venerdì 13 novembre 2009
L'anno in cui il mondo finì/2 - Mussolini nel grande gioco
Franco BANDINI
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tratto da: Il Sabato, 26.8.1989, n. 34, p. 87-97.
Le incertezze delle democrazie e l'abile gioco dei dittatori-amici, Hitler e Stalin. Mussolini non riesce a garantire che "otto milioni di baionette"
Nella gamma delle molte e disinvolte accuse che sono state fin qui fatte a Mussolini, la più antica e resistente è senza dubbio quella di aver tenacemente voluto la guerra, trascinando alla perdizione l'ignaro popolo italiano. E' anche la più sciocca, perché, casomai, a Mussolini si può, con fondamento, rivolgere proprio il rimprovero opposto: cioè di essere l'unico uomo politico di questo secolo che, al momento venuto, abbia scientemente violato, pur di non scendere in guerra, un Patto fresco di firma che ad essa lo obbligava in modo del tutto automatico. Molto probabilmente si trattò di un gravissimo errore, poiché la tempestiva certezza che l'Italia sarebbe rimasta alla finestra dette agli inglesi ed ai riluttanti francesi la possibilità di irrigidirsi nella loro opposizione ad Hitler, e vanificò le notevoli alternative di compromesso. La Storia non si fa con i "se", e d'altra parte si è già detto nell'articolo precedente che in quel settembre 1939 l'elemento decisivo, il catalizzatore della situazione, fu non tanto e non solo la pretesa di Hitler di liquidare la Polonia, quanto la risoluzione britannica di accettare la guerra subito, prima di perdere a breve scadenza la propria superiorità navale: e tuttavia, anche detto questo, non si può sottacere che, almeno in quel momento, i piani di Hitler erano molto diversi, ed assai più modesti di quanto non gli è stato attribuito. Diversamente da tanti altri Capi di stato di prima e di poi, il cancelliere tedesco era un eccellente conoscitore dell'apparato militare ed industriale del suo Paese, e sapeva benissimo che tutto stava in piedi su un accorto miscuglio di relativa forza reale, propaganda, ed azioni troppo rapide per le cautelose reazioni delle Cancellerie di Londra e di Parigi. Alla fine dei conti, in quel burrascoso agosto 1939 Hitler poteva far sfilare in passerella 2.900 carri e 1.500 aeroplani, ma si guardava bene dal raccontare che la sua "Wehrmacht" era in realtà costituita da un massimo teorico di 120 divisioni che andavano ancora a piedi, in un panorama ben poco cambiato dal 1918. In realtà, era stato realizzato un riarmo "in larghezza", ma non "in profondità": mancavano i sottufficiali, una considerevole frazione dei servizi, le caserme indispensabili, i terreni d'addestramento e persino l'addestramento stesso per una così considerevole massa d'uomini. Non solo perché c'era stato ben poco tempo per far sorgere tutto questo dal nulla, ma soprattutto perché non si erano affatto spesi per gli armamenti quei 90miliardi di marchi-oro di cui inglesi e francesi favoleggiavano con apprensione: ancora alla chiusura del sesto anno fiscale, il 31 marzo 1939, ne erano stati utilizzati soltanto 40, e circa altri dieci lo furono tra quella data ed il 3 settembre 1939, con una accelerazione che da sola dovrebbe dimostrare la mancanza di un piano di guerra globale.
Val la pena di insistere sul negletto fattore delle reali intenzioni di Hitler, perché gli equivoci profondi nati attorno ad esso prima delle cannonate ebbero come tragica conseguenza quella di trasformare davvero in guerra il nervoso e pericoloso processo di riassestamento europeo, pressoché inevitabile dopo l'ingiustificata pace punitiva partorita a Versailles. Gli inglesi ritennero, almeno sino a Monaco, che fosse possibile guidare con ben studiati accordi diplomatici un'espansione tedesca all'Est, e riconobbero quasi spontaneamente che essa si sarebbe tradotta nella scomparsa o almeno nella trasformazione da Stati sovrani ad aree a "sovranità limitata" di tutte le creature nate o ridisegnate appunto a Versailles: Cecoslovacchia, Ungheria, Austria, Polonia, Romania. Ed immaginarono che tutto questo avrebbe potuto avvenire senza guerra, ma soprattutto a condizione di una rinunzia tedesca alla competizione sul mare. In termini poveri, essi dettero ad Hitler licenza di rompere tutte le fragili porcellane europee, purché neppure una delle chicchere britanniche riportasse scalfitture.
