giovedì 10 settembre 2009

SOCIALIZZAZIONE: SECONDA ONDATA - UN PROGETTO POSSIBILE

di MIRO RENZAGLIA

“La socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio risolverà definitivamente la questione sociale.”
Filippo Corridoni

I fatti che attengono alla storia non procedono in linea retta: né da un meno a un più, né da un più a un niente. Né l’ascesa né la discesa sono il segno esatto: il loro disegno preciso è la sinusoide... Un’onda, quindi... Ci sono le schiumette che vanno e vengono, buone solo a lavare gusci di conchiglie vuote che si depositano morte sul bagnasciuga; ci sono gli Tsunami, figli di Poseidone che, smaniando al cielo, travolgono tutto e poi rifluiscono negli abissi della terra che li aveva mossi, lasciando sulla loro strada lutti e rovine; e ci sono le mareggiate, figlie predilette del vento (“la rivoluzione è come il vento”, vero?...) e che, a ondate successive, scavalcano antemurali, spostano confini, cambiano geografie, modificano paesaggi. Insegnano, in somma, il modo per andare oltre... A ondate successive, a punto...
La storia dimentica quello che non vale la pena ricordare. Se qualcosa del passato, nonostante tutto, continua ad essere oggetto di disputa (storica e politica...), è perché contiene valore: se non valesse nulla, nessuno si accanirebbe a negarlo (quel valore...) e nessuno (a parte gli scemi...) perderebbe un attimo del suo tempo ad affermarlo... Non ostante tutto e il contrario di tutto, il fascismo agita ancora molti sogni e, a tal ora, incubi. Anche se non sempre per le ragioni fondamentali della sua storia vera e, sopra tutto, della sua vera eredità... E l’eredità del fascismo - io credo - è scritta nel suo testamento... Si può rifiutare un’eredità in todo: perché, no? Nessuno né può né deve essere costretto ad accettare l’eredità che non vuole... Ma se, puta caso, la rivendica... oh, allora, non si scappa: quel qualcuno deve osservare le prescrizioni della volontà testamentaria. E la prescrizione ereditaria del fascismo ha un nome solo, e preciso: socializzazione...
Partiamo da un dato di fatto: la socializzazione non è una teoria, non è un dogma, non è un atto di fede... La socializzazione è una praxis. Una prassi, in quanto tale, richiede la continua messa a punto delle tecniche e delle modalità d’applicazione. Per quanto affezionati al modello che la storia del fascismo ci ha lasciato in eredità, se volessimo applicarlo (quel modello...) in maniera pedissequa, alla lettera, difficilmente lo renderemmo utilizzabile: fra una società (per di più in guerra: e che guerra...) in cui le imprese industriali, agrarie e commerciali erano ancora di proprietà del capitalismo (chiamiamolo...) familiare e la società del turbocapitalismo finanziario che ha nelle organizzazioni trans e super nazionali (Fmi, BM, etc...), nelle S.p.A. e nelle banche private i veri centri di proprietà (delle imprese...), non vi sono punti di sutura talmente efficaci da rendere trasferibile, sic et simpliciter, il modello originario al nostro dato tempo... Ma quell’eredità (del fascismo, intendo...) non è una reliquia: non deve essere custodita e venerata, ben sì convertita in valore di spesa corrente...
Per quanto occorre stabilire, abbrevierò la definizione di socializzazione a quel che segue: socializzazione = divisione delle responsabilità (a), degli utili dell’impresa (b) e reinvestimento produttivo e sociale del super profitto che eventualmente ne deriva (c)... Procediamo a ritroso e partiamo dal terzo postulato (c): reinvestimento produttivo e sociale del super-profitto. Ora, in un contesto come il nostro che si fonda proprio sulla logica del super-profitto, per di più a qualunque-costo, chiedere (o imporre, ammesso che lo si possa...) ai nuovi proprietari delle imprese (l’aristocrazia finanziaria: banche etc..) di rinunciare alla loro logica, può voler dire scatenarli nell’esercizio che gli riesce meglio: affamare stato e popolo (l’ancòra recente caso Argentina insegna...). Si può pretendere tanto? No, per il momento, non si può. Come diceva Benito Mussolini: “La natura non procede a salti... e nemmeno l’economia...”. Pretendere, in maniera estremista, tutto e subito è la chiosa di rivoluzionari destinati a rimanere per sempre allo stato infantile (così diceva, più o meno, Lenin e, infatti, il più grande reazionario di tutti i tempi, Stalin, che gli successe, non avanzò di un millimetro sulla via del “tutto il potere ai soviet”, cioè ai consigli autonomi di impresa, anzi: retrocesse, e di molto, dalle premesse e promesse iniziali...). Il rivoluzionario adulto, in vece, procede per gradi. E secondo i gradi del possibile...
