mila uomini, con 2mila carri e 2mila aeroplani. A Salla, Suomusolmj, in Carelia, sul Ladoga i disgraziati "tavarisc" cadono a centinaia di migliaia, subito incapsulati dai ghiacci perenni della notte artica. Stalin destituisce un nugolo di generali, ne fucila altri, fa bombardare Helsinki, "fa la pace" con un governo fantoccio subito istallato appena al di là della frontiera careliana, ed alla fine è costretto a contentarsi di qualche chilometro quadrato nella regione di Petsamo ed in quella di Viborg. In compenso, la Russia viene espulsa nel dicembre 1939 dalla Società delle Nazioni all'unanimità. Particolare così trascurabile e così poco citato, che il parlarne oggi sembra pura malvagità.

Questa "guerra d'inverno" non soltanto consolida nelle democrazie occidentali e nello Stato Maggiore tedesco un giudizio fortemente negativo sulle capacità dell'Armata Rossa, ma innesca una stupefacente cascata di piani anglo-francesi, molto confusi e molto incauti, il cui obbiettivo finale è quello di "punire" la Russia anche a costo di guerra. Non sapremmo quasi nulla di questi progetti, la cui esecuzione avrebbe potuto cambiare il corso della storia, se nel giugno del 1940 i tedeschi avanzanti in Francia non avessero trovato a La Chiarité un treno abbandonato di una ventina di vagoni, carichi dell'intero archivio dello Stato Maggiore francese. I documenti vengono passati al setaccio, e sottoposti ad Hitler, il quale ordina la pubblicazione di una ventina di essi, tenendosi in mano gli altri come arma di ricatto: poiché, come ognuno sa, un ricatto funziona soltanto se non esplode. Dopo, non serve più. A riprova, si può ben rilevare che i documenti di La Charité sono scomparsi nel nulla: giacciono sicuramente in qualche archivio "chiuso", dove continuano a funzionare allo stesso modo.

I piani francesi ed inglesi erano due. Allo scopo un po' ipocrita di aiutare la povera Finlandia, si sarebbe sbarcato un Corpo di spedizione in Norvegia e poi, chiedendo libero transito ed appoggio alla Svezia, lo si sarebbe fatto arrivare in Finlandia. Tutto questo avrebbe avuto come premio la possibilità di interrompere i vitali rifornimenti di ferro svedese alla Germania, nonché di sbarrare con estesi campi di mine le neutrali acque costiere norvegesi che servivano così bene ai sommergibili tedeschi per sboccare in Atlantico attraverso lo Stretto di Danimarca. I politici inglesi, Churchill alla testa, erano assai attirati da questo gruppo di idee dalle quali si ripromettevano grossi successi a basso costo: obbligare Svezia e Norvegia ad una scelta di campo, minacciare da Nord il Baltico, tranquilla area per l'addestramento delle unità navali tedesche, asfissiare la Germania nei suoi rifornimenti, chiudere col catenaccio il Mar del Nord ed infine aiutare la Finlandia a dare una buona legnata al potente vicino.

I militari britannici, per la fortuna dell'Inghilterra, erano assai meno disposti a questi voli di fantasia di stampo churchilliano. Per essi questa "caccia all'anatra finlandese" presentava pochissimi vantaggi, con l'inconveniente gravissimo di rompere i ponti con la Russia, il che, per prima cosa, avrebbe destabilizzato all'istante il Medio e l'Estremo Oriente. E c'erano troppe poche navi, per controllare lo scoppio del barile di polvere.

L'altro piano, ancora più stravagante, era il bombardamento dei pozzi sovietici di Bakù, dai quali fluiva quell'ottimo petrolio che poi Hitler utilizzava per la sua macchina bellica. In correlazione, si sarebbe anche creato un «fronte balcanico» basato su un centinaio di divisioni da raccogliersi tra Grecia, Turchia, Jugoslavia e forze franco-inglesi dalla Siria e dall'Egitto. Una potente Armata d'Oriente, potente sulla carta, che avrebbe potuto richiamare altrettante grandi forze tedesche, distraendole dal fronte principale del Reno: e questa era la ragione per la quale i francesi guardavano con grande favore questo progetto. I piani erano così avanzati che i russi, maestri nel procurarsi informazioni di prima mano, chiesero ad un gruppo di ingegneri texani cosa si sarebbe potuto fare in caso di incendio dei loro pozzi caucasici. Furono annichiliti dalla risposta: "assolutamente niente".