Questo modo di pensare, molto antiquato, molto vittoriano, e per la verità poco europeo, ebbe il grande svantaggio di trovarsi di fronte alla mentalità sulfurea, astuta e modernissima di Hitler, il quale, è bene dirlo subito, non avrebbe mai avuto modo di esibirsi nel suo gioco delle tre tavolette, se non fosse stato per l'appoggio incondizionato di settanta milioni di tedeschi. Più e meglio di ogni altro politico di quegli anni, Hitler aveva compreso l'enorme valore della propaganda e dell'astuzia, come sostituti ineguagliabili della potenza reale; fu forse il primo in assoluto, per esempio, ad invertire il segno algebrico della più tradizionale tra tutte le menzogne di governo nel campo degli armamenti, poiché non perse alcuna occasione per raccontare ai suoi potenziali avversari che era più forte di loro avendo più aeroplani, più carri e più cannoni di quanto essi supponessero. Corredò queste grosse panzane, perché tali erano, con frasi che faranno per sempre l'invidia dei più agguerriti pubblicitari, come quando chiese al suo popolo di rinunziare al burro pur di avere cannoni: cosa che si guardò bene dal mettere in pratica persino durante la guerra, visto che una vera conversione dell'industria tedesca avvenne soltanto a partire dal 1943.
Questi metodi, di certo non nuovi per le tribù selvagge che si son sempre dipinte con colori violenti per terrorizzare l'avversario, ma inediti nel campo delle relazioni tra nazioni civili, funzionò per Hitler talmente bene che finì per danneggiarlo mortalmente quando a spaventarsi non furono soltanto le piccole nazioni che egli aveva nel mirino, ma le grandi, nelle quali venne a crearsi per contraccolpo una allarmata schiera di Cassandre, che si dettero ad agitare corpo ed anima, e con una sostanziale irresponsabilità, lo spettro di un "piano" tedesco per la dominazione del mondo intero. Oggi sappiamo molto bene, ma era possibile intuirlo anche allora, che non soltanto un piano simile non esisteva, ma anche che era impossibile esistesse. Per quanto ricca di linfe e di grosse capacità, la Germania di allora - come del resto nessun'altra nazione del tempo - non aveva la materiale possibilità di conquistare, annettersi ed amministrare popolazioni di ceppo dissimile oltre una frazione molto piccola. Tutti i "Governi Quisling" sorti come funghi nel periodo della massima estensione germanica, e persino la Repubblica di Salò, gemella in questo della petenista Repubblica di Vichy, nascono dall'ovvia constatazione che nella nostra epoca non è più pensabile programmare un'espansione senza legarla ai criteri della collaborazione, degli Stati vassalli, o degli Stati a "sovranità limitata": criteri dei quali, forse, potè non tener conto il solo Alessandro Magno, ma che furono ben presenti agli oculati ed insuperabili amministratori della costruzione imperiale romana ed ai loro tardi eredi britannici, nel cui Impero non esiste territorio uguale ad un altro quanto a legame istituzionale col centro.