Sul postulato (b): divisione degli utili, il discorso diventa possibilista. Sia pure, sempre per il momento, a macchie di leopardo e per volontà personale... Nel Manifesto di Polaris, al punto 9., si legge: “Realizzare le autonomie, secondo principi ontologici ed esperienza storica della socializzazione, [dove] per autonomie intendiamo l’organizzazione di spazi co/operativi nella società, nel lavoro, nelle arti e in ogni ambito l’uomo si trovi a compiere l’opera della sua vita...”. Ecco, si tratta di concretizzare (come e dove è possibile...) esattamente questo: creare spazi autonomi di impresa (sociale e/o economica...) in cui il principio della divisione degli utili possa essere immediatamente reso operativo. Il che richiede la precisazione che segue...
L’operaio (cioè: il prestatore d’opera variamente inteso...) è stato educato e indotto (da oltre sessant’anni di proliferante persuasione liberal-socialista, yes...) a difendere due cose: il posto di lavoro fisso e il salario... Il turbocapitalismo (nell’ultimo decennio o giù di lì...) lo ha quasi dissuaso (l’operaio...) dal pretendere l’inalienabilità del “posto fisso”: il lavoro interinale ha ormai una voce in capitolo di bilancio (nel mercato delle imprese...) al meno pari, se non superiore, a quello (del lavoro...) a tempo indeterminato... I sindacati istituzionali mediano quel che possono (poco e male...) ma, alla lunga (non troppo...), si arriverà alla completa (o quasi...) mobilità della forza lavoro. In media analisi, il messaggio, appena sottinteso dal turbocapitalismo, è questo: un posto di lavoro vale un altro, l’importante è il salario (cioè il reddito sicuro...). Un rivoluzionario italiano, tal Mazzini Giuseppe, propagandava, in vece, esattamente il contrario: rinunciare alla sicurezza del salario e pretendere, più tosto, la piena proprietà e responsabilità (dell’operaio...) nell’impresa (in cui è occupato...). Occorrerebbe, per tanto, creare delle isole, dei modelli che incrinino e controsovvertano (vedi, per il concetto di “controsovversione”, il Manifesto di Polaris...) la (sovversiva...) tendenza imperante: “niente-sicurezza-del-posto-di-lavoro = massima sicurezza del salario”, in quest’altra formula, rivoluzionaria ed appropriata: “abolizione-del-salario (almeno di quello in progressione per scala mobile, contingenza etc, lasciando eventualmente un margine al reddito minimo garantito...) = piena-proprietà e divisione-degli-utili-dell’impresa...”. Quello che va disintegrato, in somma, è il regime salariale che rende l’individuo schiavo del mercato del lavoro e non artefice della fortuna (o della sfortuna...) della SUA (nel senso di proprietà partecipe...) impresa di lavoro... Esiste in Italia una legislazione che consente (per via volontaria...) la realizzazione di questi laboratori, anche se, allo stato attuale delle cose, è usata contro natura da medi imprenditori (pescecani...) che sfruttano il prestatore d’opera (per lo più immigrato, ancor che legittimato...) in società (alcune imprese di lavaggio-auto, per l’esempio che mi è noto...) la cui presunta partecipazione agli utili nasconde il puro sfruttamento del prestatore d’opera (l’operaio, dicasi...). E però esiste... In somma, un margine utile d’intervento c’è... Occorre, però - e corsivo con forza il “però” - che dietro la creazione di queste isole autonome, di questi laboratori sperimentali, ci sia un’etica condivisa dal fornitore privato di capitale e dal fornitore di forza-lavoro. Perché, come diceva Ezra Pound: “Nessun sistema economico funziona se non è sorretto da un fortissimo senso etico...”. Cioè - detto in altre parole -: da un fortissimo senso di (condivisa...) responsabilità...
