Luca Leonello Rimbotti
Nel 1965 il famoso storico tedesco Andreas Hillgruber scrisse un libro che è rimasto una pietra miliare negli studi sulla Seconda guerra modiale: La strategia militare di Hitler. Ripubblicato con aggiornamenti nel 1982, questo ponderoso libro (oltre ottocento pagine fitte di note e rimandi bibliografici direttamente attinti dalle fonti) è uscito in italiano nel 1986. Relegata in una noticina sperduta tra centinaia di altre, solo un attento lettore è in grado di rintracciare - quasi fosse l’epigrafe di un reperto archeologico - la frase decisiva: "Hitler rifiutò, nel periodo da noi preso in esame [il primo anno di guerra] gli attacchi puramente terroristici a centri abitati della Gran Bretagna, come aveva suggerito Jodl. In tutte le fasi della guerra aerea contro l’Inghilterra nel 1940-41…valsero solo obiettivi militari e industriali…". Gli storici lo sanno bene: la responsabilità di avere per primi deciso di colpire dal cielo i civili ricade infatti tutta e soltanto sugli inglesi.
Fu solo dopo la decisione, fortemente voluta da Churchill, di attaccare i centri abitati tedeschi che Hitler, dopo reiterate pressioni di Goering e di altri suoi collaboratori, si lasciò convincere a effettuare rappresaglie sulle città inglesi. E furono i bombardamenti sul centro di Londra e su Coventry. Nulla, tuttavia, in confronto con la rappresaglia della rappresaglia, lucidamente pianificata dagli strateghi angloamericani. La distruzione di Amburgo nel luglio 1943 e quelle sistematiche di Berlino, Dresda e di tutte le città del Reich grandi e piccole, fino all’ultimo raid del 25 aprile 1945, ridussero i precedenti bombardamenti tedeschi al rango di trascurabili esercitazioni pirotecniche. Il risultato è presto detto: ottocentomila civili tedeschi uccisi, secondo stime prudenti. E modalità di guerra giudicate criminali persino dai più tenaci democratici. Ad esempio, nel suo Tra le città morte: i bombardamenti sulle città tedesche: una necessità o un crimine? (Longanesi), lo studioso oxfordiano A. C. Grayling non può fare a meno di scrivere a chiare lettere che "lanciare deliberatamente attacchi militari contro le popolazioni civili allo scopo di provocare in mezzo ad esse terrore e morti indiscriminate è un crimine morale".
È esattamente ciò che decisero a tavolino i capi alleati: gli eccidi terroristici, oltre che essere misure punitive, avrebbero dovuto produrre il crollo del morale della popolazione affrettando la fine della guerra. Il risultato, come è noto, fu quello opposto: i tedeschi, lungi dal crollare psicologicamente, rinsaldarono il loro morale ad ogni massacro e tennero duro fino all’ultimo giorno. In particolare, sappiamo che la programmazione della tempesta di fuoco sperimentata con successo su Amburgo nel ‘43 (ottantamila morti dopo cinque attacchi consecutivi in una settimana), fu presa a modello dal Bomber Command britannico per le sue successive esibizioni. Il cui apice spettacolare fu Dresda, ma il cui metodo fu attuato su decine e decine di altre città. Si puntò a fare di ogni città un crogiolo: "Nel 1942 il gabinetto di guerra e lo stato maggiore dell’aviazione decisero di distruggere tutte le città tedesche con una popolazione superiore ai 100.000 abitanti", conferma Grayling. E quando si diceva “tutte” le città, si intendeva proprio “tutte”. La programmazione dell’eccidio di massa fu certosina. Il principe dei criminali, in questo disegno di sterminio attuato a distanza di sicurezza, fu il famigerato comandante del Bomber Command Arthur Harris. Fu lui, più di ogni altro, che «soddisfece il desiderio del premier» di operare vasti massacri di popolazione tedesca, facendo della politica del bombardamento una pratica scientifica eseguita con modalità industriali. Jörg Friedrich, nel libro La Germania bombardata. La popolazione tedesca sotto gli attacchi alleati 1940-1945 (Mondadori), scrive che, in una relazione a Churchill, Harris previde entro l’aprile del ‘44 l’annientamento «del 75% dei tedeschi residenti in città con più di 50.000 abitanti», avendo come fine dell’intera operazione la «desertificazione della Germania». Siamo dunque di fronte alla cosciente e minuziosa programmazione dello sterminio. Friedrich, a un certo punto del suo libro impressionante, afferma che «la devastazione subita dalla Germania fu superiore a quella sperimentata da qualsiasi civiltà fino a quel momento, eppure il Reich resistette un anno in più del previsto sotto gli attacchi del Bomber Command e di due forze aeree statunitensi».