Per quanto è dato capire oggi, e non è moltissimo, la linea di condotta centrale di Hitler fu soltanto quella di profittare di ogni occasione a portata di mano per ottenere successi nell'ambito limitato della riunificazione di tutte le genti tedesche nell'Est europeo. Poiché parte di queste popolazioni era soggetta a Stati nominalmente sovrani, l'obbiettivo comportava anche la distruzione di questi Stati, o con manovre intimidatorie, o con piccole guerre locali. Ma mai una guerra generale, poiché Hitler si rendeva ben conto della verità di quell'assioma per cui una Grande Potenza è tale quando non accetta di combattere quei conflitti mortali, dai quali esce distrutta come Grande Potenza. E' straordinariamente istruttivo costatare la consequenzialità tra questa sua persuasione di fondo ed il "tipo" di guerra che egli ispirò e fino ad un certo punto condusse, ancorandola ad una serie di inediti "trucchi" che spaventarono e disorientarono i suoi molti avversari, ma che non furono altro che i sostituti di una forza che egli fu sempre molto lontano dal possedere. Erano un trucco i carri armati, e lo erano i paracadutisti, gli Stukas con la sirena nella coda, i fantocci fatti piovere di notte alle spalle del nemico: era un "trucco", insomma, l'intera teoria della "Blitzkrieg", che trasportava in sede militare i procedimenti ed i non solidi successi della propaganda politica. Certo, le campagne di Polonia, di Norvegia, di Francia, ed anche quella di Russia fino al 1942, si studiano ancor oggi con una stupefatta ammirazione, poiché costituiscono esempi non ancora superati di quanto contino anche sul campo di battaglia il coraggio morale, l'intelligenza e la penetrazione psicologica, prima ancora che le armi. Ma il fatto che la "Blitzkrieg" si sia infranta contro l'Armata Rossa, cioè contro una macchina militare abbastanza ottusa e brutale per non lasciarsi ingannare dai trucchi, e d'altra parte disposta a spendere a piene mani tutto il sangue necessario, dimostra ad usura, ed una volta di più, che nel quadro mentale di Hitler l'idea di un conflitto generale, di un conflitto davvero "serio" era del tutto esclusa. E forse fu questo il suo errore più grande; temeva oscuramente la Russia, e ne guardava con inquietudine la crescita industriale, in quel momento seconda soltanto a quella degli Stati Uniti. Ne ricercò l'amicizia, ancora una volta, per mettere Londra e Parigi di fronte ad un'alternativa drammatica, o accettare la disintegrazione polacca, o risolversi ad una guerra "seria". Quando con suo dispetto e stupore vide svanire la speranza di farla franca ancora una volta, allora si risolse a liquidare la Russia, convinto, ma forse non del tutto, che bastasse "un calcio alla porta per far crollare l'intero edificio". Si sbagliava, ma la medesima convinzione - e lo vedremo - nutrivano Churchill, Roosevelt e persino lo stesso Stalin. Fu un bel granchio generalizzata, che finì per giovare soltanto al dittatore georgiano: da "belva sanguinaria" divenne da un giorno all'altro il "buon zio Joe", con conseguenze di così vasta portata che è quasi impossibile rendersene pienamente conto oggi.
Nel 1939 gli inglesi non capirono affatto cosa in realtà girava nel cervello di Hitler, e perciò si spaventarono. E quando gli inglesi si spaventano, si attengono sempre all'ipotesi peggiore, perché è assai meglio ricredersi che prendere randellate impreviste. Fecero benissimo, dal loro punto di vista, anche perché, ma questo lo si scoperse non certo nel 1939, Hitler stava al volante di una macchina ideologica capace di sprigionare nefandezze allucinanti, come infatti avvenne a guerra inoltrata. Ma questo fattore, che per noi oggi è iscritto al passato, un passato ben conosciuto, meditato ed assimilato, nel 1939 apparteneva al futuro: mentre era al presente, almeno per chi volesse contemplarlo con occhio imparziale, il gigantesco massacro che stava spazzando la Russia almeno dal 1934. Non saremo troppo ingiusti coi politici eminenti di quegli anni se rileveremo che essi ebbero la più grande cura di applicarsi una benda sull'occhio sinistro, tenendocela ben ferma fino al 1945, con una decisione sostanzialmente immorale, per la quale Churchill coniò la disinvolta ricetta dell'allearsi "col diavolo e sua nonna".