E veniamo al punto (a) della definizione sopra data di socializzazione: responsabilità dell’impresa. Essere proprietari di un’impresa, significa assumersi la responsabilità della sua gestione... Che, oggi, e ieri dalla rivoluzione industriale, questa (la responsabilità di gestione dell’impresa...) sia privilegio (e onere...) assoluto del fornitore di capitale, è un avvento storico che ha sotto messo la forza-lavoro all’arbitrio di chi possiede la moneta (i soliti noti...). Situazione, questa, neanche più mediabile dallo stato, avendo (esso: lo stato...) rinunciato, secondo dettame liberista, a qualsiasi ipotesi di intervento nell’economia, se non per cedergli porzioni utili di intra-prese pubbliche... Né (più mediabile né meno...), dallo spauracchio della lotta di classe, diventata, ora mai, una icona romantica assolutamente disinnescata dagli attuali assetti del potere politico-economico... Riesumarla (la lotta di classe...) non servirebbe a nulla (e neanche mi interessa...). Occorre perseguire altre vie... Per esempio, il giorno in cui: “saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque direzione si eserciti”, come predicava Mazzini, il vizio marxista della contrapposizione di classe sarebbe un insulto alla logica... Così come pure la pretesa del capitale di essere l’unico giostraio dell’impresa... E, proprio come affermava Mazzini: dal momento in cui tutti fossimo responsabili dell’impresa economica, dal momento in cui, cioè, tutti fossimo operai, statene certi la preveggenza di Corridoni si avvererebbe e: “la questione sociale sarebbe definitivamente risolta...”. Potrei, per aggiunta, chiosare sul concetto di “operaio” - definito da Ernst Jünger - “padrone della tecnica” e, quindi, del “destino” di questo dato mondo: ma finiremmo lontani da ciò che qui importa stabilire e, quindi, glisso dal verticale (e vertiginoso...) metafisico per restare nel campo orizzontale della società. E, in questo campo, il possibile da farsi è abbastanza ampio e largamente plausibile, fin anche all’interno dell’attuale legislazione costituzionale, figuratevi un po’...
L’articolo 46 della Costituzione della Repubblica italiana, in fatti, recita:
“Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.”
Si dirà, allora: quali farfalle andiamo cercando sotto l’arco di Tito? Siamo già nell’era delle condivisione delle responsabilità (dell’azienda, dell’impresa...). Attenzione: leggete bene... L’articolo costituzionale afferma che: “il diritto dei lavoratori a collaborare (...) alla gestione (quindi alla responsabilità...) delle aziende è riconosciuto (...) nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi”. Bene, anzi malissimo: si dà il caso che quelle leggi che dovrebbero stabilire “i modi e i limiti della gestione delle aziende” da parte dei lavoratori, non siano mai state promulgate. Proprio così... Una norma della Costituzione italiana è, allo stato d’oggi (dopo sessant’anni...), completamente inevasa per mancanza di un’adeguata legislazione applicativa... E, guarda caso, è una norma che fa la rima a baciare con alcuni concetti fondamentali del Manifesto di Verona e della Costituzione della Repubblica sociale italiana, che recitano:
Art. 12 del Manifesto di Verona: “Il popolo partecipa integralmente, in modo organico e permanente, alla vita dello Stato e concorre alla determinazione delle direttive, degli istituti e degli atti idonei al raggiungimento dei fini della Nazione col suo lavoro, con la sua attività politica e sociale”.
Art. 12 della Costituzione della Rsi: “ In ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai coopereranno intimamente - attraverso una conoscenza diretta della gestione - all’equa fissazione dei salari, nonché all’equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori”.
Io, che - come ben sapete - non sono un esegeta della Costituzione della Repubblica italiana, non so come questo art. 46 ci sia capitato dentro. Però, c’è capitato... E, sì come c’è capitato, e dovrebbe piacere a tutti voi, oltre che a me, sarebbe il caso di chiederne l’attuazione... Sarebbe necessario, in altre parole, intraprendere l’iniziativa per una proposta di legge popolare che pretenda - sì, pretenda, porco giuda - la promulgazione di leggi idonee a renderlo operativo... È troppo? Bene: che lo vengano a dire ai cinquantamila firmatari della proposta di legge che è auspicabile presentare al più presto. E lo spieghino, coloro che eventualmente rigetteranno questo disegno di legge, anche agli altri 57 o 58 milioni di italiani che potrebbero essere chiamati a testimoniare sulla validità della richiesta...
Esiste, poi, il “problema della casa”, che è da considerarsi aspetto fondamentale per la piena socializzazione della nazione. Qualcosa - soprattutto a Roma e nel Lazio - si sta già muovendo in questa direzione. L’attività delle Osa (Occupazioni a scopo abitativo) e delle Onc (Occupazioni non conformi...), che hanno in Casapound il fuoco d’origine, stanno realizzando laboratori validi di esperimento alternativo alla prassi politica in auge, liberal-liberista, dell’abitazione... In oltre, sfruttando i luoghi del possibile istituzionale, le Osa stanno promovendo un’iniziativa di legge regionale per la concessione di “mutui sociali” a famiglie affamate dall’affitto o dai mutui bancari a tassi usurai... Io ritengo il movimento (delle Osa...) valido, in linea con i principi della socializzazione ed...imitabile... Agli uomini di buona volontà, il richiamo a procedere...