Gli americani e gli inglesi facevano studi accurati sulla consistenza degli edifici di ogni città tedesca, sulla conformazione e il materiale usato per ogni singola costruzione civile. Calcolavano la struttura dei solai e delle cantine, la collocazione dei muri maestri e delle travature, la dislocazione degli isolati urbani…un lavoro maniacale, con appositi uffici tecnici che si occuparono per anni dei più minuti rilevamenti aerei, con studi particolareggiati sulla dirompenza delle bombe e l’efficacia distruttiva degli esplosivi…un lavoro che alla fine portò al risultato voluto. Si trovò eccellente la combinazione di spezzone incendiario e bomba a liquido infiammabile che, ad esempio, nel caso tragico della cittadina di Pforzheim, produsse un ottimo fatturato di omicidi: «Nella fornace bruciarono dalle quarantamila alle cinquantamila persone…nel solo quartiere di Hammerbrook perirono trentasei abitanti su cento. Settemila bambini e ragazzi persero la vita, diecimila rimasero orfani», precisa Friedrich. I settemila bambini eliminati nel giro di un’ora nella sola Pforzheim avranno certamente ringraziato Churchill e Harris per aver fatto loro conoscere la potenza dell’ideale democratico piovuto dal cielo…ma è inutile continuare l’orrido necrologio. Bisogna leggere il libro di Friedrich per provare fino in fondo la nausea di fronte alla truffa del moralismo liberaldemocratico. I fini della guerra non c’entravano, c’entrava la voglia di massacro. Su Dresda diciamo poi solo poche cose. Recentemente è uscito in Italia il mistificatorio libro di Frederick Taylor Dresda. 13 febbraio 1945: tempesta di fuoco su una città tedesca (Mondadori).
L’autore intende subito fare i conti col precedente libro di David Irving, Apocalisse a Dresda (Mondadori), cercando di squalificarlo. Dice: Irving è uno storico discusso, si sa, Irving è screditato (ma da chi è screditato?)…Ha portato le prove che a Dresda furono ammazzati in poche ore centotrentacinquemila tedeschi, quasi tutti donne, bambini e vecchi in fuga dall’Armata Rossa? Ma si è basato su un documento coevo tenuto nascosto dalle autorità… dice Taylor che la verità, come risulta da certi documenti ritrovati a Coblenza, è che i morti non furono più di venticinquemila, al massimo, che so, quarantamila… Il fatto - continua Taylor - è che «c’era in realtà solo una spiegazione possibile. Era stato aggiunto uno zero per ragioni di propaganda…». Cioè Irving ha fatto propaganda (ma per conto di chi?), mentre invece Taylor dice la verità. L’incredibile affermazione di Taylor è dunque che si può fare storiografia semplicemente mettendo uno zero in più a una cifra…ma come fa a sapere che è così facile? Non sarà che, con uguale facilità, lo stesso zero può anche essere tolto? Ma allora, se è possibile dare i numeri con tanta disinvoltura - nonostante lo stesso Taylor dica che l’opera di Irving è "interamente documentata» - non viene in mente a nessuno che il medesimo trucco può esser stato applicato a proposito di altri, più noti eccidi di massa? Per i suoi calcoli, Irving si basò su un rapporto coevo che tenne conto non solo dei cadaveri ritrovati e riconosciuti, ma anche di quelli dispersi e presunti in base al ritrovamento di oggetti personali: la maggioranza dei morti se ne andò in cielo bruciata e fusa dal vortice di fuoco che turbinò su Dresda per giorni…e in ogni caso Irving rimase molto più basso del Tagesbefehl 47, un documento che registrava duecentoduemila morti verificati e ne stimava il totale a duecentocinquantamila…ma è un documento che Taylor dice semplicemente che è falso. Ce lo assicura lui e ci possiamo fidare…