Chi veramente cadde a capofitto nella pania delle grandi menzogne di Hitler fu proprio Mussolini che, pur essendo giornalista ed allenato da anni ad ogni genere di menzogne per uso popolare, non seppe mai coniarne una che avesse la stessa efficacia di quelle del suo collega. La più pietosa, ed anche la più rivelatrice, fu quella delgli otto milioni di baionette, perché anche i ragazzini sapevano che con 42 milioni di abitanti l'Italia non avrebbe mai potuto mettere in divisa un esercito di questa grandezza. E poi perché le baionette evocavano più il "quadrato di Villafranca" e le tavole di Beltrame sulla "Domenica del Corriere" 1915-1918, che lo scenario di guerre veramente moderne con quegli affascinanti mostri meccanici alati, terrestri e marini che popolavano la fantasia dei giovani d'allora, assai più informati e proiettati nel futuro di quanto non immaginassero i loro padri, ivi compresi i politici ed i generali che tenevano in quel tempo la cosa pubblica nelle loro mani.
Se son consentiti ricordi personali, mi par giusto indicare qui, in questo specifico punto tecnico-intellettuale, la vera linea di frattura tra le classi giovani del 1939e quelle dei padri o dei nonni. Ed anche la ragione profonda dell'ammirazione quasi senza limiti che nelle stesse classi giovani destarono almeno sino al 1942 le imprese militari tedesche. Sentivamo, forse, confusamente, che la mentalità ottocentesca dei discorsi, delle parate, delle lezioni di Cultura militare, materia obbligatoria nelle scuole, non era adatta ai tempi correnti, e capivamo anche che era pericolosa. Mussolini assicurava che "la mitragliatrice non conta, se non c'è lo spirito che la fa cantare", ma questa ci sembrava soltanto una mezza verità, per di più legata al mondo psicologico della trincea, antiquato - ai nostri occhi - quanto le opere ossidionali del maresciallo di Turenne.
Nel 1939, una volta alla settimana eravamo trascinati controvoglia alle lezioni di Mistica fascista, con oratori e professori per la verità assai eloquenti.
Una sera, prendendo il coraggio a quattro mani mi alzai al termine di una lezione e chiesi al professore, il quale aveva dimostrato quanto fosse facile battere l'Inghilterra, come si poteva fare a raggiungere questo scopo, se la Flotta inglese era composta delle tali e tali navi da battaglia, quella francese dalle tali e tali, quella italiana dalle tali e tali, e se infine gli aeroplani, come si era visto nelle manovre, ma soprattutto in Spagna, erano in grado di far alcune cose, ma non altre. A onor del vero mi lasciarono parlare liberamente, ascoltando con attenzione. Il professore, che poi passò disinvoltamente dal nero al rosso a tempo debito, meditò un poco e quindi disse: "Il Duce avrà pensato certamente a come risolvere il problema che voi avete posto".
Come sappiamo oggi, il Duce aveva ben fermo soltanto il principio di non farsi mai trascinare in un conflitto veramente generale, in un conflitto "serio", purché - qualunque cosa si ami sostenere ora - non era affatto uno stupido e conosceva benissimo la situazione italiana. In tutta la penisola c'erano nel 1339 soltanto 300mila tra automobili ed autocarri, ed altrettante patenti, quando in Francia eran già due milioni, le une e le altre. Dalle Accademie di Livorno, di Caserta e di Modena uscivano meno di tre o 400 ufficiali effettivi ogni anno, e non c'era nemmen da pensare ad una grande Marina e ad una grande forza aerea, se prima non si fossero creati ed addestrati i marinai ed i piloti necessari. Non avevamo né scorte di nafta, né di carbone, e non si era data mano ad alcun programma per quei succedanei che i tedeschi già fabbricavano, ottenendo gomma sintetica e, dall'idrogenazione del carbone, petrolio di buona qualità.