Esitono, in oltre, altri margini di (socializz)azione. Dal 1989, a Porto Alegre in Brasile, ha preso corpo un’idea che ci assomiglia: far partecipare direttamente il cittadino alla gestione della spesa pubblica della sua città, del suo municipio, del suo territorio. Attenzione: qui non si può trattare, evidentemente, di divisione degli utili, ma si può parlare, tranquillamente, di responsabilità diretta del cittadino nella gestione della spesa pubblica. Così, rientra in gioco, per sino, il punto (a) della definizione di socializzazione data a monte: reinvestimento produttivo e sociale del super-profitto... Che il super profitto, nella fattispecie, non lo sia e sia, in vece, il capitale in bilancio (quanto, cioè, noi versiamo all’erario...) di un ente territoriale, fa poca differenza. Quello che vale e che va sfruttato è il momento di partecipazione diretta del popolo a gestire, socialmente, un monte utile e pubblico di spesa... In Italia, l’idea è stata ripresa dai comuni di Piacenza, Venezia, Napoli e, a Roma, da alcuni minicipi (X e XI...); in Toscana, oltre che da Firenze, anche da altri 40 comuni; in Lombardia dai comuni di Mezzago, Vimercate e Pieve Emanuele. Il metodo - perché, no? - ci piace, anche se lo chiamano “Bilancio partecipativo” e non con il suo vero nome: socializzazione. Ma noi che non viviamo (solo...) di nominalismi, leggiamo e approviamo quanto segue dal “Regimento interno dell’Orçamento Participativo” (statuto originario dell’esperimento avviato a Porto Alegre...).
«Il Bilancio Partecipativo (Orçamento Participativo...) è una forma pubblica di gestione del potere, con cui i cittadini decidono come sarà utilizzato il bilancio pubblico. È un modo di controllare da dove viene il denaro e dove va, una maniera con cui tutti partecipano a decidere come le risorse saranno spese».
Il Bilancio Partecipativo è, in somma, un processo che accompagna e sostanzia la definizione dei Piani annuali di investimento del Comune, cioè di una porzione del bilancio municipale (in genere intorno al 20, 25% dell’intero...) che costruisce linee ed indirizzo per le spese di capitale, ovvero di quei fondi annualmente destinati agli investimenti in strutture e servizi in ambito sociale. In questa direzione, sono possibili due linee di indirizzo non alternative, anzi percorribili insieme:
1) partecipare a questi laboratori popolari già esistenti e cercare di indirizzarli secondo i nostri principi d’iniziativa sociale: il diritto a partecipare è di tutti i residenti per abitazione, domicilio, attività lavorativa o di studio. Non è richiesta, in somma, tessera di partito o altra affiliazione;
2) spingere gli enti territoriali (comuni, province, regioni...) controllati da apparati che, in qualche modo, ancora si richiamano (più o meno consapevolmente...) alla nostra idea di socializzazione ad avviare il medesimo esperimento...
Ricapitolando. Sul “che fare?”, oggi, per rendere la socializzazione pratica nel “possibile” dei tempi che corrono zoppi, l’esposizione che precede si sintetizza in quel che segue:
Primo - non pretendere tutto e subito... Non pretendere subito, sopra tutto, il reinvestimento sociale dei super-profitti dell’impresa economica; ATTENDERE, PREGO...
Secondo - avviare laboratori sperimentali di divisione degli utili dell’impresa per realizzare quelle “organizzazioni [autonome] di spazi co/operativi nella società, nel lavoro, nelle arti e in ogni ambito l’uomo si trovi a compiere l’opera della sua vita...” (punto 9. del Manifesto di Polaris) che possano servire da modello di riferimento; AVVISO DI CHIAMATA...
Terzo - promuovere un disegno di legge popolare per l’attuazione dell’art. 46 della Costituzione della Repubblica italiana che renderebbe immediatamente operativa la “responsabilità del lavoratore nella gestione dell’impresa”; LINEA LIBERA...
Quarto - attivarsi per la promozione legislativa del “Mutuo Sociale”, oggi, nel Lazio, domani, sull’intero territorio nazionale, al fine di determinare la piena proprietà della casa da parte delle famiglie; LA CHIAMATA È IN CORSO...
Quinto - sfruttare i margini di terreno utile del cittadino nell’amministrazione della spesa pubblica, come realizzato nella prassi del così detto “Bilancio partecipativo”, da parte di alcuni enti territoriali e praticabile, vieppiù, da altri a noi (presumibilmente...) limitrofi; LINEA LIBERA..
Il vento si alza... Arriva la Seconda Ondata...

Nessun commento:

Posta un commento