In questi programmi balcanici c'è un punto che non è mai stato considerato in tutte le sue implicazioni. Ed è che Parigi e Londra cercarono di tirar dentro nell'affare la Turchia, nazione fieramente antirussa, ma non tanto stupida da provocare la pioggia senza avere ombrelli adeguati. Ombrelli, gli alleati ne potevano aprire ben pochi, specie in quel lontano teatro, ma largheggiarono nei "compensi", il principale dei quali era il ritorno nel seno turco di Rodi e di tutto il Dodecanneso. Ma quelle belle isole erano italiane fin dal 1912, ed il nostro diritto ad averle in pianta stabile era stato solennemente sancito nel 1918. Si trattava dunque della classica pelle dell'orso, a meno che i franco-inglesi non dessero per scontata non solo l'entrata in guerra dell'Italia, ma anche la sua rovinosa sconfitta entro breve tempo. Però in quell'inverno a cavallo tra il 1939 ed il 1940 era casomai sicuro, o quasi, che l'Italia non sarebbe entrata in guerra di sua iniziativa: per cui questo mistero rimane ancor oggi tale, unito all'altro aspetto della medesima questione, e cioè che nessuno avrebbe mai potuto preventivare operazioni di grossa taglia nel bacino orientale del Mediterraneo senza disporre di una assoluta libertà di transito lungo il Mediterraneo stesso. Queste considerazioni vanno messe in relazione col fatto che dal primo marzo 1940 gli inglesi praticamente tagliarono tutti i nostri rifornimenti in carbone tedesco che dai porti del Nord, su nostre navi, scendevano fino a Gibilterra, per scaricare a Genova o Napoli. Persino Galeazzo Ciano, in quel momento intento a suonare non uno, ma quattro violini sotto le finestre del Foreign Office, si dovette chiedere perplesso se agli inglesi non avesse dato di volta il cervello. Tanto più che essi avevano offerto di fornirgli, in sostituzione, carbone, purché fosse pagato in aerei, cannoni e carri armati. Che era poi la scelta lasciata ad Ulisse da Polifemo: quella di mangiarlo per ultimo.

Il "progetto Nord", passato attraverso il filtro di Stati Maggiori piuttosto bolsi e senza idee chiare, finì per abortire con un insuccesso davvero plateale. Gli alleati riunirono un Corpo di Spedizione di 60mila uomini, poi lo sciolsero, poi ne riunirono di nuovo una parte e finirono con l'imbarcarla sulle navi al principio di aprile del 1940 per metterla a terra a Narvik, Trondheim e Stavanger, al solo scopo, ora che la guerra finlandese era finita, di impadronirsi delle miniere di ferro del nord scandinavo e di minare le acque territoriali norvegesi. La spedizione fu organizzata così bene che nelle navi gli sci, indispensabili per scaricarle, erano stati stivati sotto cannoni, mitragliatrici, viveri e rifornimenti vari. Inoltre, nessuno aveva tenuto conto dei bassi fondali, per cui le navi dovettero fermarsi nei fiordi, senza poter attraccare. Agli inglesi toccarono navi francesi che portavano macchine da scrivere, ed ai francesi navi inglesi con materiale ferroviario. Comunque, Hitler precedette gli uni e gli altri con un'operazione audacissima, e basata su rischi alla fin fine paganti, ma insolitamente alti. Il primo marzo chiamò il generale Falkenhorst e gli disse che doveva occupare la Norvegia con sette divisioni, e la Danimarca con altre due. Falkenhorst uscì dalla Cancelleria, comperò tutte le carte geografiche norvegesi che potè trovare nelle cartolerie vicine, e realizzò il suo colpo esemplare, passando sotto il naso della Flotta britannica, intenta a minare le coste ed a sorvegliare i convogli, senza un pensiero al mondo.

I tedeschi avevano anche un piccolo asso nella manica. A Narvik, situata a 1.800 chilometri dalle basi di partenza, c'erano due petroliere mandate graziosamente da Stalin, e vi son prove di un grosso lavoro sottobanco tra i due servizi informazioni.