Queste gravi carenze costituivano una potente indicazione negativa nel caso di una guerra lunga e dura, ma contavano assai meno, o niente del tutto, nel caso di un conflitto limitato nel tempo, tanto più mettendo nel conto la straordinaria debolezza delle posizioni imperiali inglesi, ed il fatto che l'intera organizzazione militare francese era ipnotizzata e bloccata sul problema delle frontiere di Nord-Est.
Galeazze Ciano, in ricognizione a Salisburgo, apprese già il 12 agosto che "probabilmente" ci sarebbe stato un accordo coi russi. Gli entrò da un orecchio e gli uscì da un altro, sopraffatto dall'emozione di quanto Ribbentrop gli disse subito dopo, "ora vogliamo la guerra". Era una menzogna sfacciata. perché mai come in quel momento Hitler stava trescando sottobanco con quelli che chiamava "i vermi di Monaco", per ottenare il massimo al prezzo minimo. Quel 12 di agosto, è assai probabile che nei suoi piani a corto termine non fosse neppur compresa una guerra vera e propria con la Polonia, innanzitutto perché poteva anche darsi che essa cedesse, ed accettasse il ritorno di Danzica nel seno tedesco, ed un plebiscito per il Corridoio. Ma poi anche per una ragione più generale: le Democrazie potevano forse accettare che la Polonia divenisse davvero uno Stato a sovranità limitata, ma non ne avrebbero probabilmente inghiottita la sua conquista "manu militari". Se poi avvenne proprio questo, la decisione di Hitler non può essere considerata autonoma, per il semplice fatto che egli aveva potuto firmare un accordo con Stalin, sulla base di un prezzo che era appunto la metà della sventurata nazione. I protocolli segreti del 23 agosto, stabilendo questa moneta di scambio, non soltanto aprirono le porte della Seconda guerra mondiale, ma furono senza dubbio l'origine prima della campagna tedesca in Polonia del primo settembre. Senza il Patto, e persino con un atteggiamento di Stalin imparzialmente neutrale, Hitler non avrebbe osato, e si sarebbe contentato di Danzica e del Plebiscito, avendo dalla sua ragioni storiche che, per un curioso paradosso, erano anche più valide di quelle che lo avevano mosso alle precedenti imprese.
Oggi si tende a dimenticare che la "città libera" di Danzica, antico anello forte della Lega Anseatica, era sicuramente una città tedesca, quanto era italiana la Trieste del 1915, benché si debba aggiungere che gli ultimi mille anni di storia non hanno ancora stabilito in modo sicuro per decidere sulla sorte di città come Danzica, che hanno la disgrazia di sorgere nel punto di sutura di due etnie completamente diverse. E si dimenticano anche quei particolari minori, che son così utili a comprendere il senso degli avvenimenti: la seconda notte di guerra, Heinz Guderian, celeberrimo padre dei corazzali tedeschi, raggiunse col suo XIX Corpo la cittadina di Cross-Klonia, e dormì nel castelluccio in cui erano sepolti suo padre e suo nonno, nel cui giardino aveva giocato da piccolo. I suoi pensieri, le sue "motivazioni", dovettero essere le stesse di quei tanti italiani che domani avessero la ventura di tornare a dormire nelle abbandonate dimore natali di Pola, di Parenzo o Abbazia.
Mussolini e Ciano ebbero dieci giorni di tempo per mettersi a tavolino ed analizzare con pazienza la nuova situazione che si stava creando, e della quale avevano notizie di prima mano. Non risulta che lo abbiano fatto, paralizzati com'erano dai sinistri presentimenti della "guerra grossa". Quando scoppiò su tutti i giornali la incredibile notizia delle strette di mano tra Ribbentrop e Molotov, si persuasero definitivamente che la danza infernale stava per cominciare, e svilupparono un'attività frenetica per tirarsene fuori in tempo. La sera del 31 agosto, Ciano convocò a Palazzo Chigi sir Percy Lordine, ambasciatore inglese, e gli disse puramente e semplicemente che l'Italia non avrebbe fatto nessunissima guerra. Il giorno dopo, Mussolini annunziò agli italiani ed al mondo la sua "non belligeranza", fedele, una volta di più, alla tradizione curiale di un popolo che è di Santi e di Eroi, ma soprattutto di avvocati, capaci di produrre una gamma estesissima di etichette per le situazioni più imbarazzanti: per cui si è alleati, ma in una "guerra parallela", si combatte, ma come "cobelligeranti", e si fa persino il Re, ma come "luogotenente".