Ma gli angloamericani non ammazzavano soltanto dal cielo. Non mancarono di sporcarsi le mani anche a distanza ravvicinata. La documentazione esiste. Solo che non ne parla nessuno. Quello che ha documentato James Bacque in Gli altri lager. I prigionieri tedeschi nei campi alleati in Europa dopo la 2a guerra mondiale (Mursia) è semplice: un milione di morti tra i prigionieri tedeschi, tra il 1945 e il 1947, lasciati "morire lentamente di fame davanti agli occhi dei vincitori, ogni giorno per anni". Un computo che, nell’altro libro di Bacque (che non è affatto un “revisionista”) Crimes and Mercies (pubblicato dalla Warner Book di Londra nel 1998, mai tradotto e ignorato dai media), raggiunge cifre da capogiro: se considerati nel complesso delle violenze angloamericane, francesi, slave e sovietiche, i civili tedeschi liquidati dai vincitori ascendono a nove milioni. In ogni caso, sono parecchi i casi in cui, anche a guerra in corso, gli americani applicarono l’eccidio come sistema abituale. Basta leggere Il prezzo della disfatta. Massacri e saccheggi nell’Europa “liberata” di Gianantonio Valli (edizioni Effepi). In scala molto più ridotta, quasi piccoli cammei di etica democratica, abbiamo eloquenti testimonianze sul comportamento angloamericano nel caso specifico italiano. Ad esempio, in La gioia violata di Federica Saini Fasanotti (edizioni Ares), in cui si ricordano i crimini alleati contro militari e civili italiani. In proposito lo stesso Mario Cervi, su “Il Giornale”, ha testimoniato che «gli eserciti che dovevano portare democrazia e riscatto compirono essi pure sopraffazioni, rappresaglie, stragi di innocenti, atti di barbarie».
È ciò che documentano Marco Gioannini e Giulio Massobrio in Bombardate l’Italia. Storia della guerra di distruzione area 1940-1945 (Rizzoli), in cui vengono messi in luce anche risvolti finora misconosciuti. Riferendosi ai bombardamenti indiscriminati sui civili dopo l’8 settembre, si scrive: "La ferocia di questa fase della guerra aerea è dimostrata anche dall’uso da parte alleata di armi proibite dalle convenzioni internazionali, come il fosforo bianco che sviluppa gas tossici…". Circa poi gli eccidi americani in Sicilia, Gianfranco Ciriacono ha scritto Le stragi dimenticate. Gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella (stampato in proprio nel 2006), un lavoro molto documentato, che nel 2007 è stato confermato da uno studio apparso su “Il Giornalista”, pubblicazione dell’Università di Salerno. Si tratta di eventi drammatici. Tra i più noti, l’uccisione a freddo di trentasette soldati italiani prigionieri per mano del sergente Horace West, oppure l’eliminazione di settantatre soldati e sei civili italiani, di cui vi è traccia nei documenti della Corte Marziale di Washington e di cui ha scritto Roberto Coaloa su “Il Sole-24 Ore” circa un anno fa. Recentemente è uscito un piccolo libro di Guido Falqui Massidda, Germania, perdono (Nicolodi editore), in cui l’autore scrive che «centinaia di migliaia di persone - probabilmente milioni - furono uccise, stuprate, torturate, scacciate, spogliate di ogni loro avere solo perché tedesche…la bestialità umana sarebbe stata legalmente e deliberatamente scatenata per distruggere anche l’immagine, l’identità e la dignità di un intero popolo" E sente il bisogno di chiedere perdono alla Germania. Parole giuste e coraggiose. Ma sono gocce, nel grande oceano di menzogne e di deformazioni a senso unico.
http://www.mirorenzaglia.org/?p=7563
E' quello che scrisse indefessamente Giovanni Preziosi e che, oggi, tutti disconoscono;
RispondiEliminaEsiste - a destra e a sinistra - un filone anti-tedesco che apre un abisso fra fascismo e nazionalsocialismo. Dimenticano costoro che Hitler fu "allievo" di Mussolini...