Finì come doveva. Giubilante, Chamberlain aveva annunziato che "Hitler aveva perso l'autobus". Ma quella volta non lo perse, anche se è vero che la Norvegia gli costò cara e gli servì a poco, comunque non subito. I franco-inglesi dovettero reimbarcarsi "coi loro giocattoli", come commentarono acidamente gli americani, ma Hitler si trovò a dover mantenere in Norvegia quella quindicina di divisioni che gli avrebbero fatto così comodo altrove. Almeno uno degli obbiettivi primari britannici era stato raggiunto, quello di disperdere le riserve centrali nemiche. Che poi questo vantaggio fosse stato pagato di persona da un neutrale, era poco importante. Le truppe alleate avrebbero abbandonato i ghiacci norvegesi comunque, ma è certo che la loro decisione di mollare fu accelerata dal colpo di tuono dell'attacco tedesco alla Francia, il 10 maggio del 1940. Il generale Gamelin aveva appena detto di essere disposto a dare un miliardo ad Hitler se gli avesse fatto il piacere di attaccare: ed Hitler glielo fece davvero, sbaraccando la Francia in sei settimane, così come aveva sempre detto. Le ragioni di questa stupefacente disfatta, non identificate allora e del resto neppure oggi, sono assai sottili, rimontano alla Prima guerra mondiale, e sono a loro volta all'origine dei grossi equivoci che seguirono; alcuni di questi riguardano da vicino l'Italia, ed è per questo, oltreché per alcuni insegnamenti e riflessioni di carattere generale, che val la pena di analizzare un po' meglio i preliminari, la gestazione di questa "battaglia di Francia" e la parte di primo piano che vi ebbe il sulfureo cancelliere tedesco. Negli anni precedenti la Prima guerra, il capo di Stato Maggiore di Guglielmo II, conte Schlieffen, aveva studiato un piano di attacco alla Francia, passando attraverso il neutrale Belgio, con un'ala marciante molto forte che si sarebbe abbattuta come una pesante stecca di ventaglio sulla regione di Parigi, facendo perno sulla zona - più o meno - del Lussemburgo. Il presupposto del piano era che quest'ala doveva essere la più forte possibile, ed anche che, ruotando sul perno, i corpi d'armata che la costituivano dovessero marciare allineati, in modo da non lasciare intervalli tra di loro: cosa non facile perché occorreva armonizzare la velocità, essendo ovviamente più alta quella dei Corpi estremi e più bassa quella dei corpi prossimi al perno. Morendo nel 1913, si narra che il conte Schlieffen mormorasse come estremo viatico: "Forte l'ala destra".

Nel 1914, Von Moltke junior mise in atto il piano, ma i corpi non marciarono come dovevano e l'ala si indebolì per una serie di ragioni secondarie. Sulla Marna il francese Joffre ebbe buone opportunità per sfruttare gli errori, le sue linee interne, ed anche la stanchezza dei "boches" che si eran fatti centinaia di chilometri a piedi in un'estate torrida. Fu il "miracolo della Marna" che distrusse nei tedeschi le speranze di una guerra rapida, come era stata quella del 1870, ed aperse le porte ai carnai successivi, per quattro lunghi anni e quattro milioni di morti, tutti in pochi chilometri quadrati di terra maledetta. Tra le due guerre, fiorì una acre polemica tra francesi e tedeschi, che noi giovani seguimmo appassionatamente, poiché, a differenza di oggi, avevamo molto tempo disponibile per leggere, ed anche buoni testi e buone riviste specializzate. I tedeschi sostenevano che il piano del conte Schlieffen non aveva funzionato per difetti di esecuzione, ma che esso era geniale e tecnicamente corretto. I francesi sghignazzavano, e ribattevano che l'esecuzione non c'entrava affatto: era il piano ad esser greve, teutonico ed opaco, pura applicazione di forza bruta, laddove la guerra è definita un'arte proprio perché la sua condotta non può essere preordinata come alle manovre, ma improvvisata sul campo, da comandanti che debbon essere non "trascinatori di sciabole", ma spiriti eletti, schermidori di gran classe, cervelli di logica cartesiana.