Prima ancora che immorale, la nostra "non belligeranza" fu un errore; non soltanto perché tolse efficacia alla guerra dei nervi che Hitler stava conducendo, ma soprattutto - ed è questo che importa - perché dette agli inglesi una attendibile misura della irresolutezza e debolezza mussoliniana. Fino a quel momento, essi erano stati alquanto incerti sulle possibili modificazioni profonde nel carattere degli italiani che il Fascismo forse aveva prodotto. Da quell'istante cominciarono a pensare - purtroppo - che se la facciata era stata ridipinta, si trattava pur sempre del vecchio edifìcio. Non vi è alcun dubbio che una gran parte della strategia mediterranea di Churchill, tra il 1940 ed il 1943, fu influenzata dalla convinzione che contro l'Italia fosse possibile ottenere una cospicua serie di vittorie a buon mercato. Però, che il basso ventre dell'Asse fosse molle, non lo aveva scoperto da solo.
Per essere onesti fino in fondo, bisogna aggiungere che in quell'agosto 1939 anche un fatto tragico come la guerra venne sommerso nelle coscienze di tutti dalla specialissima paralisi mentale indotta dal Patto Hitler-Stalin, al quale seguì in ogni parte del mondo un maremoto psicologico, politico e pratico la cui dimensione è stata accuratamente cancellala dalla memoria collettiva. In Francia, quel primo ministro che per solito sfilava a pugno levato ogni 14 luglio, proprio Edouard Daladier, mise fuori legge il Partito comunista, di cui fece processare davanti ai Tribunali militari una quarantina di deputati.
La polizia eseguì 11mila perquisizioni, sequestrando radio clandestine, armi, esplosivi ed opuscoli nei quali Francia ed Inghilterra eran denunziate come le "potenze imperialiste", da ostacolare e sabotare con ogni mezzo. Thorez, presentatosi in un primo tempo "au drapeau", disertò quasi subito, seguito da una robusta schiera di comunisti fedeli, inaugurando dal Belgio la prima "collaborazione» della storia. Goebbels, con alcuni comunisti francesi, tra i quali compare anche il tedesco Ernst Toergler, sospetto autore dell'incendio del Reichstag, mette in piedi addirittura una radio emittente che si chiama «Humanité".
Ci sono anche dei martiri, in questa strana causa pro Hitler: tre operai comunisti fucilati a Parigi nel febbraio 1940 per gravi sabotaggi ed esplosioni ai danni dell'industria bellica. Velocemente, i grandi campi di concentramento si riempiono di bei nomi dell'aristocrazia intellettuale ed operaia comunista: sindaci, deputati, giornalisti di sinistra, reduci della guerra di Spagna, e naturalmente le "teste" dei PC stranieri, in primo luogo Luigi Longo. La polizia francese piomba subito nel segretissimo rifugio parigino di Ercoli, al secolo Palmiro Togliatti, e lo studio della storia non sarebbe quella cosa così affascinante che è, se non riservasse delizie come queste, lo scoprire per esempio che il leader numero due della Internazionale vien tenuto in galera per sei mesi, senza che nessuno lo riconosca, ufficialmente, si capisce.
In realtà, l'occhialuto professore vien recapitato a Mosca nel marzo 1940, in funzione di quegli scambi di chiarimenti sottobanco che qualunque regime intrattiene sempre coi suoi avversari, anche in tempo di guerra. Del resto, la stessa cosa succede in Italia, dove all'improvviso il Tribunale Speciale sembra dimenticarsi che esistano dei comunisti. Nel primo settembre del 1939 se ne condannano più di 250, che scendono ad una trentina nel secondo, e questa stracca attività repressiva continua così fino al giugno 1941. Non soltanto: tra condoni, buone condotte e pentimenti ante litteram, in carcere non rimane quasi più nessuno, e pochissimi al confino di polizia, con una linea di condotta che sopravvive anche dopo l'attacco alla Russia. Quando la Francia di Pétain, o i tedeschi, restituiscono a Mussolini i comunisti italiani ristretti nei campi dell'Esagono, tutto si limita al confino di polizia nelle isole, in condizioni leggermente diverse da quelle che negli stessi anni sperimentano milioni di Ivan Denisovic nelle miniere d'oro dì Kolyma, o a Vurkuta, o anche milioni di ebrei a Buchenwald e Dachau.
E' difficile sottrarsi all'impressione che tra Mussolini ed il Pci non sia corsa un'intesa duratura, sul cui profilo psicologico si tornerà, per osservarne più da vicino il meccanismo. La catastrofe del Patto, in realtà, colpisce a morte la componente idealista del comunismo internazionale, al punto che i comunisti tedeschi arrivano a reclamare dal Komintern una maggiore rappresentanza "in quanto esponenti di un Paese alleato". Tutti o quasi i Comitati centrali volano in pezzi, e migliaia e migliaia di comunisti abbandonano il partito. Rimangono i "duri", ma a prezzo di un'automutilazione intellettuale che è la condizione indispensabile per sopravvivere all'interno del sistema. E potremmo considerarla sbrigativamente affare che non ci riguarda, se essa non fosse all'origine di una "lezione" sulla natura e sui motivi del Secondo conflitto mondiale che scarica sulla sola Germania la colpa primaria di esso. Assolvere Stalin, difatti, comporta di necessità il sostenere che la guerra sarebbe comunque scoppiata, dati i progetti hitleriani di dominazione mondiale. Questi progetti non esistevano, perché non esistevano le condizioni di minima necessarie a renderli operanti. Ma sembrò che esistessero perché all'azione circoscritta di Hitler venne a sovrapporsi il dirompente aiuto dell'espansionismo sovietico, ingrediente altamente esplosivo sul quale l'Europa occidentale si era tranquillamente addormentata dopo la scomparsa degli zar, la sconfitta militare dei loro eserciti, la guerra civile, e le atroci vicende intestine successive alla morte di Lenin. Allo storico, oggi, incombe lo sgraditissimo dovere morale di accettar di passare per ciò che non è, cioè per il difensore di Hitler, dei fascismi e di tutto ciò che essi hanno rappresentato. Ma questo accade proprio per le ragioni che si sono appena dette: in questo 1989, a mezzo secolo di distanza dai fatti, risulta quasi impossibile cercar di presentarli nella loro realtà obiettiva, senza che entrino immediatamente in gioco quei potenti meccanismi di autodifesa e di offesa ai quali dobbiamo, in fondo, la nostra incapacità collettiva a comprendere i tempi che corrono. E questo dimostra, per nostra disgrazia, che la Storta non insegna nulla, cosicché i mezzi utilizzati volta a volta per fronteggiare le nuove emergenze son di regola quelli sbagliati, appunto perché dedotti da interprelazioni di comodo del passato. Cercar la verità e tentare di dirla è perciò obbligo morale dello storico. Ma, forse, sarebbe più saggio parlare della coltura delle barbabietole, o della diffusione della pastasciutta nel mondo. Però un premio c'è: ed è lo scoprire che anche nella Storia, come in matematica, due e due fanno sempre quattro.
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Stupisce che il compianto Bandini descrivesse in maniera opposta Mussoloini nel suo libro "Tecnica della sconfitta" di come lo descrive in questo articolo.
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