All'inizio del 1940, durante la stasi d'inverno, Hitler chiede all'Ufficio Piani della "Wehrmacht" un progetto di attacco risolutore alla Francia, e l'Ufficio ne prepara uno con lodevole rapidità, ricalcato sul piano Schlieffen, con alcune varianti destinate a riparare agli errori del 1914. Si estende l'ala marciante anche all'Olanda, si rivedono gli orari di marcia migliorandoli con l'uso dei motori, si piazzano le dieci divisioni blindate all'estrema ala destra, cosicché il colpo di maglio sia in grado di schiacciare qualunque resistenza. In sostanza, una copia scolastica ed aggiornata del 1914.

Hitler esamina il piano e lo restituisce dicendo bruscamente "non è quel che mi serve: i francesi si aspettano proprio questo. E voi. dandogli questo, sacrificate il più ed il meglio del pensiero militare tedesco, la sorpresa". Quel che serve ad Hitler germina nello stesso momento in tre cervelli, nel suo, in quello di Heinz Guderian ed in quello di Von Manstein come prodotto di una collaborazione che abbina alle alte qualità di due generali, forse tra i migliori in assoluto messi in luce dalla Seconda guerra, l'impronta funambolica di Hitler, capace di percepire anche quelle qualità psicologiche del campo di battaglia che non entrano quasi mai nel bagaglio di un militare. Manstein e Guderian, infatti, rovesciano l'impostazione del Piano Schlieffen, ed in questo scoprono di esser stati preceduti dallo stesso Hitler, con un abbozzo di progetto quasi simile. Essi vogliono utilizzare sì un'ala marciante, ma finta: l'attacco vero e proprio sarà portato con tutte e 10 le divisioni corazzate sbucando "dal perno" direttamente su Sedan ed i ponti sulla Mosa, per puntare poi velocemente verso la Manica, in modo da tagliar fuori le forze francesi, britanniche, belghe ed olandesi dislocate più a Nord. Hitler approva questo "colpo di falce per sud", ma intanto divide in due battaglie distinte, una dopo l'altra, il complesso delle operazioni, e poi varia il dosaggio nella distribuzione dei carri: solo sette divisioni sbucheranno dalle Ardenne belghe, perché altre tre saranno collocate nell'ala marciante: l'avversario deve "vedere" i carri, deve essere assolutamente sicuro che la minaccia viene di lì, e soltanto in questo caso spingerà in avanti nel Belgio le sue forti Armate. Senza esca potrebbe non muoversi, ed allora il "colpo di falce" o batterebbe sul duro, o non taglierebbe fuori proprio nulla.

Così alle 5,35 del 10 maggio 1940, 135 divisioni tedesche, distese tra la Svizzera e l'Olanda, si lanciano all'attacco di 134 divisioni francesi, britanniche, belghe ed olandesi. Stessi aerei da una parte e dall'altra, stesso numero di carri, anzi con una leggera prevalenza alleata. Alle 6,30 Gamelin dirama i la sua "Istruzione numero 9 personale e segreta", in forza della quale 33 Divisioni franco-britanniche, le migliori, levano di volata le tende e si precipitano in Belgio, incontro "al tedesco", e dentro la rete. Dal Quartier Generale giunge alle truppe il messaggio del Capo: sei righe, nelle ultime due delle quali suona la vecchia alterigia gallica: "Come ha detto 24 anni fa il maresciallo Petain: "Li avremo"». All'alba di cinque giorni dopo, la voce isterica di Paul Reynaud, nuovo primo ministro francese, scoppia nel telefono di un assonnatissimo Churchill: "Nous somnies foutus, nous avons perdu la bataille". La polemica tra le due guerre dovrebbe terminare qui, perché, come dice la Bibbia "vi misero sulle bilance, ed il vostro peso fu trovato scarso". Ma le nazioni non accettano mai che il discrimine tra vittoria e sconfitta sia di natura intellettuale e preferiscono sostituirgli quello della forza. Bruta, possibilmente. Da questa speciale consolazione nascono nel 1940 equivoci immensi, e cambiali in bianco che un giorno o l'altro saremo pur chiamati a pagare.

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